E’ una storia operaia? un romanzo sociale? autobiografico? epistolare? O il reportage dei 2 anni di lotta della GKN? La fabbrica dei sogni è tutto questo, e altro ancora. Un’abile alternanza di realismo e utopia che invita a procedere senza fermarsi nella lettura delle pagine di Valentina Baronti.
Un testo che alterna in modo magistrale registri narrativi differenti, e intreccia spunti tematici in apparenza lontani tra loro, se non contrastanti, come del resto anticipa l’ossimoro del titolo: la fabbrica, un’entità concreta e storicamente definita, e il tema del sogno che le fa da costante contrappunto.
Anche i tempi della narrazione infrangono l’ordine cronologico degli eventi, nel susseguirsi di capitoli diversi nello stile della scrittura e persino nella scelta tipografica.
Il presente che vive la protagonista Agata, donna cinquantenne nata in una famiglia operaia e contadina, la vede partecipare insieme ai tanti “solidali” alla lotta della GKN. Ambientato quasi sempre nella fabbrica, racconta della sua partecipazione all’assemblea permanente più lunga della storia sindacale italiana, al superamento della timidezza iniziale e al suo risveglio politico e emotivo. Perché stando insieme alle operaie e agli operai che lottano non solo per il proprio posto di lavoro ma per una progettualità collettiva, Agata ritrova calore e sicurezza in se stessa, e sperimenta un’evoluzione umana e politica che è un vero e proprio risveglio alla vita. Contagiata dalla lotta operaia, comincia a pretendere rispetto sul lavoro e decide di uscire dal brutale circuito del precariato. Comincia anche a concedersi un’emozione forte, che le procura l’altro personaggio del romanzo: Lorenzo, figura affascinante e tenebrosa da cui è attratta e in cui riconosce la sua stessa solitudine, la stessa paura di amare.
In questi capitoli il registro del quotidiano è interrotto da frequenti flash back che richiamano dall’infanzia le persone amate e non più in vita, come la nonna e il padre, e luoghi ormai trasformati, come la grande casa colonica. Affiora qui la memoria di quello che era Agata ragazza: gli anni appaganti della scuola, il sogno di diventare insegnante; e poi giovane donna, piegata dalla frustrazione dei tanti lavori precari che spengono in lei ogni passione. Agata si è adeguata a una vita insoddisfacente e ora, nella fabbrica occupata, ha trovato la spinta per recuperare la passione e la curiosità, l’orgoglio e la voglia di riscatto sociale.
Si affaccia poi sulla scena un passato più lontano, quasi onirico, in cui compare come protagonista assoluta Agata bambina. Qui veniamo trasportati in un’altra epoca, nella vecchia colonica senza acqua corrente, dove la nonna “le parlava della scuola che non le avevano fatto frequentare, delle ginocchia che si era spaccata lavorando nei campi, della curiosità che aveva, che era una voglia di conoscenza” (p. 9). E dove rivede il babbo, comunista “con la sua ingenua fantasia, il suo entusiasmo timido, la sua paura”. E solo adesso, sembra che le dicano: “Tu non accettare mai, non ti piegare: scalcia, sgomita, ama, sogna, Lo puoi fare, lo devi fare” (p. 11).
Intervallati alla narrazione in terza persona compaiono, improvvise e impreviste, le lettere rivolte da Agata a non meglio identificati “ragazzi”, nelle quali si ricostruisce con precisione il succedersi dei fatti che, dal 19 luglio 2021 al 20 novembre 2023, attraverso mobilitazioni, assemblee, momenti di elaborazione collettiva, hanno rappresentato l’evoluzione di un’occupazione in progetto di fabbrica socialmente integrata. In queste pagine la vocazione di insegnante della protagonista si libera in pieno, tanto che siamo di fronte a vere e proprie “lezioni”, di quelle che ogni insegnante dovrebbe fare in classe. Si parte dai fatti e si spiega come saper leggere tra le righe del discorso pubblico, come capire cosa c’è davvero dietro le notizie parziali o fuorvianti della stampa. Agata insegna ai suoi “ragazzi” a formarsi un giudizio critico, a partire dalla conoscenza diretta degli eventi, a farsi guidare dalla giustizia sociale e dalla coscienza di classe.
I 7 brani intitolati “Sogni” sono centrali per conoscere i desideri di Agata, perché nel sogno vive situazioni e momenti che non ha avuto il coraggio di concedersi nella vita reale. La aiutano a esprimere emozioni che non ha saputo vivere. Sognare è il modo di fare ordine nelle sue emozioni, ma è anche scrivere: “tornata a casa, accende il computer e sogna” (p.33). I sogni intimi di Agata sono però connessi anche al sogno collettivo di un mondo migliore, da conquistare attraverso la lotta e il coraggio di rompere regole e catene imposte dalla società capitalista.
Il privato e il pubblico coincidono e, come nella fabbrica entra la luce che la guida verso il riscatto sociale, così le emozioni fortissime provate nell’incontro con Lorenzo la scuotono dal torpore emotivo. Questa duplice rinascita ha un effetto potente anche nel suo rapporto col corpo, un filo rosso che percorre tutta la scrittura di Valentina Baronti. La protagonista parla spesso di come vive il suo corpo, un corpo di donna che la imbarazza, l’ha sempre fatta sentire inadeguata, la fa restare sullo sfondo, quasi a mimetizzarsi e non essere vista. Così, i primi tempi negli spazi della fabbrica “si immagina vista di dietro mentre cammina con quel suo passo goffo e così poco femminile” (p. 41). E nel Secondo sogno, appare come una donna che arrivava da sola “un bel volto rinascimentale piantato su un corpo che non sembrava il suo…e lei che sembrava vergognarsene, chiusa nelle spalle e con un tremore costante nelle mani” (p. 48). Ma “Il senso di inadeguatezza di Agata comincia a incrinarsi quando capisce di non essere più sola” (p. 95). E finalmente, non più nascosta tra la folla, prende il coraggio e sfila in prima fila dietro lo striscione “Insorgiamo”, davanti agli operai.
La sua trasformazione è compiuta. Non più sola, non più goffa, Agata va incontro a una vita che la fabbrica in lotta le ha reso possibile. E per questo, La fabbrica dei sogni può essere letto anche come uno specialissimo romanzo di formazione Working Class.
Ornella De Zordo
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