Razza: una parola da eliminare

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“Le parole hanno un peso, generano significati, emozioni e sensazioni. Alcune pesano più di altre, e tra queste la parola “razza”. È un termine che, finalmente, è in via di cancellazione, almeno per ciò che riguarda le scelte ufficiali di molte nazioni nel mondo. Le ragioni per la sua condanna all’oblio sono molteplici e di varia origine. Esiste una ragione scientifica (biologica), e, naturalmente, una ragione etica finalizzata a scoraggiare atteggiamenti culturali discriminatori. L’etimologia della parola razza viene individuata, secondo alcune fonti, nella parola haraz, che in francese antico, già dal Medioevo, indicava l’allevamento di mandrie di cavalli; tuttavia è dal primo ‘800 che assunse il significato che fondamentalmente resiste fino ad oggi. La responsabilità iniziale, almeno in ambito scientifico, è da ricondurre agli studi di antropologi che nel XIX secolo si accanirono a trovare una spiegazione “scientifica” che giustificasse la diversità e la variabilità dei gruppi umani nel mondo. Era il secolo delle classificazioni, della sistematica ritenuta utile alla ricostruzione della storia naturale dell’uomo. La parola “razza” si impose come pilastro di una architettura orientata a descrivere l’uomo occidentale al vertice di una piramide evolutiva, in netta superiorità a popoli e culture differenti. In altre parole è da questo periodo che il termine “razza” comincia a espandersi e a a costruire il concetto di razzismo. Così gli studiosi e gli antropologi più famosi d’Europa, in particolare francesi e tedeschi, si sbizzarrirono nell’individuazione di gruppi omogenei da tipizzare. Il colore della pelle, quello dei capelli, degli occhi, la forma della testa, del tronco, l’altezza, insomma moltissimi dati morfometrici e morfologici furono variamente utilizzati nelle classificazioni. Ciascuno utilizzava il parametro distintivo che gli sembrava più significativo, con il risultato che nel corso del XIX secolo vennero create svariate classificazioni degli umani, dalle cinque “razze”, alle sette, undici, fino alle ventidue dell’ultimo scienziato che si cimentò nell’impresa. E aveva un bel dire Charles Darwin quando obiettava che le differenze fisiche tra i gruppi erano così tante che sarebbe stato impossibile suddividere il genere umano in “razze” e soprattutto quando formulò la sua teoria, in tema di evoluzionismo, del monogenismo. Semplificando, il monogenismo prevedeva l’esistenza di un antenato comune per tutta l’umanità, mentre tra gli scienziati prevaleva la teoria del poligenismo. Questa dicotomia non è di poco conto, se consideriamo che, secondo la teoria poligenica, ogni “razza” avrebbe un’origine separata, con la conseguenza che gli appartenenti a una certa “razza” non avrebbero potuto in nessun caso fare parte di gruppi diversi, originati a loro volta indipendentemente. Da questo assunto fu estremamente facile formulare giudizi di superiorità o inferiorità di gruppi interi di persone.

Questi presupposti furono amplificati in un grande complesso politico-ideologico, culminato nella grande tragedia del razzismo novecentesco. In un crescendo di propaganda pseudo-scientifica la parola “razza” ha finito per mettere in piedi una certa idea di identità, di appartenenza, rafforzata da frasi come “purezza della razza”, “difesa della razza”, “razza ariana”. Le conseguenze sono purtroppo note a tutti.

Negli anni ’50 del novecento la scoperta del DNA ha definitivamente messo fine all’assurdità dell’esistenza delle “razze”. Ciononostante la parola ha continuato a sopravvivere, a essere pronunciata, a essere usata per ferire o per giustificare azioni politiche, o ideologiche, o entrambe. Ancora negli ultimi anni del ‘900 i libri di testo scolastici e universitari riportavano la ripartizione del genere umano in cinque “razze”, suddivise più o meno su base geografica.

Eliminare dal nostro linguaggio questa parola non significa ovviamente eliminare il razzismo, consapevoli che all’infondatezza su base biologica non ne consegue quella su base sociale e culturale. Tuttavia è necessario eliminarla dal nostro lessico corrente e ufficiale, in quanto espressione di un sistema ideologico e storico carico di colpa e di responsabilità, se vogliamo organizzare una società di convivenza rispettosa che combatta un linguaggio discriminatorio.

Non si tratta di una operazione di pulizia di coscienza (o forse non solo) e ancor meno di culture cancel o di limitazione della libertà di espressione, che non esiste in caso di oltraggio, provocazione e insulto. Potremmo forse ammettere una punta di ipocrisia, tuttavia l’operazione di cancellazione linguistica non è mirata all’oblio della storia ma a frenarne il perpetuarsi.

E non possiamo accettare nemmeno l’obiezione, rilanciata da alcuni, che anche la nostra Carta Costituzionale all’articolo 3 cita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Si consideri che al tempo della sua formulazione, la scienza non era ancora in grado di escludere l’esistenza delle “razze”, e in ogni caso i Padri Costituenti dibatterono a lungo sulla scrittura di questa parola finendo per decidere che citarla in questo nuovo contesto era un modo per svuotarla della sua accezione precedente, e un modo per ricordare i tanti morti che ne sono derivati.

L’anno scorso, sulla scia di scelte già operate in altri paesi, le Commissioni Affari Costituzionali e Lavoro della Camera hanno votato all’unanimità per l’abolizione del termine “razza” da ogni documento amministrativo della Repubblica Italiana, sostituendolo con il termine “nazionalità”.

Nel linguaggio comune, dovremmo praticare insieme un uso cosciente delle parole, che tenga conto di nuove consapevolezze sociali. La lingua cambia nel tempo in base all’uso che ne facciamo, e si adatta a nuove percezioni e sensibilità. Siamo in grado di trovare onorevoli sostituti per indicare i gruppi umani, come: “culture” o “comunità”, che privilegiano l’accezione dei gruppi come insieme di persone con interessi e tradizioni condivise. Anche “etnia” o “gruppo etnico” indicano lo stesso concetto, seppure queste espressioni abbiano subito il peso di accezioni negative e violente, come ad esempio “pulizia etnica” o “etnocidio”.

 

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Maria Gloria Roselli

Curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. L'oggetto delle sue ricerche privilegia la storia delle collezioni e dei collezionisti, in modo particolare in relazione con l'Oriente. Si occupa di conservazione, riordino e valorizzazione del patrimonio fotografico storico del Museo, svolgendo ricerche su tecniche e storia dell'archivio del Museo.

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