La storia di Haiti ha un peso sul futuro del mondo. Per esplorarne anche solo le fasi principali ci vorrebbero settimane: ho scelto alcuni temi paradigmatici, tra loro coerenti e legati da una logica inarrestabile di espropriazione del potere e di impoverimento della grande maggioranza del popolo haitiano.
La colonizzazione del 1492
È stato l’inizio della costruzione istituzionale della razzializzazione, indispensabile per sostenere la globalizzazione del sistema capitalista. Il 4 dicembre 1492, gli indiani Taïno, come erano soliti fare dopo una giornata di sole e una serata di canti e fraternità, si addormentarono pacificamente sulla spiaggia. Erano gli ultimi giorni felici sulla loro isola. Quella che seguì fu una lunga storia di terribile sofferenza umana.
Il mattino seguente, il 5 dicembre 1492, scoprirono con stupore tre mostruose navi nella baia. Non fu dunque Cristoforo Colombo a scoprire Haiti. Furono gli indiani, per loro grande sfortuna, a scoprire Cristoforo Colombo e i suoi uomini armati mentre a loro volta scoprivano gli stranieri sulla propria terra. Come se non bastasse, questi ultimi accolsero calorosamente e fraternamente i loro futuri assassini.
Tutto ciò avvenne prima che fossero tutti rapidamente uccisi con le armi, decimati dai lavori forzati e dalle malattie che accompagnarono le spedizioni di Colombo e dei suoi successori. Lo sterminio degli indiani Taïno di Haiti – in realtà il genocidio, perché di genocidio si trattò – chiuse una porta alla possibilità dell’evoluzione pacifica delle società umane. A questo proposito, la loro storia potrebbe trovare posto nel libro di David Graeber, L’alba di tutto: una nuova storia dell’umanità, con la sua descrizione delle molte società umane distrutte, in particolare, dall’imperialismo e dal capitalismo occidentale.
Viene da chiedersi se fu una coincidenza del calendario o l’inizio della costruzione metodica della xenofobia europea, quando, proprio nel 1492, la regina Isabella di Castiglia e suo marito Ferdinando d’Aragona firmarono in Spagna un editto che invitava gli ebrei a lasciare il paese. Nel suo libro Capital et race: histoire d’une hydre moderne, Sylvie Laurent sottolinea infatti che la missione di Cristoforo Colombo fu sponsorizzata dal regime di un paese già fortemente impegnato nella purificazione della razza ebraica. La seconda missione di Colombo fu finanziata in gran parte con i fondi generati dalla vendita delle proprietà degli ebrei espulsi dalla Spagna.
Il 1492 segnò un punto di svolta verso la razzializzazione gerarchica delle società e l’aumento vertiginoso del reddito del capitale derivante dal lavoro sottomesso e dalla cattura delle risorse naturali nelle colonie. Naturalmente, non era la prima volta che il sistema di accumulazione e concentrazione del capitale, generato dai profitti della sua predazione su parte del lavoro degli esseri umani, era all’opera. Tutti gli imperi e persino i vari regni o città-stato, ciascuno alla scala che gli era propria, avevano utilizzato la stessa strategia: quella dello sfruttamento dei lavoratori liberi o sottomessi. Ma c’è un prima e un dopo il 1492, allorquando ai poteri predatori localizzati subentrò la razionalizzazione del potere nei vari continenti, e la piovra tentacolare del Capitalocene, con i suoi strumenti altamente razzializzati, iniziò a prendere forma. Come ha scritto Eric Williams: “La schiavitù non è nata dal razzismo; il razzismo è stato il prodotto della schiavitù”. O Pierre Bourdieu: “Sappiamo che ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso volto a legittimare la forza di chi la esercita”.
Nel 1492 si è visto l’inizio della colonizzazione attraverso la tratta dei neri, di una schiavitù tecnicizzata, razionalizzata e prodotta in serie, con una prefigurazione del rigore dei campi di sterminio nazisti ma, nel caso dei neri, con l’obiettivo di far fruttare il capitale, si è avuto un risultato ancor più orribile ancora della scomparsa genocida degli ebrei. Il crimine contro l’umanità, anche se è importante averlo finalmente chiamato così, è ancora un concetto debole per cogliere ciò che è accaduto; è stata la negazione di tutta l’umanità dei neri, è stato un genocidio dell’umanità. Ridotti allo stato di macchina di produzione per la redditività del capitale investito. Per tre secoli, privati di ogni possibilità di pensiero indipendente, del diritto a relazioni familiari e affettive durature, di qualsiasi proprietà, compreso il proprio corpo. Un vuoto, un abisso per ogni schiavo. Il genocidio attraverso la morte, qualunque sia il metodo impiegato, è un orrore senza nome; ma come possiamo descrivere il genocidio di umanità per gli esseri viventi, esseri senzienti e pensanti a cui viene negato il diritto di essere umani per tutta la vita? Ci furono, ovviamente, eccezioni al maltrattamento degli schiavi ma, come i dibattiti sullo status degli schiavi, rimasero una minoranza e non servirono a cambiare la terribile condizione degli schiavi.
Il 1492, con la colonizzazione di Haiti, segnò dunque un punto di svolta. Accelerò la già una strisciante razzializzazione medievale che stava iniziando a saturare la cultura europea. Nel suo libro Capital et race, Sylvie Laurent ricorda che nel 1444 un carico di 235 schiavi neri provenienti dal Senegal fu scaricato a Lisbona. Nel 1486, la corona portoghese creò la “Casa degli schiavi di Lisbona” per regolare il loro arrivo, tassazione e vendita. Nel 1460, i genovesi svilupparono il sistema delle piantagioni di zucchero a Capo Verde e poi a São Tomé e nelle Canarie… Furono questi i precursori delle piantagioni nei Caraibi. È a São Tomé che fu concepita e sperimentata la prima struttura di piantagione-fabbrica con esseri umani mercificati e avviata la teorizzazione della naturale inferiorità dei neri. Colombo conosceva bene questo sistema, avendo visitato Madeira già nel 1478. Lì imparò a conoscere la distruzione della natura, compresi i grandi incendi, e la coltivazione della canna da zucchero da parte degli schiavi.
“Tra il 1441 e il 1521, circa 156.000 schiavi africani furono sbarcati nella penisola iberica e nelle colonie atlantiche” (Sylvie Laurent). Quindi non è stato dopo aver “scoperto Haiti” che Cristoforo Colombo e i suoi uomini hanno ideato il sistema delle piantagioni con schiavi neri, ma è stato ad Haiti che hanno razionalizzato il sistema per renderlo un modello di redditività su larga scala.
Lo schiavo diviene sia capitale, sia produttore di capitale. Per inciso, cinquecento anni dopo, in un’altra epoca – la nostra –, gli esseri umani con le loro competenze e la loro produzione fanno ancora parte del capitale e della sua potenziale crescita quando le aziende vengono vendute. Le condizioni non sono ovviamente paragonabili, ma il legame tra sistema capitalistico e umani mercificati rimane fondamentalmente lo stesso.
Il 1492 segnò un passo importante verso una globalizzazione fino ad allora sconosciuta, di capitali, materie prime e beni, compresi i numerosi schiavi. Soprattutto, il 1492 segnò l’inizio dello sviluppo di argomenti teologici e giuridici per giustificare la schiavitù nera.
Seguirono in Francia, nella medesima logica, i “codici neri” del marzo 1685 con un editto reale del nostro “meraviglioso re Luigi XIV”, ma anche quelli di inglesi, portoghesi, olandesi… Il codice nero francese fu abolito nel 1848! Anche se la tratta degli schiavi era stata abolita nel 1815. Forse dovremmo porci una domanda: quando è stato il “Secolo dei Lumi”? Su Wikipedia sarebbe stato tra il 1650 e il 1800. Vi consiglio di leggere le parti del libro di Sylvie Laurent dedicate ai nostri grandi filosofi e scrittori e al loro rapporto con il tema della schiavitù: vi aiuterà a mettere in prospettiva l’estrema intelligenza degli intellettuali dell’Illuminismo, per secoli venerati senza riserve. In particolare, mentre Rousseau riteneva che il “doux commerce” [dolce commercio, NdT] fosse solo un’illusione, Montesquieu e Voltaire non si ritrassero dal fare un’apologia del commercio come “rimedio alla guerra”, anche se talvolta ne denunciarono gli eccessi. Tentando in ogni modo di evidenziare il ruolo emancipatore e unificatore che individuavano nel commercio, minimizzavano le dure condizioni in cui venivano prodotti i prodotti scambiati.
La colonia haitiana fu spagnola dal 1492 al 1615, poi francese dal 1615 al 1804, senza che questo cambiasse la condizione degli schiavi.
1804: l’indipendenza
Questa è certamente la parte più nota della storia, quindi non mi dilungherò. È il culmine di lotte non sufficientemente documentate (Makandal, [a capo della rivolta contro i bianchi francesi, NdR] fu bruciato vivo nel 1758), ma che non cessarono durante i tre secoli di colonizzazione; del resto, gli schiavi si sono sempre ribellati. Il 14 agosto 1791, la cerimonia di Bwa Kayiman presieduta da Boukman diede il via alla grande rivolta. Fu il culmine di un gruppo eccezionale di capi della rivolta, Toussaint Louverture, Dessalines, Pétion, Christophe, e, soprattutto, un popolo eroico. A migliaia si sono sacrificati per ottenere la libertà di tutti. Hanno avuto il coraggio di realizzare l’inimmaginabile: vincere la guerra contro l’esercito di Napoleone e promulgare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani “tout moun se moun” [in creolo: “ogni persona è una persona”, NdT], ed è stato un popolo nero che ha osato farsi carico di questa liberazione universale. L’impensabile, nel senso letterale del termine, era accaduto. I paesi dominanti non potevano accettarlo. Circa 500.000 schiavi neri stavano distruggendo il potere dei 30.000 bianchi che li sfruttavano. Napoleone inviò più di 33.000 uomini sotto il comando di Leclerc, marito di sua sorella, a dimostrare l’importanza che egli attribuiva alla volontà di cancellare l’impensabile: ovvero, l’indipendenza di un popolo nero schiavizzato.
Ci sarebbe voluto poco più di un decennio di terribili lotte in cui i capi delle rivolte dimostrarono un coraggio e un’intelligenza strategica straordinari, cui in seguito si ispirarono le lotte di liberazione dell’America Latina e di altri paesi. Per minimizzare il riconoscimento del genio strategico di questi capi e dei loro uomini, si è spesso detto che la febbre gialla fu la causa della sconfitta dell’esercito di Napoleone, ma basta consultare gli scritti di numerosi storici, spesso liberamente disponibili su Internet, per scoprire fino a che punto i capi haitiani furono in grado di stringere alleanze con spagnoli, inglesi e francesi, intrappolando infine questi ultimi e conquistando, così, l’indipendenza.
Tuttavia, quando accadde l’impensabile, tutti i governi di quello che oggi chiamiamo Occidente cospirarono per non riconoscere l’indipendenza di Haiti, nella segreta speranza che la Francia, o uno dei vari governi occidentali, riconquistasse l’isola che era allora considerata la perla delle Indie Occidentali per via delle piantagioni tanto redditizie per i proprietari. Ma data la determinazione del popolo haitiano, nessuno volle correre questo rischio.
Iniziò quindi un lungo processo di destabilizzazione e di ricerca di una nuova sottomissione attraverso un altro mezzo: quello dell’economia e del commercio. Una missione francese dopo l’altra cercò di negoziare diversi tipi di protettorato, per un ritorno all’amministrazione fiduciaria, ma gli haitiani erano intrattabili: volevano l’indipendenza a tutti i costi. Tanto che Pétion, uno dei loro capi, avanzò addirittura proposte di acquisto, nonostante la vittoria militare. Nacque così l’idea di risarcire gli ex coloni per ottenere questo riconoscimento. La trappola si richiuse quando Carlo X salì al potere in Francia. Tutti gli Stati europei accettarono l’indipendenza di Haiti, negoziata con Carlo X. Agli Stati Uniti ci vollero invece cinquantotto anni (dal 1804 al 1862) per riconoscere l’indipendenza di Haiti.
1825: la neocolonizzazione
Molti degli elementi qui presentati sono tratti dal notevole libro Haiti- Francia. Les châines de la dette: le rapport Mackau, 1825, pubblicato nel 2021, che per la prima volta rende pubblico il famoso rapporto Mackau, che dal 1825 è rimasto, come per caso, nelle profondità degli archivi francesi. Attraverso diversi articoli di ricercatori, il libro analizza i negoziati tra il presidente Boyer e la sua squadra, e quella francese di Carlo X, guidata dal barone de Mackau, ufficiale e futuro ministro della Marina e Pari di Francia, e accompagnata da solide cannoniere come minaccia militare.
La richiesta francese di rimborso era di 30 milioni di franchi d’oro all’anno per cinque anni, quando le entrate del governo haitiano si aggiravano intorno ai 15 milioni all’anno.
Per costruire questa negoziazione del debito a 150 milioni di franchi, il documento ricorda che essa si basava sul reddito annuo dei coloni, che era di 145 milioni di franchi (alle condizioni del 1789) e che la stima del loro investimento era pari a 10 volte questo valore, cioè 1.450 milioni di franchi. La trattativa cercava quindi di far credere che la somma richiesta fosse ben lontana dal coprire tutte le perdite dell’investimento e che corrispondesse solo a una perdita di reddito annuale. I documenti ovviamente ignoravano il fatto che la terra delle piantagioni era stata completamente rubata agli occupanti originari, gli indiani Taino, e che gli schiavi, per quasi due secoli, non erano mai stati pagati per il loro lavoro.
Tramite il debito così consistente, i francesi pensavano di poter costringere gli haitiani a ridurre il loro budget militare e quindi la capacità di difesa di Haiti. L’idea di riconquistare l’isola non era ancora stata completamente abbandonata. Ma poiché i negoziati si svolgevano sotto la minaccia delle cannoniere, Haiti non aveva alcuna intenzione di ridurre le proprie forze armate. Piuttosto pagare che perdere l’indipendenza.
All’enormità del compenso per l’indipendenza, si aggiungevano condizioni che appesantivano il debito e, soprattutto, miravano alla sottomissione commerciale e finanziaria:
- il prestito che il governo di Haiti avrebbe potuto contrarre per far fronte ai suoi impegni sarebbe avvenuto in Francia (il precursore del CIC in Francia);
- le navi da guerra francesi e haitiane sarebbero state autorizzate a entrare nei rispettivi porti… ma alle navi da guerra haitiane sarebbe stato consentito solo un ingresso parziale per motivi di sicurezza;
- le navi e i cittadini di Haiti si asterranno dall’entrare nelle colonie francesi (per non diffondere la rivoluzione);
- dimezzamento dei dazi doganali di entrata e di uscita per la bandiera francese.
In alcuni anni, i profitti degli azionisti delle banche francesi superarono l’intero budget che lo Stato haitiano poteva destinare alle opere pubbliche.
È interessante osservare da vicino le famose “condizioni” poste dalla Francia nel 1825 per negoziare questo debito e confrontarle con le “condizioni” poste dalla Francia al momento dell’indipendenza delle colonie africane negli anni ’60…. Nel 1960, non era più dignitoso chiedere il rimborso ai coloni, soprattutto perché la continua presenza francese nella maggior parte dei paesi non lo giustificava. Si riscontrano inoltre i vantaggi di accordi commerciali a favore dell’ex colonizzatore e, soprattutto, la presenza di banche francesi e del famoso franco CFA [Communauté Financière Africaine, NdT] come moneta di controllo economico e finanziario. Nel 1825, Haiti era già nelle prime fasi del neocolonialismo in Africa e altrove.
L’ultimo pagamento effettuato dallo Stato haitiano al governo francese risale al 1883. L’importo totale pagato alla Francia fu di 90 milioni di franchi oro, ma Haiti dovette anche sostenere tutti gli interessi sui prestiti bancari, ossia l’equivalente attuale di circa 30 miliardi di dollari in quello che si può senza dubbio definire un debito illegittimo che la Francia deve assolutamente restituire.
Drenando quasi un terzo delle risorse nazionali disponibili, la Francia aveva soffocato ogni possibilità di migliorare la situazione della popolazione per la maggior parte del XIX secolo. Il costo del riacquisto dell’indipendenza all’inizio del XX secolo avrebbe dovuto segnare l’inizio di uno sviluppo autonomo della nazione haitiana, malgrado i numerosi sconvolgimenti politici che il paese stava vivendo. Sconvolgimenti politici che non erano specifici di Haiti, vista la presenza di numerose imprese straniere tedesche, statunitensi e francesi al centro di un’economia capitalista altamente redditizia, che esportava colture da reddito e importava beni di consumo. Il paese avrebbe comunque potuto sperare di orientare meglio il proprio sviluppo. Ma questo significava dimenticare la guerra tra predatori internazionali.
Gli USA – irritati dalla morsa delle banche francesi e, soprattutto, dai loro astronomici profitti –, spinti da Wall Street e approfittando del fatto che la Francia era coinvolta nella Prima Guerra Mondiale, decisero di occupare Haiti.
1915: l’invasione americana
Il 17 ottobre 1914, in nome della sicurezza del capitale statunitense ad Haiti, un commando USA entrò nella banca centrale haitiana e sequestrò la riserva d’oro, allora stimata in 500.000 dollari. Era solo l’inizio.
Nel 1915 si trattò di un’occupazione su larga scala, una “missione di civilizzazione” che coinvolse decine di migliaia di uomini. Lasciarono il paese solo 19 anni dopo, nel 1934, e anche dopo la loro partenza, attraverso l’amministrazione finanziaria che avevano istituito, continuarono a gestire l’economia haitiana praticamente per altri 13 anni, fino al 1947.
Hanno estromesso i francesi dal sistema bancario creando la National City Bank of New York, che in seguito è diventata Citigroup. Si limitarono così a sostituire la francese CIC [Crédit Industriel et Commercial, NdT], che aveva realizzato profitti astronomici ad Haiti, poiché controllava tutte le operazioni finanziarie del governo, ricevendo commissioni su ognuna di esse.
Naturalmente, hanno proceduto allo scioglimento del Parlamento e all’eliminazione sistematica degli oppositori, migliaia dei quali sono stati massacrati. Si sono preoccupati di creare un’amministrazione ai loro ordini, con il preciso scopo di far sì che il paese occupato andasse a beneficio degli interessi USA, in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali e la creazione di piantagioni per l’esportazione dei prodotti sul mercato statunitense. Agirono stravolgendo la Costituzione haitiana e concedendo agli stranieri il diritto di acquistare terreni ad Haiti, il che significa ovviamente gli statunitensi.
Durante l’occupazione americana, gli Stati Uniti investirono molto poco nel paese, a paragone dei paesi vicini. Questo probabilmente per paura dei neri. D’altra parte, reintrodussero la corvée, il lavoro gratuito obbligatorio, che ricordava la schiavitù e che portò a numerose rivolte, la più importante delle quali fu quella dei cacos. Il loro leader Charlemagne Péralte fu giustiziato dagli statunitensi.
Un articolo del New York Times del 20 maggio 2022 ricorda che:
“Ho contribuito a fare di Haiti e di Cuba luoghi dove i ragazzi della National City Bank potevano fare facili profitti”, scrive, nel 1935, il generale Smedley Butler, che aveva comandato le forze USA ad Haiti, aggiungendo di essere stato un “gangster al servizio del capitalismo”.
Dai circa venti rapporti annuali di funzionari USA che il New York Times ha potuto leggere, risulta chiaramente che, in un periodo di dieci anni, un quarto delle entrate pubbliche di Haiti è stato destinato al pagamento dei debiti controllati dalla National City Bank e dalla sua filiale haitiana. All’epoca si trattava di cinque volte il bilancio della scuola pubblica del paese. Alcuni storici sottolineano i benefici tangibili: la costruzione di ospedali, 1.200 chilometri di nuove strade e un servizio civile più efficiente. Ma sottolineano anche che gli USA utilizzarono il lavoro forzato: i soldati legarono con le corde gli haitiani, li fecero lavorare senza retribuzione e spararono a chi cercava di fuggire.
1934 -1957: una moltitudine di presidenti
Una moltitudine di presidenti, alcuni per pochi mesi o giorni. Tra il dicembre 1956 e il giugno 1957 si susseguirono cinque governi provvisori. Il mandato del presidente Estimé, dal 16 agosto 1946 al 10 maggio 1950, fu più produttivo, con il primo Codice del Lavoro, scuole e numerosi investimenti ecc. Haiti fu allora presentata come un modello economico per i Caraibi. Il mandato del presidente Magloire (1950-1956) vide una continuazione degli investimenti con una certa stabilità politica, ma fu a sua volta rovesciato quando, alla fine del suo incarico, cercò di mantenere la carica.
Il periodo dal 1937 al 1957 può essere descritto come un periodo certamente turbolento, ma non troppo diverso da quelli che tutti i popoli liberi attraversano nel corso della loro storia. Durante i 20 anni di indipendenza, Haiti comunque non è stato il paese peggio gestito dei Caraibi, anzi.
1957- 1986: la dittatura Duvalier
La dittatura Duvalier balzò agli onori della cronaca internazionale con la caricatura dei Tontons Macoutes [appellativo popolare per Milice de Volontaires de la Sécurité Nationale, NdT]: una dittatura sanguinaria, con milioni di esiliati, arresti ed esecuzioni sommarie, una comunità intellettuale e militante decimata e devastata. In breve, una dittatura molto oscura e, per di più, senza alcuna volontà di sviluppare il paese, a differenza dell’altrettanto terrificante vicino, la Repubblica Dominicana, intrisa di sviluppo nazionalista. Povertà, carestia, stagnazione, infrastrutture fatiscenti, ecc. ma ancora una volta un popolo che, nonostante le condizioni di vita spesso subumane, si organizzò nel movimento ti-léglises – ispirato alla contemporanea teologia della liberazione sudamericana e con numerosi militanti clandestini – per spodestare finalmente Duvalier figlio e porre fine a ventinove anni di dittatura.
Voglio ricordare che la dittatura non è nata spontaneamente. Ancora una volta, furono gli statunitensi, con i finanziamenti della CIA, a permettere a Duvalier di prendere il potere e, soprattutto, di mantenerlo. Haiti si trovava al centro del triangolo formato da Giamaica, Cuba e Repubblica Dominicana, la cui invasione nel 1965 aveva provocato oltre 20.000 morti. Il controllo di Haiti offriva una posizione strategica ideale per controllare i tre vicini caldi alle porte degli Stati Uniti. Nel 1975, Haiti subì inoltre l’attuazione del Piano Condor statunitense per l’America Latina: un portentoso sostegno a tutte le dittature dietro il pretesto di combattere il comunismo. Ancora una volta, l’indipendenza di Haiti fu messa in sordina, se non del tutto cancellata.
Anni ’90: la sottomissione all’imperialismo neoliberale
Nel 1987 fu elaborata, e approvata a larghissima maggioranza, la Costituzione. Si trattò senza dubbio della costituzione più democratica del paese che, dopo la dittatura di Duvalier, puntava a una reale partecipazione democratica sostenuta da un forte decentramento. Era la speranza di un intero popolo. Non è mai stata attuata ed è importante sottolineare che gli aiuti internazionali non andavano nel senso della sua realizzazione, malgrado la moltitudine di progetti finanziati negli ultimi trent’anni. La cosiddetta comunità internazionale ha scelto un’altra strada: l’imposizione dell’economia neoliberista. Questa “comunità internazionale” preferisce lavorare per imporre il modello economico neoliberale piuttosto che il modello organizzativo democratico.
In seguito a libere elezioni che videro un’alta affluenza alle urne, Aristide fu eletto Presidente della Repubblica con una vera e propria legittimazione popolare. Purtroppo, il suo discorso socialista non fu sempre ben accolto dalla comunità internazionale, in particolare quando vilipendeva pubblicamente la borghesia nazionale, della quale denunciava le pratiche di predazione. Ma anche perché, durante la sua elezione, ha sgominato il puledro statunitense, l’economista liberale Mac Bazin, ex dirigente della Banca Mondiale, che aveva ricevuto 36 milioni di dollari di sostegno dalla NED/CIA per le elezioni (NED, National Endowment for Democracy, organizzazione statunitense che dovrebbe difendere la democrazia, ma che è spesso la copertura per le azioni della CIA, che tanto ha difeso le dittature sudamericane). Una violenta campagna di destabilizzazione, sostenuta ancora una volta dall’esterno, approfittò dei difetti della presidenza Aristide, che erano reali e non potevano essere negati, riuscendo a provocare un colpo di Stato il 30 settembre 1991. Il colpo di Stato fu sostenuto dall’esercito e dalla borghesia comprador. Con Cedras, l’esercito prese il potere; ne seguì una massiccia repressione. Gli Stati Uniti fanno il doppio gioco, impongono un embargo contro il colpo di Stato fornendo, al tempo stesso armi al gruppo FRAPH (organizzazione paramilitare di estrema destra, braccio destro del governo, che ucciderà decine di persone). E l’embargo non farà altro che scatenare il mercato nero, tragico per la popolazione e assai redditizio per i ricchi. Profughi sbarcano in massa sulle coste statunitensi. Bush costringe Cedras e Aristide a negoziare per il ritorno di quest’ultimo al potere. Nel tentativo di negoziazione, le richieste USA, derivate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), sono significative: mantenere bassi i salari, privatizzare le aziende pubbliche, abolire i dazi doganali, dare alle aziende straniere l’accesso al mercato haitiano… le basi per l’aggiustamento strutturale e la morte della produzione nazionale… che Aristide ha applicato durante il suo secondo mandato.
Gli accordi del 1994, poi del 1996, e la lettera di intenzioni indirizzata al FMI-Fondo Monetario Internazionale, firmata dal Ministro delle Finanze haitiano (Fred Joseph) e dal Governatore della Banca Nazionale della Repubblica di Haiti (Fritz Jean) del 19 novembre 1998, segnano l’asservimento di Haiti alla politica neoliberale in piena espansione mondiale, consolidando la politica di aggiustamento strutturale.
Politiche di aggiustamento strutturale che non differiscono da quelle messe in atto in Africa nello stesso periodo e che restano ancora oggi al centro delle politiche di austerità dei paesi del Nord. Anche stavolta il Sud è servito da canovaccio, da test. Questi programmi di aggiustamento strutturale sono presentati dai media con linguaggio spesso oscuro che soprattutto invita le popolazioni a tenersene a distanza, perché troppo difficile da comprendere. La strategia è perciò di una semplicità sconcertante: in nome della ricerca dell’equilibrio budgetario e della bilancia dei pagamenti, è necessario diminuire i costi della funzione pubblica. Questa è la versione ufficiale, la copertura retorica per procedere verso la privatizzazione totalmente fuori controllo degli Stati. È una meccanica semplice: si pone l’accento sui disfunzionamenti dei ministeri e delle imprese pubbliche, senza tentare di razionalizzare per eliminare le inefficienze: no, basta annunciare che sono troppo cari e poco efficaci. E così, per spendere meno si diminuisce il personale: i servizi, meno dotati, funzionano ancor peggio, ma non è un problema, resta la soluzione miracolosa: la privatizzazione. E perché la privatizzazione abbia successo, basta limitare i regolamenti, i controlli e, naturalmente, la tassazione. Ai detentori di capitali non resta che arricchirsi; ai licenziati di rimanere senza stipendio e agli acquirenti dei servizi di pagare un po’ di più, perché gli azionisti devono essere ben remunerati.
Ma c’è qualcosa di ancora più grave. Quando da privati si tratta con le banche su investimenti e capitali d’esercizio, sono le banche stesse a decidere se finanziare o meno i nostri piani, a seconda che li considerino o meno redditizi. Le strategie dei servizi privatizzati sono quindi definite dalle banche in base alla loro redditività, e non ai bisogni della cittadinanza. Da parte dei governi, si tratta di una perdita di potere su quelle che un tempo erano politiche pubbliche che i cittadini potevano ancora influenzare con il loro voto. All’inizio del XX secolo, uno dei Rothschild, tra i maggiori banchieri, dichiarò pubblicamente che “presto non avremo più bisogno di governi, sappiamo noi cosa dobbiamo fare per il popolo”. Ed eccoci qui.
Lo scritto prosegue nella seconda parte di prossima pubblicazione.
*Traduzione dal francese di Ilaria Agostini.