Violaviola. Se l’arte è morta avrà avuto la sua convenienza

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Ho il cuore spezzato: nella Tebaide il capolavoro non si mostra. Allora vado per le strade di Violaviola. I miei passi ritmano la fluttuazione costante di paradossi suscitati dai luoghi che pretendono parlare di verità. Lo spazio è pieno di sentimenti particellari incompatibili tra di loro: sono scisso, frantumato nei miei affetti, allontanato dalla coscienza di quel Tutto che ritengo necessario alla mia sopravvivenza.

In città manca l’Axis mundi. Quella verticalità invita alla contemplazione di un centro che coincide con l’esserci in attesa di sparire. Da quando, per diffuso sospetto, il Luogo della rifondazione viene considerato una pazzia, non si è più praticato il culto dell’assoluto, unico Axis: eppure sono sbucati come funghi, la città ne è stracolma, ma non hanno a che vedere con la meditazione, sono segnali dall’apparente funzione anarchica, in realtà è roba che vuole venderti qualcosa. La cocciuta e solida verticalità dell’Axis inscena la dipendenza da se stessa, un’autonomia scaturita dall’accordo sacrale fra l’assialità e il desiderio di negarsi a qualcosa che potesse far pensare a un credo. Quel Totem dice di non adempiere alla verità per non morire di questa, e che è vera solo nel momento in cui qualcosa la spezza per illuminarti, allora capisci che puoi accordarti con la conoscenza solo se è stata avvelenata, solo se la marginalità diventa l’osservatorio eccellente della centralità. Non capiscono: ghignano: continuano a bruciare idee sul rogo informatico: è il segnale che siamo immersi nel degrado.

Renato Ranaldi, Marasma, 1969, fotografia

La volgare confidenza dei probiviri col Rinascimento, risponde con la ritorsione accademica all’autenticità di una certa tensione creativa. Lo sfacelo è universale: un evento possibile come mostra il fatto che si è verificato. Se, come i dinosauri, gli uomini fossero nella scia di un’estinzione ineluttabile, pianeti compresi, continueremmo a dividere la spazzatura convinti di salvare chissà cosa?

L’insegna del bar Dante è un arcobaleno, colora le bugne del palazzo adiacente: ci regala un po’ di carnevale, una briciola di disinvoltura, tanto per non sentirsi vecchi come quell’architettura. Guardo il monumento di un Tiranno, di lui si ricorda il passato di saccheggi e vittorie sanguinarie, la sua ombra lunga, compatta, si snoda come una serpe, si spalma sulla parete del palazzo di fronte, quella macchia estesa sembra una sentinella che vigila, non le sfugge niente. Dei quattro lampioni intorno al monumento, tre sono spenti e uno palpita: risulta ridicolmente familiare, ma stupefacente, miracoloso. Trovo conforto dal tema ossessivo di un sussurro che arriva dall’asfalto della strada, sotto c’è un genio anonimo che, magnanimo, regala della derelizione a chi può apprezzarlo: qual è il motivo di tanta generosità?

È notte. Se tendo l’orecchio sento un brontolio: è la gente che va a rintanarsi nella severità di una famiglia: sono incazzati per il quotidiano che non offre la chiacchiera di un fattaccio straordinario in giro: per esempio un angelocidio. Non hanno trovato da nessuna parte nessun cadavere che somigliasse a un angelo vero, con tanto di ali, solo una puttana nel Duomo accoltellata da uno spacciatore di zafferano che non si trova nemmeno a pagarlo oro. Irriverenza: mi sta bene, funziona se vuoi sopravvivere alla perentorietà del degrado, devi saper leggere quella lingua, conoscerne le sfumature e, per non morire di crepacuore, strategicamente, essere come ti impone, gli stessi modi di colui che insozza, sfregia, orina sui muri delle case, calpesta i fiori delle aiuole, scrive con la bomboletta PIGLIA MALE sulle pietre dei palazzi storici e sulle vetrine del centro, lancia un paio di scarpe vecchie coi lacci che si allacciano ai fili della luce stesi tra i palazzi. Faccio lo screanzato: sono dentro un principio armonico dal momento che vige la disarmonia. Il degrado è una tirannia, è una nebbia che si espande sempre più fitta sulla città, la fagocita, la cancella alla vista.

Che il Caos possegga caratteristiche divine e che in questo risiede la spiegazione ultima del silenzio e la rassegnazione dei filosofi difronte allo scempio degli Axis divelti, è una posizione condivisa dagli abitatori delle Tebaidi, e cioè da coloro che conoscono la legge poiché il significato di un segno è pensabile allora esiste.

Decostruzione, occorre la strategia della decostruzione. L’arte, per sopravvivere alla Storia, si è servita ampiamente del tradimento relativo ai segni e alle modalità correnti che, in precedenza, hanno dettato legge: tutte partorite dal pensiero comune artigiano: bisognava decostruire: la storia dell’Arte è un’equazione differenziale tra espressioni contenenti variabili e soluzioni piene di incognite. Occorre raccontarsela così: Se l’Arte è morta vuol dire che le è convenuto. Tutto ciò che è possibile esiste e non c’è da stupirsi che diventi necessità.

Come un masochista contento d’esserlo, vado incontro alla prova della piazza vuota, senza gli amici di una volta, un’assenza che provoca lo spossessamento del sé per diventare esperienza d’ascolto della solitudine: è la musica in sordina, uno sfrigolio prodotto da numerose voci distinte, identitarie: mormorano, ma non si fanno intendere: un testo senza parole che recita la potenza sensibile del silenzio nutrito dalla nostalgia. E cado nell’oscurità di non sapere dove siano finite quelle persone care: so che la loro memoria esige una drammatizzazione in una consonanza interna con le architetture dei palazzi tutt’intorno alla piazza, sporcata dalla dissonanza prodotta dal terremoto: la moto rabbiosa di un centauro idiota.

Le architetture rimandano le une alle altre e ognuna a se stessa. L’apprezzamento di un’architettura passa attraverso la sostanza patrimoniale di ricordi edificanti, la passione amorosa, la violenza di immagini dolorose o la tortura di certi fastidi. La sensazione che provo è di assistere a una gara di stili specchianti alla presenza di uno spettro omologante che permetta alle forme di intralciarsi o di assecondarsi tra un tripudio di riflessi stilistici, di rimandi ancestrali, ombre che si scambiano valori determinanti: si rafforzano o si indeboliscono in preda alle misure. Credo che la misura d’insieme estratta dalla visione, possa dirigerla sulla tessitura del mio corpo e quello dei passanti, e l’energia ricavata dalla contemplazione del luogo si traduca in un dirigersi verso un realizzo avvenire. Questo dirigersi è quello dell’Arte che dà l’ampiezza di un senso di là dal senso, prodotto dal luogo stesso e dal pensiero della sua devastazione finale. Le architetture ci sopravvivono, sanno tutto di noi, e noi poco di loro, le interroghiamo e non rispondono: lo fanno per metterci alla prova: sono loro a chiederci chi siamo, ci interrogano, ci sovrastano perché vogliono risposte. Camminando mi auguro d’imbattermi in un’architettura psicotica, fuori dai gangheri, che sia foriera di un principio libertario, estraniante, che tenda a un’affermazione a oltranza. È un sogno, e sognare questo ti fa estraneo ai criteri vigenti del manicomio Violaviola.

La città richiederebbe una sensibilità avvertita, una consonanza col dolore dell’Arte che non riesce più a manifestarsi perché si è concessa a tutti senza riserve, una mondana. Occorre una giustizia materna che premiasse la necessaria solitudine felice dello smarrimento politico dell’artista. Mi sento umile coi miei sensi difronte a quello che presumo sia Bellezza, uno stupore che mi auguro diventi pensiero che renda giustizia ai luoghi di una città screditata, umiliata, cancellata la sua portata metafisica in mezzo al trambusto dei mercati. E intanto, incessantemente, per le strade e le piazze, vagano esseri sfiancati dalla marcia, la bocca a ciambellina, si chiedono quale visione debbano imprimersi nella memoria per considerarsi testimoni- guardoni di Bellezza. Contemplare vuol dire cedere a uno stupore estatico, persino nei confronti del disgusto prodotto dalle vittime vacanziere trascinate a un’adorazione coatta che suscita loro penosa indifferenza. Grottesco. Il martirio anonimo, la pressione delle guide prodighe di aneddoti barzelletari dalla pretesa accattivante, descrive lo stato sacrificale che Violaviola esige dalle mandrie turistiche.

La città oscilla tra la nostalgia di una dimensione perduta e il consumo bulimico del presente, riflesso nell’ideologia dell’immediato e l’ideale del consumo che ha stampato le impronte del nuovo oscurantismo sui palazzi e i monumenti. Le pietre che calpesto non sono cambiate, io lo sono, un nuovo contatto col suolo: sorge la domanda che vuole una risposta: quale direzione prendere ai crocicchi delle strade?: dove andare a bere l’ennesimo caffè? Il ritmo dei miei passi stimola un pensiero flaneur che esige, osservando i palazzi sfregiati dalle scritte, che tutto sia soggetto a una sensibilità intensificata che rafforzi la vertigine dell’imprevedibile al quale sono esposto. Ricordo l’iperbole suggerita dalla scritta catramosa che insozzava l’abside di una chiesa romanica: FRUSTALUPI NERVOSINO. Capolavoro di eccedenza in sé, uno stile di pensiero fondato sul tema della probabilità, trasferita nella narrazione di un vissuto: il grande Caso lavora e produce segni, trascinando il significato del gesto che imbratta in un altro regime in cui un segno rinvia all’infinito.

Attraverso ogni visione ho la pretesa di evocare l’essere antistorico che cova il rancore dei solitari, un vendicativo, in fondo. E per sentirmi così ho bisogno del disordine di questo paesaggio urbano pieno di sciatterie che si danno tono; mi confortano le sirene delle ambulanze; il luccichio cafone delle vetrine; seguo la traiettoria di una cicca accesa che vola da una finestra e finisce su un passante che trasferisce la predica stantia sulla maleducazione in un’imprecazione solida, inattaccabile; uno sulla moto in corsa, mangiando un panino finisce contro una bancarella di souvenir fracassando tutto. Una donna e un tizio si lasciano vivere nobilmente, fumano sullo sfondo di un enorme cazzo dipinto su una saracinesca. Teatro senza testo, senza regia. Intanto una carovana interminabile di orientali si trascina dietro un ombrello aperto che ha promesso loro meraviglie. La musica dei clacson scuote di dosso ai palazzi brandelli vischiosi di metafisica. Me ne frego con la dovuta benevolenza.

Ho bisogno di questa babele, una ragione alta, consolatoria. Mi rasserena trovarmi in mezzo al degrado di Violaviola che ha dettato la legge della differenza, ma non viene rispettata. Sono condannato a tradurla in segni, anche se non mi salverà, almeno questo mi è chiaro.

Tebaide del Porcellana, ottobre 2024

Note

Tebaide: sta per lo studio dell’artista.

Violaviola: sta per Firenze

Axis mundi: il simbolo dell’albero che inteso come Axis mundi si ritrova presso tutte le culture antiche: esprime un’idea sacrale di totalità, e la sua verticalità è la rifondazione della struttura a più piani sovrapposti del cosmo.

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Renato Ranaldi

Renato Ranaldi è nato nel 1941 a Firenze dove vive. È artista visivo attivo nel panorama dell’Arte. Sin dall’inizio degli anni ’60 ha dimostrato la predilezione per accostamenti di forme linguistiche diversificate che proiettano articolazioni caratterizzate dall’ossimoro. Nella sua produzione appaiono costantemente forme archetipiche e simboliche quali principi fondanti e ragioni del proprio fare. In seguito la sua ricerca si è sviluppata nell’attraversamento di esperienze multiformi contraddistinte dall’applicazione di tecniche e materiali disparati, all’insegna del disegno dal quale proviene tutta la sua opera plastica. La costante profilazione di soggetti-oggetti ha generato opere concatenate senza soluzione di continuità coi lavori precedenti. Dal 2006 l’idea della marginalità e del fuori è costantemente descritta nelle sue opere attraverso la produzione dei Fuoriquadro. Il primo libro di disegni affiancati da didascalie dal titolo Angherie è stato pubblicato nel 1984. La sua scrittura dal carattere divagatorio tende a descrivere la frustrazione e l’impossibilità di una centralità in Arte. Sono stati pubblicati i seguenti volumi dal carattere narrativo: nel 2002 La misura la rotazione il ritorno (libri di AEIUO); nel 2010 Tebaide (Gli Ori); nel 2014 Calamaio mistico (Le lettere); nel 2016 Scioperìi (Gli Ori); nel 2016 Forse piove (Clichy); nel 2017 Tiritere (Gli Ori); nel 2021 Ala spazzina (Le lettere). Nel volume di disegni Fuoriarchivio 2024 ( Forma editore ) appare un regesto completo per immagini dei manifesti e delle copertine dei cataloghi e monografie dell’artista.

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