A Casa Caciolle l’accoglienza diventa inclusione: intervista a Vincenzo Russo, cappellano del “carcere fuori”

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VINCENZO, PERCHE’ CAPPELLANO DI SOLLICCIANO?

La vita mi ha condotto lì. Mi è stato chiesto come servizio da rendere nella comunità cristiana, e ho accettato. Non avevo dubbi che questa sarebbe stata per me una scelta fondamentale, decisiva. Non ho esitato un momento nel dire sì, poiché sapevo che questa esperienza sarebbe stata per me l’opportunità più grande per comprendere realmente la vita e le persone.

È nel carcere che si entra in relazione con la dimensione più profonda della vita umana, con le ferite e le luci che caratterizzano l’esperienza umana. Ciò che non va e occorre cambiare è proprio nel carcere che si rivela. Dove c’è un carcere c’è una società che non funziona, c’è un’umanità che si è persa e che ha smarrito la capacità di costruirsi e di aprirsi al futuro, finendo per privilegiare ciò che cancella la relazione, la comunità.

Prima di Sollicciano c’è stato l’OPG di Montelupo. Sin da lì ho avuto chiara la percezione che l’incontro con l’umanità più vera potevo averlo solo in quel contesto, dove ogni velo cadeva.

COSA HAI CONDIVISO CON I DETENUTI ?

Con i detenuti ho condiviso la vita. Non i singoli e ricercati momenti, quasi creati apposta e finalizzati allo svolgimento formale del ruolo di cappellano (catechesi, liturgia, colloquio). Ho condiviso tutto, cioè la loro vita, investendo in ciò me stesso interamente. In altre parole: ho preso parte attiva alla loro vita e loro alla mia. Sia quella presente, che quella passata, che quella ancora da costruire. 

È stata evidenza di ciò il fatto che quasi da subito ho iniziato concretamente ad accogliere i detenuti presso di me, ospitandoli, dando loro la possibilità di un’alternativa al carcere. Ho aperto le porte di casa. È solo così, ero e sono convinto, vivendo gomito a gomito, quotidianamente, che si costruisce una vera relazione, che si può davvero entrare nella conoscenza della persona. 

I detenuti non sono numeri e fascicoli, così come sono trattati dal nostro sistema. Sono persone che attendono di essere conosciute, che vogliono raccontare e raccontarsi, che hanno bisogno di ascolto e accoglienza, di una nuova possibilità.

Solo la condivisione piena e vera di ogni aspetto della loro vita, solo entrando in contatto con i loro vissuti, le loro storie ed esperienze, si può davvero fare qualcosa per loro e consentire quel percorso che dovrebbe condurli ad una vita fuori realmente nuova e libera. 

Questo ci chiede di fare la Costituzione, ci impone di fare la nostra coscienza ed umanità.

COSA CHIEDONO I DETENUTI AD UNA FIGURA COME LA TUA?

In poche parole chiedono di USCIRE. Non subito e solo nel senso materiale, cosa che dipende da molti altri fattori esterni in cui non sempre potevo incidere. 

Certamente, anche uscire dalla cella, luogo nel quale vivono totalmente tutti i disagi legati ai trattamenti inumani che sono costretti a subire per le mancanze ed ingiustizie che caratterizzano le nostri carceri, ed eminentemente, Sollicciano. Ed in questo, come detto, mi adoperavo e faccio tuttora con le accoglienze! 

Ma la prima uscita cui mi riferisco è quella da un domani non realizzabile, da un sentirsi condannati per sempre allo stato di disperazione e abbandono che si vive in carcere.

Uscire, cioè, dalla loro condizione di isolamento, di disperazione, di sfiducia in sé e negli altri, di inconsapevolezza, dal loro non poter far nulla per confidare in un domani possibile. 

Essere cappellano a poco serve se, oltre ad offrire momenti ed attività fuori dalla cella, non si costruisce una relazione vera, la quale può davvero farli uscire, e non solo per un’ora, da una condizione di chiusura totale al futuro e aprirli alla prospettiva della speranza.

Questa relazione si è costruita nel tempo, sempre più, e cresceva con il mio occuparsi di loro, delle loro problematiche concrete, nel dar voce alla loro denuncia. Fare con loro, denunciare con loro ciò che non andava…in una parola essere vera presenza accanto a loro. 

Ero il cappellano? Sì, in parte, ma prima di tutto ero “uno con loro, uno insieme a loro”. Questo ho voluto essere e questo era ciò che loro chiedevano che fossi.

HAI ESPERIENZE O ANEDDOTI?

Faccio fatica a riferirmi ad un singolo fatto o ad una singola esperienza. Direi che la dimensione della condivisione e della relazione nella quale mi sono immerso per vivere il mio servizio di cappellano è stata la mia unica e grande esperienza. Quella che mi ha portato a toccare con mano il dolore, il dramma di quelle persone. 

Voglio solo ricordare l’intensità delle sofferenze che ho raccolto facendo visita alle persone appena entrate in carcere. Ho in mente il loro volto, sfigurato, sconvolto, i primi giorni del loro arrivo, tra isolamento e disorientamento. Vivono un vero trauma, uno strappo inimmaginabile, con il fuori e con tutto il loro passato, mentre allo stesso tempo sono inseriti in un contesto molto più grande di loro, inconoscibile, diffidente, giudicante, disinteressato a loro. La pesantezza dei vissuti di quei momenti schiaccerebbe chiunque!

Tutto questo mi ha sempre colpito, così come la consapevolezza che ciò è noto solo a chi varca quella soglia. Fuori, nulla di tutto ciò trapela, non si comprende e, con cinica cialtroneria ed indifferenza, si continua ad esultare per una carcerazione che faccia soffrire fino in fondo il “cattivo” di turno! L’esperienza di quel volto, così come quella, incancellabile nella memoria, del corpo appeso al lenzuolo nel rigore della morte, sono cose che segnano e per sempre, che ti cambiano la prospettiva!

Voglio però anche citare la presenza di esperienze belle e felici, tutte quelle delle persone detenute che, ricevuta fiducia ed una opportunità, si sono aperte ad una vita nuova, dimostrando grandi capacità e rivelandosi in grado di costruire relazioni vere e sane, con le quali contribuire in modo maturo e responsabile alla comunità. Ne ho incontrate tante di queste persone, accompagnandone i percorsi. 

LA RELIGIOSITA’ IN CARCERE

Dobbiamo partire da una prima considerazione. Oggi in carcere troviamo persone provenienti da paesi e culture diverse; sono numerosi i gruppi etnici e le culture che si contano a Sollicciano. 

Di conseguenza parlare oggi di religione in carcere non comporta un discorso univoco e monolitico ma deve portare alla considerazione più vasta della convivenza di sensibilità e credi differenti fra loro.

C’è, però, diciamo una caratteristica di fondo prevalente, che si può attribuire alle forme espressive di religiosità, cristiane e non, che si incontrano in carcere e cioè che si tratta non tanto di una dimensione spirituale del credo religioso quanto del suo aspetto culturale. Indubbiamente in carcere è prevalente questa accezione della religione, cioè appunto l’aspetto culturale. Non manca, a tal proposito, anche l’esposizione dei simboli religiosi (collane o anellini a rosario, crocifissi ecc.), che sono il manifestarsi, nella maggior parte dei casi, di identità culturali che appartengono alla propria storia e che continuano a sussistere anche in quel momento della vita nel quale, semmai, si amplificano in ragione del venire meno di altre dimensioni. 

Il cappellano è chiamato ad essere uomo del dialogo e a sapersi fare vicino ad ogni sensibilità religiosa, considerandone la valenza culturale e, semmai, valorizzando tutto ciò che in tale ambito può essere di aiuto nella relazione. Quello che deve emergere ed essere valorizzato è il rispetto ed il valore della persona, che deve attraversare ciascuna di queste sensibilità. Anche i momenti delle celebrazioni, che di per sé sembrerebbero esclusivi di una sola fede, devono essere parte di questa religiosità più vasta, capace di raggiungere ogni persona ed includere tutti. 

Voglio condividere un’ulteriore riflessione, a proposito di simboli religiosi e, in particolare, del crocifisso. La sua presenza addosso a qualche detenuto potrebbe sembrare esibizione sfacciata e non consona, di una dimensione solo culturale, forse superstiziosa. Senza entrare in questo ambito, voglio però osservare quanto segue. 

Non è sbagliato considerare che, in quelle persone, le quali vivono un vero dramma, possiamo ravvisare dei veri “crocifissi”. Non è una contraddizione che chi è reo di un reato porti il simbolo della Vittima Innocente per antonomasia. Certo, essi scontano un errore, diversamente da Gesù, ma come non considerare che, se un giorno hanno agito il ruolo di “carnefice” per il quale adesso pagano le conseguenze, allo stesso tempo ciò che hanno subito dalla vita prima e che li ha portati al reato, insieme a ciò che continuano a subire adesso, li ha resi e rende delle vittime. Quindi, da vittima prima a carnefice poi, per continuare ad essere vittima in carcere!

La croce, non è quindi immagine inappropriata su di loro e, anzi, è emblematica della loro condizione.

ORA CHE NON SEI PIU’ CAPPELLANO, A COSA TI DEDICHI?

Non entro più dentro il carcere, mi è impedito, ma ciò non toglie che io continui ad occuparmi delle persone detenute. Occuparsi di carcere e dei detenuti non presuppone necessariamente entrare dentro quelle mura. Quello è solo un aspetto e, forse, nemmeno il principale. Voglio qui, in particolare, sottolineare a tal proposito due cose.

Intanto c’è un’attività centrale nell’occuparsi di carcere che è quella dell’accoglienza; a questa io continuo a dedicarmi, attraverso l’esperienza di Casa Caciolle. Non ci si può prendere cura fino in fondo delle persone detenute e non è possibile offrire loro un’effettiva possibilità – stante così la situazione all’interno del carcere – se non si offrono contesti e relazioni capaci di tirare fuori da quell’ambiente di morte. Quindi accogliere, prima come attitudine e poi come fatto concreto, è una delle attività principali di chi si occupa di carcere, anche del cappellano. Oggi continuo a dedicarmi a questo con grande energia, così come facevo anche prima come cappellano.

In più, è assolutamente fuorviante pensare che il carcere sia limitato alla realtà confinata dentro le mura dell’Istituto. Il carcere è qualcosa di più vasto, che va oltre, che precede e attraversa quelle mura. Io sono solito parlare di un carcere fuori, che è causa del carcere dentro. Il carcere fuori è diffuso, quasi nascosto, ma molto concreto. 

È la condizione nella quale oggi si vivono disagi, povertà, ingiustizie e violazioni di diritti nei nostri quartieri, particolarmente in quelli periferici. È qui che tutto nasce, è qui che si alimenta il reato, è qui che ci genera carcere. È qui che, senza colpa alcuna, si è già condannati e prigionieri. 

Ecco, io non sono più cappellano del “carcere dentro” ma continuo ad essere cappellano del “carcere fuori”. E credetemi, in questo carcere fuori, il lavoro è ancora più arduo e, allo stesso tempo, urgente. 

L’ESPERIENZA DI CASA CACIOLLE

L’esperienza di Casa Caciolle  nasce come una scommessa, innovativa ed importante. 

Alla sua base un desiderio alimentato da solida consapevolezza: se le persone detenute trovano un contesto aperto, accogliente, inclusivo, se ricevono fiducia e opportunità, esse manifestano, in gran parte, la capacità di rispondere positivamente e, partendo dalla parte sana e buona che c’è in ognuno, sono in grado di scrivere una nuova e diversa pagina nella loro vita.

Ebbene, dopo molti anni di attività, posso dire che Casa Caciolle è proprio la dimostrazione di questo: in ogni detenuto c’è una parte, più o meno solida e sicura, sulla quale si può costruire. Non è vero, quindi, in senso assoluto, che la recidiva non è abbattibile. Non lo è se affidiamo la vita di queste persone all’istituzione carcere. 

Ma perché questa ricostruzione e rinascita avvengano è necessario offrire vera accoglienza, che non è tanto e solo un tetto, un alloggio dove stare. Certo questo è importante per accedere alle misure alternative, ma sarebbe poco se non fosse accompagnato da altro. Quello che occorre è un’accoglienza totale della persona sotto il profilo esistenziale. Essa deve sentirsi benvoluta, accettata, deve sentire di essere oggetto di fiducia, di essere utile, di poter dare un contributo, di essere parte di una comunità più grande che è tutta la comunità territoriale.

Qui si tocca l’aspetto principale di Casa Caciolle. Il detenuto che lì è accolto non è accolto da quella struttura-comunità, ma è accolto dal Territorio, che entra in Casa Caciolle. Sì, Casa Caciolle è, in un certo senso, una PIAZZA, dove il Territorio vive. Perciò chi è accolto lì scopre e vive la dimensione di una inclusione più vasta e generale.

Quindi, più propriamente, si può dire che a Casa Caciolle non si accoglie ma si include.

Questa dimensione è favorita, appunto, dall’apertura della Casa al Quartiere e la Città, cosa che avviene in varie forme ma, particolarmente, attraverso esperienze ed attività legate alla cultura e all’arte. Casa Caciolle, sempre più, è centro polivalente che ospita eventi culturali (libri, musica, teatro, arti visive, cinema) e che, attraverso questi linguaggi, vuole favorire l’incontro tra dentro e fuori, tra agio e disagio, promuovendo una riflessione intorno alle questioni più urgenti del vivere sociale.

Il mio auspicio è che realtà come questa fioriscano anche altrove, perché da simili esperienze può nascere davvero l’opportunità di un cambio di paradigma intorno al tema della pena e del carcere. Ciò che giudica, isola e chiude (il carcere) non genera percorsi educativi e di vita; ciò che accoglie ed include, invece, apre alla vita e rigenera la società.

LEGAMI CON FUORI BINARIO

Fuori Binario è voce di chi non ha voce, è “casa” per i senza dimora, è riferimento per chi non ha riferimenti, identità per chi è invisibile, opportunità per chi non ha nessuno che si prenda cura di lui, relazione per chi è abbandonato da tutti. 

Tutto questo dice un legame profondo con Casa Caciolle e con ciò di cui mi occupo. Al di là di ciò che si fa, delle attività messe in campo, si evidenza il fine condiviso e, soprattutto, il comune impegno del prendersi cura di coloro che potremmo definire i figli di questo nostro ingiusto sistema, figli della speculazione, della finanza selvaggia, del giustizialismo più becero.

I detenuti sono dei “senza dimora”. Non hanno una “casa” intesa come luogo di affetti e relazione; spesso non hanno avuto e non hanno nemmeno quella fisica. Nessuno si occupa realmente di loro; come un po’ i senza tetto, sono di fatto cittadini di serie B, o forse addirittura considerati non cittadini, invisibili, quasi solo un peso ed un problema. Di loro, intorno, c’è prevalente desiderio di non vederne più traccia!

La mia esperienza, il mio impegno, la realtà di Casa Caciolle e quella di Fuori Binario camminano in senso contrario e vogliono guardare il mondo proprio partendo da loro. È il passo di chi non ha nulla e tale è considerato, che muove e trasforma la società verso il suo vero bene. In assenza di tale passo è vera ingiustizia e piena contrarietà ai principi di umanità.

 

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Francesco Martinelli

Classe 1984, vive a Firenze. Collabora sia come redattore che come diffusore di strada con la rivista Fuori Binario.

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