È arcinoto che i quattro capponi che Renzo Tramaglino stava portando all’Azzeccagarbugli continuavano a becchettarsi fra di loro in attesa che qualcuno gli tirasse il collo. Metafora abusata, che forse potrebbe essere applicata anche alla triste faccenda della competizione fra porti vicini, compreso quello di Livorno.
Anche stamani registriamo sulla stampa affermazioni giustamente preoccupate per le possibili ricadute occupazionali dovute a migrazioni di traffici, che però suscitano a loro volta qualche punto di domanda. Si dice ad esempio che alcuni operatori che lasciano Livorno non sarebbero andati verso altri porti vicini se già fosse operativa la Darsena Europa. I tempi di realizzazione della quale, come sappiamo, sono invece di là da venire, con costi aggiuntivi che lievitano continuamente.
Prima domanda: quindi si sta progettando un’opera oggettivamente devastante per l’ambiente (e le piccole attività artigianali e turistiche locali) che già adesso appare tardiva? Magari anche inutile, vista la tendenza consolidata dei traffici mondiali già illustrata nel convegno ospitato dal Tirreno nel maggio scorso e cioè una riduzione complessiva delle spedizioni a seguito dell’orientamento di USA e Cina (e scusate se è poco) a convertire sempre più le esportazioni in consumo interno. La Darsena Europa, con tutti i suoi costi economici (soldi nostri) e ambientali (sempre nostri), rischia forse di risultare una enorme cattedrale nel deserto, una Grande Opera del tutto sovradimensionata alla domanda del mercato? A me sembra di ricordare, da qualche lettura macroeconomica, che se aumenti l’offerta non è che automaticamente risvegli nuova domanda nei settori in contrazione globale, come in questo caso.
E allora (seconda domanda) a che serve intestardirsi per realizzare la Darsena Europa? Ipotizziamo due risposte, fra loro cumulabili. In primo luogo, esattamente come per il TAV che – ormai è chiaro – non porterà alcun traffico significativo fra Torino e Lione, serve a fare il cantiere, a prescindere. Cementificatori tutti contenti nel breve periodo e pazienza se a regime la Grande Opera non servirà a granché. Seconda ipotesi: a mettere ancora più in competizione porti e maestranze di città vicine. Sfugge forse, a qualcuno, il banale concetto di “market share”, cioè di quota di mercato. Se la torta (il mercato) si restringe, la mia fetta inevitabilmente dovrà ridursi, a meno che non provi a mangiare quella di un altro commensale.
E allora, ultima domanda, non è che questa competizione fra porti diversi, basata anche sulla realizzazione di opere ciclopiche, serve fondamentalmente per costringere poi i terminalisti ad abbassare i noli in modo da arraffare le fette altrui, a tutto beneficio dei profitti degli armatori? E non è che comunque in tutto questo a perdere sono soprattutto i lavoratori (già flagellati dalla progressiva e fortissima automazione delle operazioni portuali)? Non è insomma che anche a La Spezia, a Vado Ligure, a Genova e altrove c’è pur sempre del lavoro da proteggere, in termini di occupazione, di tutele e di livelli salariali?
Spiace che questa domanda non se la facciano autorevoli rappresentanti sindacali, quasi che l’universo del lavoro si interrompesse al Calambrone. Forse bisognerebbe riscoprire non dico la solidarietà ormai mitologica del proletariato internazionale, ma almeno un senso di ragionevolezza e coesione in ambito nazionale. Servirebbe esigere che lo Stato faccia il suo lavoro per governare le strategie dei processi logistici, magari partendo dal presupposto che le aree portuali sono demaniali e appartengono a tutti e tutte noi.
Bisognerebbe insomma che tutte le forze politiche e sindacali che stanno dalla parte dei lavoratori lottassero unite, in qualunque porto, per proteggere tutti e tutte, anziché arrendersi alla solita strategia padronale del “divide et impera”.
E competere fra poveri capponi.


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