Per questo articolo sulla condizione dell3 lavorator3 precari3 dell’università, ho incontrato tre persone del movimento dell’assemblea precaria di Firenze, che chiamerò X, Y e Z. Nel nostro confronto abbiamo parlato della nascita del movimento, della situazione universitaria italiana e di come i tagli e la precarizzazione del lavoro accademico siano delle questioni che riguardano tutt3.
DT – Partiamo un attimo dall’inizio: chi siete? Com’è nato tutto il movimento di cui fate parte?
X- Siamo parte dell’assemblea precaria di Firenze, nata – come altre in diverse città italiane – in risposta ai tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) e alla riforma Bernini. L’assemblea è composta soprattutto da assegnist3 e dottorand3, quindi ricercator3 precari3, ma anche da student3 dell’università. Abbiamo iniziato ad organizzarci per capire come opporci: il primo momento importante è stato il 29 novembre, con la nostra partecipazione allo sciopero generale, mentre da febbraio, abbiamo cominciato a coordinarci a livello nazionale. L’obiettivo è ampliare il movimento, includendo altr3 lavorator3 dell’università e di altri settori precari. Anche se l’iter della riforma è stato temporaneamente bloccato grazie ad un esposto della CGIL alla Corte di giustizia europea, il lavoro di scrittura di quest’ultima prosegue a porte chiuse. Rettor3 e alcun3 docent3 – pur dichiarandosi contrari ai tagli – non hanno mai preso una posizione chiara contro la precarietà, e spesso si appellavano al fatto che la nuova riforma richiede “flessibilità” per evitare posizionamenti netti.
Y – È importante anche considerare il contesto più ampio, visto che, la mobilitazione universitaria, non è nata solo negli ultimi mesi: già da un anno e mezzo si era riattivato un fermento, soprattutto grazie alle intifade studentesche in solidarietà al popolo palestinese. Questo ha favorito la ricomposizione di reti dissidenti, che hanno coinvolto non solo student3, ma anche personale tecnico-amministrativo, precari3 e alcun3 docent3. Questo è bene ricordarlo sempre, proprio per evidenziare il fatto che esiste un’università che si mobilita su temi diversi che poi si ritrovano in tante cose. Una cosa che mi sento di aggiungere è che l3 rettor3 si sono sempre in qualche modo schierati a favore di questa riforma: la CRUI – la Conferenza dell3 rettor3 delle università italiane – non è un organo ufficiale che rappresenta l3 rettor3 degli atenei, ma è una sorta di associazione privata che nel corso degli anni ha acquisito potere di lobbying ed è sempre più presa in considerazione dal ministero. L’impressione che si ha è che chi gestisce le università, preveda in qualche modo una sorta di spezzettamento ulteriore della figura dell3 ricercator3: è quasi un3 lavorator3 con partita IVA ma che funziona a micro, neanche più progetti, con degli incarichi di qualche mese e poi basta. Inoltre, l’impalcatura su cui spingono molt3 rettor3 è persino peggiore rispetto a quella che poi è la bozza della riforma Bernini.
DT – Avete già accennato ad alcuni aspetti, ma mi piacerebbe ripercorrere insieme il percorso che ha portato alla mobilitazione: com’era la situazione prima, quali sono stati i cambiamenti che hanno portato alla necessità di muoversi, fino ad arrivare al manifesto che avete scritto.
X – Oltre a quello che ha detto Y, un nodo centrale è il problema di sindacalizzazione all’università, con i sindacati che sono molto distanti dall3 lavorator3, sia per questioni strutturali dei contratti sia per questioni di mancanza di un percorso politico comune. Il percorso della ricerca è sempre molto individuale, contratti tutti diversi; quindi, si fa fatica a costituire un fronte di lotta comune.
Z – Sul “pre” ha centrato Y, perché nell’ultimo anno, all’interno dell’università, si è riaccesa una mobilitazione che non si vedeva da tempo. Tutto è iniziato con le intifade, composte da una forte componente studentesca, ma che fin da subito hanno visto convergere anche altri soggetti: in particolare la componente precaria, il personale tecnico-amministrativo e anche qualche docente solidale. Diciamo che questo forse ha un po’ riacceso un interesse rispetto al ruolo che l’università ha nel contesto societario più ampio, quindi quella che viene tanto decantata come “la terza missione” dell’università, l’impatto che ha nella società. Insomma, c’è stata una spinta a riflettere su questo aspetto. Così, quando è arrivata la riforma Bernini, il terreno era già in parte pronto: un tessuto di relazioni e consapevolezze forte, di conoscenze tra personale parte dell’università, tra collettivi studenteschi, tra precari3 che ha permesso di creare un’assemblea che sin da subito ha iniziato a muoversi. Questo ovviamente con tempi e modalità differenti da città a città, ma da subito è emersa una connessione, un desiderio di coordinarsi a livello nazionale, che si è costruito anche grazie alle esperienze di mobilitazione precedenti. Questo è stato, secondo me, un fattore decisivo. In più, rispetto alla mobilitazione per la Palestina, quella contro la riforma Bernini ha avuto un respiro più ampio. Se la causa palestinese – pur nella sua urgenza e drammaticità – ha trovato una sensibilità che era abbastanza diffusa nella comunità universitaria, molte persone non si sono attivate direttamente. I tagli alle FFO, la riforma del pre-ruolo, colpisce una fetta molto ampia della popolazione, sia studentesca che precaria che è direttamente coinvolta: questo in un certo senso ha forse anche facilitato l’avvicinamento all’assemblea anche di persone che non hanno per forza un percorso alle spalle di esperienza, di militanza, di attivismo. L’abbiamo sentita come una mobilitazione con un respiro ampio e partecipato da una componente, non per forza già politicizzata, diversamente dal movimento delle intifade per la Palestina.
Sulla componente studentesca, aggiungo semplicemente che in prima battuta la riforma del pre-ruolo non sembra interessarla, nel senso che, solamente una piccola fetta della popolazione studentesca è effettivamente interessata ad intraprendere un percorso di carriera accademica. Ma è solo apparenza, perché tutto questi tagli colpiscono direttamente anche il diritto allo studio, le borse e i servizi dell’università. Il fatto che ci sia un attacco così esplicito alla componente precaria, di precarizzazione ulteriore del lavoro è un’anticipazione di quello che ci aspetta dopo, che sia all’interno dell’università ma anche fuori. Il precariato non è una questione isolata, è una questione strutturale: questa solidarietà, questa stretta vicinanza, è dovuta al fatto che ci rendiamo conto che questo è quello che ci aspetta dopo, che ci riguarda tantissimo e in prima persona, che è la condizione quotidiana ordinaria di sempre più lavorator3 in Italia. Detto questo, è anche vero che il legame più forte si è creato soprattutto con quella parte studentesca più sensibile alle tematiche politiche. A Firenze, per esempio, si è fatto un po’ fatica a coinvolgere la parte più ampia e “non politicizzata” del mondo studentesco, come chi non fa parte di collettivi o realtà organizzate. Questo è forse un limite, una difficoltà concreta che abbiamo riscontrato e che dovrà essere affrontata nel percorso che abbiamo davanti: sarà importante investirci per il futuro prossimo.
Y – Per quanto riguarda la questione lavorativa, la situazione è questa: la figura dell3 precari3, per come la conosciamo oggi, emerge in modo ufficiale dopo la riforma Gelmini del 2010. Prima esistevano già varie forme di lavoro precario – come la docenza a contratto – ma c’era ancora le figure dell3 ricercator3 a tempo indeterminato, che, pur con molti limiti, offriva una certa stabilità e una prospettiva di carriera interna, prima come associat3 e poi come ordinari3. Con la riforma Bernini questa figura viene eliminata e il percorso si frammenta in una serie di posizioni diverse: borsist3 di ricerca, assegnist3, ricercator3 a tempo determinato di tipo A e B. Tra queste, la posizione più ambita è quella di tipo B, perché è quella che in teoria dovrebbe fare da ponte verso un posto da professor3 associat3. Questo in teoria, con tutta una serie di limiti per cui nell’arco di dodici o poco più anni capisci se sei dentro o sei fuori. Il problema è che ci sono tutta una serie di figure precarie non regolamentate in termini di tempo che ha fatto sì che, ad oggi, il 45% del personale di ricerca e docenza universitario sono figure precarie. Questo significa che quasi la metà delle persone che hanno dei corsi, esaminano studentз, fanno ricerca e seguono tesistз, lo fanno con contratti instabili. Non solo, perché molto di questo lavoro – didattico, organizzativo, burocratico – è svolto gratuitamente. I progetti per cui siamo chiamat3 cambiano tendenzialmente di anno in anno, però non è che le mansioni legate al progetto per cui lavoriamo finiscono con la fine del contratto. In un anno cos’è che puoi fare? Tendenzialmente raccogliere dati. Molto spesso poi tutta l’analisi e il lavoro di scrittura degli articoli arrivano dopo, mentre nel frattempo è cominciato un altro lavoro. C’è la revisione degli articoli fatta gratuitamente per riviste che molto spesso ti fanno pagare anche tantissimo per leggere quello che scrivi. C’è tutta una serie di lavoro, anche burocratico, dentro all’università, tra partecipazione a convegni, l’organizzazione di seminari e il workshop da fare con l3 professor3 che però non fa una nulla e lascia a te tutto lavoro… tutto questo senza un reale riconoscimento, né economico né contrattuale. Perché ovviamente mentre mandiamo avanti il sistema universitario siamo considerati soggetti in formazione, quando l’ultimo step sarebbe il dottorato, quindi tutto il lavoro che facciamo non ci è fondamentalmente riconosciuto neanche a livello contrattuale. Questa è una cosa che ci fa penare tantissimo quando organizziamo gli scioperi perché è come se stessimo lavorando sotto borsa di studio quindi, per contratto, non potremmo farlo. La riforma Bernini non ha l’obiettivo di migliorare la situazione, va detto però che arriva quando Draghi ha introdotto il contratto di ricerca, che per alcuni aspetti ci piace molto, perché è all’interno di un inquadramento di contratto collettivo nazionale, quindi siamo effettivamente lavorator3. Solo che costa molto quindi, in un quadro in cui si stanno tagliando le risorse, se ne possono bandire davvero pochissimi. La riforma, anziché semplificare o rafforzare le tutele, ha ulteriormente spezzettato il panorama contrattuale e molte delle sue disposizioni non sono ancora state definite chiaramente. Il suo congelamento ci ha permesso di prendere fiato: senza questo stop sarebbe probabilmente già entrata in vigore, ma è chiaro che l’orientamento resta quello di continuare a risparmiare sul lavoro precario.
Qui però si apre una questione più ampia: c’è bisogno di squarciare il velo e vedere l’università non come un campo elitario che è esonerato da quello che è e da come funziona il mondo del lavoro. Esattamente come funziona fuori, funziona dentro l’università: pagare il meno possibile per far lavorare il più possibile e far andare avanti l’azienda universitaria in un quadro in cui, l3 rettor3, si aumentano gli stipendi e ti propongono delle forme contrattuali sempre peggiori. È importante dire quanto l’università sia completamente permeata da questa logica ultraliberista della produzione a costo sempre minore, soprattutto in un contesto in cui è sempre stata vista come il campo dell’élite. Ora però non è più così, negli anni è diventata di massa: tutte le persone che ci lavorano non sono figli3 del grande professore o di una classe borghese medio alta, per cui tutti hanno delle condizioni familiari, sociali e socioeconomiche che non ti permettono di vivere senza un contratto. C’è chi ha aspettato due anni prima di avere un contratto di lavoro. Sai che significa aspettare due anni campando con ogni tanto una docenza e ogni tanto un cococo di un paio di mesi, pagandoci delle tasse assurde, ma non avendo comunque un contesto socioeconomico che ti che ti sostiene? L3 precari3 della ricerca non partono tutte dalle stesse condizioni e questo è bene dirselo.
DT – Presentiamo il manifesto dell’assemblea precaria: quali sono i punti e quali sono le rivendicazioni finali?
Y – Possiamo dire che il manifesto nasce dalla prima assemblea nazionale delle assemblee precarie, che si è tenuta a Bologna lo scorso febbraio. Da quell’incontro è nato non solo un primo piano di mobilitazione, ma anche una riflessione collettiva su cosa significhi, per chi formalmente non ha il diritto di sciopero, scioperare dentro l’università. Uno dei principali risultati è stato proprio il manifesto – piuttosto lungo – poi sintetizzato in sette punti chiave:
- Contro il sottofinanziamento, basta tagli. Vogliamo il raddoppio del Fondo di Finanziamento Ordinario;
- Contro il DDL Bernini, no alla precarietà. Vogliamo stabilizzazione per tutt* e un unico contratto post-dottorale;
- Contro un’università arruolata nella guerra. Vogliamo costruire un’opposizione alla guerra a partire dall’università;
- Contro il sistema ANVUR e la redistribuzione premiale del FFO. Vogliamo un’università libera da criteri produttivistici;
- Contro la frammentazione del sapere e della ricerca. Vogliamo didattica e ricerca svincolate da guerra e mercato;
- Contro il sistema delle esternalizzazioni. Vogliamo contratti stabili e dignitosi per tutte le figure del lavoro in università;
- Contro carovita e affitti. Vogliamo un vero diritto allo studio e all’abitare per tutte e tutti.
Il manifesto tocca alcune questioni centrali, che sono in parte le stesse da anni, ma che oggi si intrecciano con nuove urgenze. La prima è una critica netta ai processi di aziendalizzazione e privatizzazione dell’università, che si sono intensificati nel tempo. Ma stavolta si è voluto andare oltre l’analisi generale, cercando di mostrare più chiaramente gli effetti concreti di questi processi, in un contesto segnato da una crisi climatica permanente e da un riarmo globale crescente. Questo porta da un lato le università ad essere sempre più complici di interessi dei private nel momento in cui vengono definanziate dal pubblico. In un contesto di riarmo soprattutto, è chiaramente il settore industriale quello trainante, soprattutto quello bellico. Quindi, tra questi punti c’è chiaramente il non voler lavorare per la guerra, il volersi smarcare dagli interessi della filiera militare bellica. C’è poi tutta una riflessione su come l’università non sia affatto immune dalle logiche del lavoro precario e ultraliberista. Anzi, è essa stessa produttrice e riproduttrice di sfruttamento. Pensiamo ai tantissimi servizi essenziali – portinerie, mense, pulizie, biblioteche – che sono appaltati a cooperative esterne, dove il lavoro è spesso iper-sfruttato, con contratti a termine, orari ridotti, straordinari non pagati. È evidente che l’università non precarizza solo chi fa ricerca e didattica, ma anche chi garantisce il suo funzionamento quotidiano. C’è in questa una critica al fatto che l’università si basa su un meccanismo infernale di premialità: è da anni che questo processo premia le università migliori, che accentrano più investimenti e che magari hanno un numero più alto di student3 e/o hanno un buon rating di persone laureate, penalizzando università un po’ più periferiche, con delle infrastrutture meno forti. Quindi si continuano finanziare di più le università che già vanno bene e a finanziare di meno le università che ne avrebbero più bisogno per questioni strutturali e non solo; quindi, dividendo nettamente università di serie A, B o C. Un altro punto cruciale della questione che è studiare e lavorare in università come precari3, soprattutto in città delle già citate università di serie A con il costo della vita molto alto, diventa ancora più complesso, proibitivo per molt3. E vivere a fronte di un diritto allo studio e all’abitare sempre più limitato, con contratti sempre più scarsi e sempre pagati sempre di meno, pagando un affitto e tutto il necessario per vivere inizia ad essere complesso.
Infine, riportiamo alcune riflessioni che sono state fatte durante il coordinamento generale dopo lo sciopero nazionale dello scorso 12 maggio:
È stato uno sciopero che ha permesso a migliaia di lavorator3 della ricerca di uscire dall’invisibilità delle proprie mansioni e dall’isolamento che troppo spesso produce una frammentazione del nostro lavoro e difficoltà organizzativa. Questo è stato il primo sciopero del precariato universitario che, mettendo al centro la precarietà come condizione strutturale del lavoro, fuori e dentro le mura dell’università, si è alimentato della necessità non più rimandabile di ripensare radicalmente e collettivamente l’università insieme a chi la vive, ci lavora e la tiene in piedi ogni giorno: studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori dei servizi, personale tecnico amministrativo e docenti. È stato e sarà sempre più importante organizzarsi e mobilitarsi insieme ancora nei prossimi mesi, per opporre alle fantasie della ministra Bernini la realtà del nostro rifiuto di questa università. Per questo, si apre con questo sciopero una nuova fase di mobilitazione contro il sottofinanziamento strutturale dell’università, contro la precarietà su cui si regge il lavoro dentro e fuori le università, contro la guerra che detta i propri imperativi al lavoro di ricerca tramite l’aumento di finanziamenti privati e bellici e l’uso dell’innovazione tecnologica a fini militari. Il 12 maggio è stata una grande giornata di sciopero nelle università, un momento in cui abbiamo reso visibile l’essenzialità del nostro lavoro e l’importanza della nostra organizzazione collettiva. Contro tagli, guerra e precarietà! Sciopera tutta l’Università!

Denise Torsello
