Note critiche sul Jobs Act (quinta e ultima parte)

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Una nota di critica contemporanea.

Uno sguardo critico sulle vicende contemporanee mostra la differenza che ci separa dai cittadini francesi in particolare oggi, vigente la controriforma renziana del diritto del lavoro.

Oltralpe, l’attentato al codice del lavoro progettato dal governo Hollande è stato giustamente collegato allo smantellamento dei diritti di cittadinanza insito nella rovina delle fabbriche, nella manomissione dell’ambiente e del diritto alla casa, in altre parole alla negazione del diritto di avere diritti. Dopo la grande manifestazione sindacale del 31 marzo scorso, tengono il campo incessanti manifestazioni di studenti, lavoratori, intellettuali che occupano le piazze di molte città in seguito all’esempio di Place de la Republique a Parigi.

download (1)Le “nuit debout”, malgrado frequenti incursioni poliziesche, proseguono e aggregano ora persino periferie come Saint Denis, il che significa la volontà di contrastare sia il programma del governo dell’austerità per molti in favore della opulenza per pochi, sia la segregazione classista e razzista, terreno di coltura degli attentatori islamisti. Il fine dichiarato è il ritiro incondizionato del “Droit Travail” come primo passo che non esaurisce, però, l’agenda politica che si sta delineando attraverso il confronto e l’unificazione delle lotte.

La legge contestata, secondo notizie di stampa, contiene, fra l’altro, una disposizione analoga a quella di una non recentissima legge italiana (l’art. 8 L. 14 settembre 2011 n. 148), che prevede l’inversione della gerarchia delle fonti del diritto con la preminenza dei contratti aziendali o locali su quelli nazionali, ovvio strumento di facile ricatto di chi è padrone su chi è subordinato.

Per conseguire i loro obiettivi, i francesi hanno proclamato il blocco dell’economia e scioperi generali nelle maggiori città, eventi che non nascono dal nulla ma hanno alle spalle una lunga serie di vertenze e mobilitazioni sindacali (Good Year, Renault, Continental, Air France….).

Appare evidente la vicinanza fra i giovani francesi e i loro coetanei italiani nelle esperienze esistenziali difficili causate dalla logica mercantile neoliberista. Tuttavia pare che in Francia un sistema di tutele e di protezioni sociali, pur frammentato, ancora resista.

In Italia, invece, la manomissione del diritto del lavoro ha prodotto macerie e il trend persiste indisturbato dagli anni Novanta del secolo scorso, cioè da circa venti anni, senza che nessuna reazione a contrasto degna di nota si manifesti a disturbare vari manovratori succedutisi in carica.

Penso che valga la pena di rinfrescarsi la memoria con una breve storia di queste “riforme”, procedendo per sintesi.

Si inizia con la legge 24 giugno 1997 n. 196, il c.d. “pacchetto Treu” (dal nome dell’ispiratore Prof. Treu, consulente giuridico del sindacato CISL) che regolamenta vari istituti quali l’apprendistato e il tirocinio ma, soprattutto introduce il contratto di lavoro interinale o in affitto che opera una prima breccia nell’istituto del collocamento pubblico, numerico e imparziale (per età e per sesso) della legge 264/1949 e nel divieto di utilizzo di mera mano d’opera all’interno di aziende terze, sanzionato da nullità e persino colpito da sanzione penale, della legge 1369/1960.

Con la conseguenza che, consentita la scelta discrezionale padronale, può verificarsi ogni possibile discriminazione nei confronti delle donne e degli altri “soggetti deboli” nel mercato del lavoro.

La legge infligge una ferita notevole a monumento di civiltà giuridica costituzionalmente orientato, anche se non reca l’abrogazione esplicita delle leggi sopra citate (264 e 1369).

La loro abrogazione formale è opera della successiva “riforma” ispirata dal Prof. Biagi (docente di diritto del lavoro, consulente giuridico della CGIL). Si tratta della legge n. 276/2003 che determina modifiche peggiorative a varie forme contrattuali quali l’apprendistato, il lavoro part time, a progetto ecc. L’aspetto più rilevante è però la creazione del nuovo contratto di somministrazione di lavoro che interviene fra un’agenzia autorizzata dal Ministero (somministratrice) e qualsivoglia impresa (utilizzatrice) la quale può utilizzare personale dipendente dalla agenzia con ampia gamma contrattuale (a tempo indeterminato, a termine, a tempo pieno o parziale). E’ reso lecito ciò che prima era vietato.

Segue il D.L. 13.8.2011 n. 138 (convertito in legge 14.9.2011 n. 148) che all’art. 8 stabilisce la derogabilità di accordi collettivi nazionali e persino di leggi statali a opera di accordi aziendali o territoriali, vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti.

Stessa la logica dell’Accordo Inteconfederale 28.6.2011.

Le materie che possono essere oggetto di questi accordi detti di prossimità – in effetti assai prossimi agli interessi aziendali per l’evidente disparità delle forze in gioco – coprono un’area ampia del rapporto di lavoro, dalle modalità di assunzione alle tipologie contrattuali (varie decine), alla trasformazione del contratto e alla sua estinzione, anche in deroga alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori (evidente segno premonitore).

Sopraggiunge il governo dei tecnici (Monti) che, in dichiarata adesione ai desiderata europei, si propone la revisione complessiva del diritto del lavoro, considerato obsoleto e ostacolo alla competitività dell’imprenditoria italiana, quindi freno alla occupazione. E’ così varata la legge 28.6.2012 n. 92 (Fornero) che annulla larga parte di quanto era residuato dell’impianto normativo garantista e anticipa le peggiori manomissioni del diritto del lavoro.

La “prospettiva di crescita per un mercato del lavoro inclusivo e dinamico”, nell’opinione dei legislatori montiani dovrebbe conseguire dalla seria manomissione della legge n. 604/1966 e 300/1970 nelle parti in cui pongono limiti alla libertà padronale di recedere dal contratto di lavoro ricorrendo a licenziamenti individuali ingiusti e/o ingiustificati. Come si sa, nei licenziamenti collettivi al giudice era già impedita ogni valutazione sul merito delle scelte imprenditoriali.

In sintesi, questa legge presenta le seguenti caratteristiche: opera il sovvertimento delle fonti di diritto in favore di accordi privati di prossimità, elimina la necessità della causa per la stipula del primo contratto di lavoro a termine, limita fortemente il diritto a essere reintegrati nel proprio posto di lavoro quando si è arbitrariamente licenziati, fatti salvi i casi residuali di licenziamenti nulli perché discriminatori, dettati da motivo illecito o motivo disciplinare non sanzionabile con la massima sanzione espulsiva ma con una inferiore sanzione conservativa.

Per di più, se il licenziamento è inflitto adducendo a motivi economici, tali motivazioni per essere negate, devono apparire non solo infondate, ma manifestamente infondate (tali a prima vista), per consentire il reintegro per ordine del giudice. Evidente l’intento di falcidiare le possibilità istruttorie del Giudice del Lavoro. Non viene disboscata la selva di oltre 40 tipologie di contratti di lavoro, anzi viene peggiorato il contratto di apprendistato a bassissimo salario di cui risulta aumentata sia la durata che la percentuale rispetto agli occupati in azienda. Dal 2011 al 2014 non appare conseguita la finalità dichiarata della crescita e neppure quella della creazione di un mercato inclusivo e dinamico.

Come si è visto, la questione è stata presa in carico dal governo Renzi, con una riforma che risulta ispirata dal Prof. Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro, per anni responsabile dei servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Sembra però che i tredici provvedimenti legislativi varati fra marzo 2014 e settembre 2015, pur aumentando enormemente la flessibilità in ogni momento del rapporto di lavoro, dal suo inizio alla sua imperscrutabile fine, non abbiano raggiunto lo scopo di incrementare la competitività e l’occupazione, mentre hanno certamente completato l’opera di distruzione del diritto del lavoro costituzionalmente orientato.

I dati sull’occupazione forniti dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS mostrano che:

Dopo la crescita dell’anno 2015, dovuta principalmente a decontribuzione per chi assumeva a tempo indeterminato (contributo governativo stimato in 11,7 miliardi per il periodo 2015-2018), nel 2016 le assunzioni a tempo indeterminato sono scese del 39% sul 2015 e del 31% sul 2014.

Al netto delle cessazioni il calo del 2016 sul 2015 raggiunge il 64% che diventa il 60% sul 2014.

Inoltre, il 61% dei rapporti di lavoro attivati nel 2015 ha usufruito delle misure di decontribuzione e sul totale di questi contratti il 41% è a tempo parziale.

Il lavoro precario si avvale intensamente dei voucher che sono stati il 66% in più nel 2015 sul 2014 e nel gennaio 2016 sono il 36% in più sul gennaio 2015, non più utilizzati esclusivamente o prevalentemente nel settore agricolo, come in precedenza, ma usati in settori vari (servizi, turismo, pubblici esercizi ecc) per retribuire persone nel pieno della loro vita lavorativa.

Il governo ne ha incentivato l’uso alzando il limite massimo di reddito annuo per addetto fino a €.7.000 netti (in precedenza il tetto era di €. 5.000).

Il Ministro Poletti ha dichiarato di voler introdurre entro maggio 2016 un meccanismo di tracciabilità dei voucher prevedendo l’obbligo da parte delle imprese di comunicare per via telematica o sms il loro utilizzo, ma il meccanismo pare insufficiente ad arginare il fenomeno: come è stato detto, l’esperienza suggerisce che potrebbero essere tenuti da parte come forma di tutela contro le ispezioni.

Se si considera la ripartizione dei nuovi rapporti per qualifiche professionali, si vede che il 70% riguarda figure poco qualificate, il 25% impiegati, il residuo quadri e dirigenti.

Per fascia di età la maggior parte delle assunzioni ha riguardato lavoratori fra i 40 e 49 anni e per meno del 15% la fascia fra i 25 e 29 anni (sono i cosiddetti NEET: non studio e non lavoro).

Nel frattempo il tasso di disoccupazione giovanile è in Italia del 37,9% contro una media europea del 22% e si sa che, come di consuetudine nel nostro Paese, essa colpisce prevalentemente le donne.

Fattore ulteriormente penalizzante è la differenza notevole fra le retribuzioni di donne e uomini: fra i dirigenti il differenziale favorevole per gli uomini ammonta al 9,9%, fra i quadri al 7,4% , fra gli impiegati al 9%, fra gli operai al 19,5%.

Inoltre nel 2015 in Italia la retribuzione è diminuita dello 0,5% sul 2014 e, secondo dati Eurostat, è pari a €. 28 all’ora contro una media europea di €. 29,5 (in Germania €. 32). Poiché non sfugge che la gran parte della mano d’opera femminile sia prevalentemente addetta alle mansioni meno qualificate, la situazione retributiva sarà inevitabilmente deteriore.

La circostanza emerge anche dai dati raccolti in uno studio dell’Università di Siena che evidenzia come la percentuale delle donne italiane prive di pensione sia doppia rispetto alla media dell’Unione Europea. Il rapporto riferisce che il 99,9% dei maschi italiani fra i 65 e i 79 anni riceve un trattamento pensionistico mentre per le donne la percentuale è del 83,9% e nella UE la copertura per le donne è del 92%. La circostanza è imputabile al fatto che il tasso di occupazione delle donne italiane è solo del 46,8% mentre la media UE è del 59,5%.

E’ l’esito di un lavoro di cura coatto per la mancanza di adeguate strutture di welfare, che penalizza le donne due volte, da attive e in vecchiaia, tanto a maggior ragione se si considerano le difficoltà di coprire i buchi contributivi dovuti a interruzioni di carriera causati da attività di cura famigliare.

Conseguenza è anche la ridotta entità economica degli assegni pensionistici percepiti dalle italiane: in media il 36% in meno rispetto ai coetanei maschi, sempre fra i 65 e i 79 anni di età.

A proposito di pensioni, vorrei sottolineare che l’indignazione e, si spera, finalmente, qualche azione a contrasto della ingiustizia sociale sempre più macroscopica, conseguente alla “riforma Fornero” (inserita nella legge finanziaria del dicembre 2011, detta “Salva Italia”) non dovrebbe esimere dalla ripresa del conflitto anche contro tutte le altre riforme anticostituzionali subite dai lavoratori, soprattutto giovani, nell’ultimo ventennio.

Se questo compito essenziale per la democrazia non verrà assunto dalla Confederazione Europea dei Sindacati (non ci sono per ora segnali incoraggianti), allora una spinta di base autorganizzata dovrà promuovere l’unificazione delle lotte contro l’Europa finanziaria che privilegia l’un per cento di beati possidenti, a scapito dell’esistenza degna di tutti gli altri.

Questo sembra l’insegnamento del marzo francese, un insegnamento da seguire.

*Maria Grazia Campari, avvocata esperta in diritto del lavoro

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte

 

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Maria Grazia Campari

Avvocata, è socia della Libera Università delle Donne di Milano e dell'associazione Rosa Luxemburg di Firenze. Ha scritto per varie riviste (Democrazia e Diritto, Quale Giustizia, il Diritto delle Donne, Reti, Alternative, Sottosopra, il Paese delle Donne) su temi come il diritto sessuato, la violenza sessista, la rappresentanza politica e sociale, la cittadinanza femminile e la bioetica. Ha partecipato alla scrittura di alcune opere collettanee: “Donne e diritto. Lessico politico delle donne”, “Percorsi del femminismo milanese a confronto”, “L’eredità del femminismo per una lettura del presente”, “Ai confini dello stato sociale”, “Con Rosa Luxemburg – politica, cultura, impegno contro la guerra”, “Donne e uomini nella politica: rappresentanza, partecipazione, conflitti”.

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