Dopo il futuro, un saggio di Bifo

Un libro del quale è difficile determinare l’ambito disciplinare. Potrebbe essere un saggio di storia dell’arte ed in particolare del ruolo di alcune avanguardie artistiche del secolo scorso con un occhio particolare alla storia dei futurismi, un saggio di sociologia dei comportamenti, un trattato politico, oppure un’indagine sull’immaginario occidentale relativa sempre allo stesso scorcio di tempo.

Ma, come in molte opere di Bifo, tutte questi aspetti si intrecciano dando anche più valore all’insieme. Cento anni dopo l’uscita del “Manifesto del Futurismo”, l’autore coglie l’occasione per indagare l’evoluzione del concetto di futuro. Evoluzione soltanto temporale visto che – come il titolo fa presagire – sembrerebbe che il futuro sia ormai terminato e con esso sia finita anche la modernità ad esso connessa. Un viaggio affascinante tra arte e politica che si chiude con un manifesto da rilanciare: non quello del futuro prossimo, ma quello appunto del “dopo-Futurismo”. Che forse potrà restituirci un po’ di sensibilità:

«Sensibilità è la facoltà del comprendere quei segni che non possono essere verbalizzati, cioè codificati in maniera discreta, verbale, digitale. Quanto più l’attenzione umana viene assorbita dalla codificazione digitale, dalla modalità connettiva, tanto meno sensibili sono gli organismi coscienti» (p. 117).

IMG_8281Il futuro era contrassegnato da alcuni concetti topici. Ad esempio la macchina che si è però evoluta da oggetto esterno a macchina “internalizzata” che ci ha fatto appunto passare da un regime disciplinare a un regime di controllo. Oppure il progresso che voleva e doveva essere sinonimo di futuro, elementi che invece oggi non trovano più nessuna corrispondenza.

Il “futuro” del secolo scorso ha anche rinsaldato l’immaginario collettivo operando sugli elementi fondanti i luoghi comuni che discriminano le donne, quali le virtù guerresche, la velocità e lo scontro. Certo la velocità, quella che in un’accelerazione parossistica presagisce l’annullamento degli spazi che l’informatica ha prodotto. Velocità, macchine e accelerazioni marcano il futuro/progresso dell’immaginario del secolo scorso con processi che possono però infine divergere come per il futurismo russo che ebbe esiti diversi da quello italiano.

Il corpo centrale del saggio trova appunto assonanze e differenze tra questi due movimenti, dilungandosi nell’interpretazione delle visioni connesse al concetto di futuro, facendo così anche delle piccole scoperte come quella che deriva dalla commistione tra creazione artistica e mondo della produzione che si incontrano sul campo della pubblicità, dove la poesia assorbe alcune caratteristiche dal messaggio pubblicitario, quali ad esempio quella per la quale l’obiettivo sarebbe di perseguire «il  massimo di trasferimento di contenuto nel minor tempo possibile» (p.40).

E forse l’utopia della modernità era invece quella che, secondo gli “insorti” del ’68, si stava allora realizzando. Ma secondo Bifo non si seppe decidere tra «una versioneradio_alice_04_0 dogmatica dell’utopia, che culmina spesso nel Terrore, e una versione ironica, che sa trasformarsi in progetto» (p.16). Da cui si possono estrapolare una serie di considerazioni probabilmente utili per tutte le prassi rivoluzionarie a venire. L’ironia, appunto. Essa viene fuori quando il progetto prende atto delle sue imperfezioni, allora “l’utopia si fa ironica”. L’ironia come rottura o sospensione del senso degli enunciati, interruzione del rapporto tra significante e significato che porta a uno scarto, a un eccesso di senso o a un altro senso. Qui allora noi immaginiamo due possibili esiti. Il primo è un sottrarsi dal senso che può portare a un’inoperosità creativa (Agamben), il secondo è invece prendere un’altra strada che porta a un esodo (Virno), a una rivolta, quindi, che non si scontra frontalmente. «L’ironia è consapevolezza dell’irriducibilità del linguaggio al mondo e del mondo al linguaggio» (p. 55). L’ironia è irresponsabile e ci libera dal senso di colpa. L’ironia dadaista rompe la dimensione auratica dell’arte facendo nello stesso tempo irrompere l’arte nella banalità del quotidiano lasciandoci un messaggio subliminale che vede la politica stessa divenire espressione della quotidianità estendendo quindi ad essa la riconversione di Tristan Tzara:

«Abolire l’arte
abolire la vita quotidiana
abolire la separazione tra l’arte e la vita quotidiana» (p. 56).

Dadaismo e surrealismo allargano l’area del possibile, allora

«l’area del pronunciabile si allarga, l’area del visibile si allarga. E da questo allargamento dell’enunciazione sbucano fuori il movimento studentesco, l’antiautoritarismo, il rifiuto del lavoro operaio, l’egualitarismo, l’esplosione della parola irrealistica che si fa immaginario, che si fa vita quotidiana» (p.63).

largeNel secolo che credeva al futuro in realtà si mettevano a punto quei dispositivi che lo avrebbero sottratto. È sul finire del secolo scorso che il processo di produzione si fece «processo semiotico, produzione di segni a mezzo di segni», è lì che si è avuta la cattura dell’aspetto cognitivo (che lo si è messo al lavoro) che si è riusciti ad integrare la forza cognitiva «nel ciclo ininterrotto della produzione di valore» (p. 44) producendo una forma come di mentalizzazione del lavoro produttivo tale che il rapporto tra tempo di lavoro e valore è entrato in un regime di indeterminazione, creando così un vero e proprio mutamento antropologico. «Nella rete globale non ci sono più persone che prestano tempo-lavoro, ma un mosaico infinito di frammenti ricombinabili e cellulari» (p.104). «La precarietà diviene [allora] forma generale del rapporto sociale» (p. 80) dice Bifo. Oppure, citando Formenti:

«la nuova produzione capitalista non è più produzione di merci per il corpo e per la mente, ma produzione diretta di corpo e mente, così come l’economia è sempre più direttamente investimento di energia desiderante» (C. Formenti, Mercanti di futuro, p. 235).

Nel secolo che credeva al futuro si pensava che ogni utopia fosse perseguibile, ma il processo della digitalizzazione creò una situazione nella quale i macchinari, le interfacce uomo-macchina, incorporando l’interdipendenza tra dati e decisioni in modo che l’esecuzione dei processi fosse affidata a meccanismi sociali spersonalizzati, provocò il fatto che «l’utopia virtuale si è [fosse] mangiata il futuro» (p. 97).

Insomma, dalla quotidianità che diviene politica, dalla vita, dai corpi desideranti di una rivoluzione possibile – quella degli anni ’70 – si è assistito invece ad una controrivoluzione, ad una cattura degli stessi corpi e delle stesse menti, di ogni carattere biografico e della vita tutta ora inserita nel sistema produttivo. Dal desiderio espresso dallo slogan “il privato è politico” attraverso il quale poter immettere un flusso di istanze private nell’ambito della politica, alla loro cattura da parte del capitale, alla loro messa a profitto.

Proprio per questo occorrerebbe rimetterle in campo e provare a sottrarle all’uso in termini di produzione che il capitale ne sta facendo. Proprio per questo la risposta da dare a questa nuova istanza capitalista non può trascurare tutta una serie di aspetti che Bifo raccoglie nel “Manifesto del dopo-Futurismo” posto in coda al saggio.

Tutto questo forse, per poter tornare a dire: “il futuro è adesso”.

 Franco Berardi (Bifo), Dopo il futuro. Dal futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della modernità, Derive Approdi, Roma 2013, pag. 135, € 14.00.

*Gilberto Pierazzuoli