“Eppure sapevo che il rabarbaro apparteneva ai curdi…”

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Difficile immaginare il popolo curdo a tavola, di questi tempi. Difficile pensare ad uno spazio che conceda simile privilegio. Difficile parlare di ricette, ricette non violente. 
Ma non posso farne a meno, quindi apro un “portale temporale” che mi permetta innanzitutto di portare a questa tavola nomade la voce di un poeta:

RABARBARO

Al sorgere del sole iniziava la gioia sui nostri visi

Un sacco nelle mani, la prima colazione e un paio di cose

Metà di marzo o inizio d’aprile

Cresceva e si univa la felicità infantile nei nostri occhi

Quasi come una gara tra di noi

Il terreno era bagnato e franava sotto i piedi

Le pietre rotolavano tra i nostri piedi

Nonostante tutto raccoglievamo i rabarbari

Ci incontravamo all’ombra dei platani, vicino alla fontana

Bevevamo la sua acqua ghiacciata

Eppure sapevo che il rabarbaro apparteneva ai curdi

Perché cresce in luoghi difficili, montuosi, rocciosi, come i curdi

Cresce come pelle esposta al sole

Non vive negli orti, nei giardini

È una pianta che ama vivere nelle difficoltà

Non si fa cibo col rabarbaro da noi.

E più tardi ho capito che l’amore è bello quando si raccoglie

E più tardi ho sentito dagli europei che il rabarbaro si fa dolce

E più tardi ho saputo che vive come noi curdi, appartiene ai nostri monti

Il rabarbaro è una pianta che appartiene alla geografia curda.

E l’amore ha un sapore acidulo, come il rabarbaro.

 

Doğan Akçali è il suo nome e racconta di sé che “La poesia è stata per me la prima esperienza di vera libertà”. Quella libertà che sconfigge l’oppressione, la violenza, la rabbia, l’amarezza ma anche nella sua realtà di esule, riesce a raccontare con forza e amore, le miserie anche della politica.

Ho scelto quella che più di altre riesce a raccontare, in quella punta acidula, il mio stato di indignazione puro. Che sia anche un oggetto commestibile, ovviamente aiuta.

Iniziamo a chiamare questo rabarbaro siriano col nome dato dai pastori locali: rewas. Viene raccolto all’inizio della stagione primaverile dagli uomini che pascolano in montagna facendo attenzione al taglio dei gambi e della pianta. Questo Rheum ribes è una pianta erbacea ramificata che possiede delle foglie verdi con delle striature rosse.
Prima di essere mangiato viene pelato, operazione che consiste nel rimuovere  la parte esterna del gambo, mentre quella interna è tenuta da parte. È molto succosa, profuma di rosa, leggermente acidula, fresca e viene consumata come snack; a volte viene anche immersa in delle ciotoline contenenti del sale, così da rendere il rêwas più saporito. Nella medicina popolare viene dato a chi soffre di ipertensione. Ricordiamoci che in questa terra di Medio Oriente hanno interagito molte culture: turca, araba, persiana e in questo crogiolo culturale si possono trovare dei tratti evidenti nella conoscenza a proposito dell’utilizzo e del consumo di piante e verdure spontanee e la radice di rabarbaro siriano  viene usata tradizionalmente per il trattamento di diabete, emorroidi, ulcere e diarrea.

Il procedimento per gustarlo, non è propriamente gastronomico, non legato ad una preparazione, ad una cottura particolare ma, al modo di condividere questo cibo, che a mio parere riassume la spudorata bellezza e amarezza che scende per la gola, in questo tempo di violenza nuda e cruda.
È consuetudine infatti che i gambi nettati del rabarbaro vengano sparsi  sui tappeti dove le donne e gli uomini si accomoderanno per bere il tè, chiacchierare, stare insieme.  Questo diverso uso sociale, di convivialità legato al rêwas ci porta il sapore della coesione delle comunità curde.

E a proposito del verso: “E più tardi ho sentito dagli europei che il rabarbaro si fa dolce”,
vi racconto che anche per me questa pianta ha un significato particolare. È legata alla signora Ademia, un’amica di mia nonna, sola, mai sposata, libera, curiosa e un po’ eccentrica. L’ho conosciuta e frequentata negli anni rapallesi delle mie vacanze scolastiche e proprio l’ultimo anno che ho trascorso in Liguria, mi regalò come saluto e pegno di amicizia, un bell’anello da uomo rettangolare, d’oro, con una pietra nera dalla strana faccia scolpita e un piatto con una fetta di soffice rosata e tumida torta di rabarbaro accompagnata dallo stesso ma fritto. Dell’anello sfoggiato con onore fin quando non ho perso la pietra, che non ho mai voluto sostituire, è rimasto lo scheletro nudo ma non vuoto, del rabarbaro invece il bisogno di vederlo e toccarlo. Inevitabile l’inciampo sulla sua ricetta, davvero notevole e che, per motivi affettivi legati a questa storia, non ho mai cambiato.

Di questo strano vegetale, dal sapore appena amarognolo e fresco, si usano solo i gambi o steli e prima di lessarlo in acqua e zucchero, toglietegli i fili stile sedano o cardo e tagliatelo in pezzetti di 5/6 cm; una volta scolato e raffreddato immergetelo nella pastella per la frutta:

Lavorare in modo omogeneo: 150 gr farina bianca o riso e fecola- 2 uova intere- 10 gr zucchero semolato-il pizzico di sale e 3 decilitri di latte. Aromatizzare a vostro criterio e usate dopo una ventina di minuti. Friggete in olio bollente.

E siccome sono dell’idea che le belle cose vanno fatte circolare, vi scrivo anche la ricetta della torta per 8 persone (6 se golose) per cui una tortiera di 30 cm. imburrata e spolverata di pane grattato:

200 gr di farina bianca
200 gr di burro
200 gr di zucchero semolato+2 cucchiai
4 uova
1/2 kg di rabarbaro
scorza grattugiata di 1 limone
sale
Pulite il rabarbaro come sopra, e tagliatelo a pezzetti lunghi 3 cm.
In una terrina appoggiata sul ghiaccio, battete con la frusta il burro fuso con lo zucchero, fino ad ottenere una spuma morbida. Ora si aggiungono le uova, la farina setacciata, la scorza di limone e una presa di sale. Versate il composto nella tortiera, allineando a piacere i tronchetti di rabarbaro, spolverizzando con il resto dello zucchero (i 2 cucchiai). Si inforna a 170°, per 35 minuti.

*Barbara Zattoni 

 

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Barbara Zattoni

"Cheffa" del Ristorante Pane e Vino, autrice di libri di cucina e altro (La cucina del riuso - Il libro dei dolci) e modista. Ha collaborato con perUnaltracittà al ciclo d'incontri "Europa tossica". Attualmente insegnante di cucina a Cordon Blue e chef a domicilio. Il suo sito internet

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