Daspo. Si stava meglio quando si stava peggio?

Pur rivendicando a parole il superamento dei “Decreti Salvini”, il nuovo “Decreto sicurezza” n. 130/2020 – in fase di conversione e che, in questa sede, per comodità espositiva chiamerò “Decreto Lamorgese” -, appare improntato alla medesima logica securitaria e repressiva dei precedenti in materia: ovviamente la propaganda politica del Partito Democratico ci ricorda ogni giorno che passa quanto Salvini sia pericoloso, populista e reazionario, in questo modo glissando sul merito delle norme introdotte dal pre-predecessore di quest’ultimo, ossia Marco Minniti, e dall’attuale ministra dell’Interno. Non deve allora meravigliare se il Decreto n. 130/2020, all’art. 11 abbia introdotto ulteriori misure repressive in materia di Daspo urbano, spingendosi persino oltre – in termini di populismo securitario – sia al primo “Decreto Salvini”, sia al democratico “Decreto Minniti”.

L’istituto, come è noto, era stato introdotto proprio dal “compagno” Minniti con il d.l. n. 14/2017: nello specifico, all’art. 13 era stato riconosciuto al Questore territorialmente competente il potere di vietare l’accesso ai locali pubblici o aperti al pubblico, oltre che a scuole ed Università, nei confronti di coloro che avessero riportato nei tre anni precedenti una condanna definitiva – o comunque confermata in appello -, per reati di produzione, traffico e detenzione di stupefacenti, anche se minorenni, purché di età superiore ai 14 anni (notare la sensibilità montessoriana dell’ex ministro democratico).

Il divieto in questione poteva durare da 1 a 5 anni e ad esso si poteva poi aggiungere fino ad ulteriori due anni – previa convalida del GIP, in caso di condanna definitiva dell’interessato -1q, l’obbligo di presentarsi presso gli uffici di p.s. (anche negli orari di entrata e di uscita degli istituti scolastici), ovvero di rientrare e di non uscire dalla propria abitazione in determinate fasce orarie e persino il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza. La norma non è stata modificata dal reazionario “Decreto Salvini”, ma dal democratico “Decreto Lamorgese” che, all’art. 11, comma 1, lett. a), da un lato, ha esteso il divieto di accesso ai luoghi di cui sopra anche a coloro che siano stati semplicemente denunciati (una o più volte) per reati connessi allo spaccio di stupefacenti; dall’altro, ha qualificato come illecito penale – e non più amministrativo – la violazione dei divieti disposti dal Questore e convalidati dal GIP. Oggi, infatti, la norma prevede – per queste ultime ipotesi – la reclusione da sei mesi a due anni e la multa da 8.000 a 20.000 euro, mentre Minniti si era limitato a prevedere, per le medesime fattispecie, la mera sanzione amministrativa da 10.000 a 40.000, oltre alla sospensione della patente da sei mesi a un anno.

Quindi, in sintesi, l’attuale Governo si spinge ben oltre quanto fatto da Minniti – e non modificato da Salvini -, con buona pace del garantismo penale nei confronti di chi (magari un quindicenne) è stato denunciato perché aveva uno spinello in tasca (e forse non andrà mai a processo). Almeno la novella stabilisce che il Questore, prima di comminare il Daspo, debba valutare eventuali provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, ovvero gli accertamenti di polizia nei confronti dell’interessato: ma la disposizione appare contraddittoria perché, stando ad una mera interpretazione letterale, i due presupposti di cui sopra dovrebbero essere necessariamente concorrenti e non alternativi, potendosi applicare soltanto se l’interessato risulta pregiudicato: è auspicabile, quindi, che il Parlamento – in sede di conversione del Decreto legge – faccia luce su questo punto e riformuli la lettera della norma, in termini chiaramente più garantisti dell’attuale.

Ma come se non bastasse il “Decreto Lamorgese”, sempre all’art. 11 – questa volta al comma 1, lett. b -, modifica l’art. 13-bis del “Decreto Minniti” – questo sì, introdotto da Salvini con il suo primo “Decreto sicurezza” – prevedendo che il Questore territorialmente competente possa comminare il divieto di accesso ai locali pubblici, ai pubblici esercizi ovvero ai luoghi di pubblico intrattenimento nei confronti delle persone condannate nell’ultimo triennio – con sentenza definitiva, anche solo confermata in appello -, per reati commessi nel corso di gravi disordini nei locali di cui sopra ovvero per produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti. Insomma, se c’è ancora qualcuno che crede nel superamento dei “Decreti Salvini” da parte dell’attuale Governo, ci ripensi al più presto: non solo non si è abrogato il Daspo introdotto da Salvini ma, se possibile, lo si è reso ancora più repressivo. L’art. 13-bis del “Decreto Minniti” – così come voluto da Salvini – infatti, si limitava a prevedere il divieto di stazionamento nelle immediate vicinanze dei pubblici locali di cui sopra in specifiche fasce orarie, per non meno di sei mesi e per non più di due anni, anche nei confronti dei minori con più di 14 anni (il lettore apprezzerà la sensibilità montessoriana di Salvini, che tuttavia non brilla per originalità).

Ebbene, il “Decreto Lamorgese” amplia l’ambito di applicazione di questo Daspo, prevedendo che possa applicarsi a coloro che negli ultimi tre anni abbiano riportato soltanto una semplice denuncia, mentre Salvini – ma non era lui il pericoloso reazionario? – si era limitato a prevederne la comminazione in caso di condanna definitiva o comunque confermata in appello. Ma c’è di più: il “Decreto Lamorgese” amplia l’ambito oggettivo di applicazione del Daspo, stabilendo che il Questore possa vietare all’interessato l’accesso a specifici locali pubblici, “… in ragione delle persone con le quali l’interessato si associa, specificamente indicati”.

Anche in questo caso la disposizione è scritta malissimo: che si intende per “persone con le quali l’interessato si associa”? Poiché il Daspo non si applica nel caso di reati associativi, cosa si deve intendere allora con quel “si associa”? E quel “specificamente indicati”, a cosa si riferisce? Ai locali oppure alle persone normalmente frequentate da chi è sottoposto a Daspo? Ad avviso di chi scrive, l’interpretazione più logica appare quest’ultima, anche perché se il legislatore facesse qui riferimento ai locali per cui scatta il divieto, questi risultano già individuati dal Questore e saremmo, allora, di fronte ad una inutile (quanto sgrammaticata) ripetizione. In attesa che il Parlamento corregga questa sbavatura queer del “Decreto Lamorgese”, si noti come la novella preveda un’ulteriore estensione applicativa: ai sensi del nuovo comma 1-bis dell’articolo 13-bis, infatti, il Questore può disporre la misura in questione a tutti i locali presenti sul territorio provinciale (sì, avete letto bene, tutti !), se il destinatario del Daspo risulta condannato per uno dei reati di cui al Testo Unico stupefacenti, anche in via non definitiva. Il “Decreto Lamorgese”, infine, modifica il comma 6 dell’articolo 13-bis, stabilendo che nel caso di violazione dei divieti di cui sopra è prevista la reclusione da sei mesi a due anni: Salvini più modestamente si era limitato a prevedere la reclusione da sei mesi a un anno e una multa da 8.000 a 20.000 euro.

Quest’ultima norma appare senz’altro incostituzionale, in quanto nel bilanciamento tra il principio di presunzione di innocenza – caposaldo di uno Stato di diritto che voglia minimamente considerarsi democratico – e la sicurezza (che non è un diritto costituzionalmente garantito), il “Decreto Lamorgese” fa ottusamente prevalere le ragioni securitarie, nonostante il destinatario del Daspo abbia “a suo carico” soltanto una denuncia – il che vuol dire che nei suoi confronti potrebbe anche non esercitarsi mai l’azione penale. Tuttavia, al contrario di quanto previsto al già analizzato art. 13, il Questore in questo caso non deve considerare né eventuali decisioni dell’autorità giudiziaria, né tanto meno gli accertamenti della p.s.

In conclusione, il quadro che emerge dalla novella legislativa è quanto mai sconfortante: lungi dal porsi in discontinuità rispetto alle politiche di Salvini e Minniti, l’attuale Governo e la maggioranza di “sinistra” che lo sostiene, persegue con sempre maggiore virulenza repressiva una politica securitaria che neppure la peggior cultura proibizionista di destra avrebbe saputo immaginare.

*Antonello Ciervo, avvocato Cassazione e ricercatore di Diritto pubblico

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