Ecosocialismo

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Il modo di produzione della ricchezza ha sempre profondamente segnato la vita degli umani nel mondo. Ma questa connessione non sempre è così evidente per tutti gli aspetti sui quali esercita la sua influenza. Marx ha per esempio mostrato i meccanismi attraverso i quali il capitale riusciva a estrarre plus valore dallo sfruttamento della forza lavoro. Su questi si è costruita storicamente una critica del modello e l’aggregazione politica della classe sociale che forniva la mano d’opera: gli operai salariati. Il capitalismo come epoca storica è però segnato anche da altri conflitti oltre a quello capitale-lavoro. Quello patriarcale, uomo-donna (maschio-femmina) e quello ambientale naturale-artificiale (produzione-salute).

Per quanto riguarda il rapporto tra produzione e ambiente, spesso però non se ne sono evidenziate le connessioni seppur presenti nell’analisi marxiana, come ben illustra Michael Löwy. Si è così assistito, per esempio, a situazioni nelle quali si è fatto passare in secondo piano il danno ambientale nei confronti della difesa dei posti di lavoro. Sino al secolo scorso la politica oppositiva al modo di produzione capitalistico si è infatti concentrata sulla proprietà dei mezzi di produzione sostituendo soltanto la proprietà collettiva degli stessi a quella privata, mantenendo però intatti molti altri aspetti della vita sociale connessi a questo modo di produzione.

In questo contesto e nello stesso tempo, si è fatta sempre più palese la coscienza che qualcosa non andava nell’atteggiamento umano nei confronti dell’ambiente e si è preso atto che bisognava fare qualcosa per fare terminare lo scempio nei confronti della natura. Questi due piani di resistenza e di opposizione non si sono però uniti in una politica comune, anche perché la connessione tra modo di produzione e abuso ambientale non era stata ben evidenziata. Una possibile risposta la cerca di dare allora l’ipotesi dell’ “ecosocialismo” che Michael Löwy propone in questo suo libro appena uscito per “ombre corte”  nella traduzione di Gianfranco Morosato. Qui una sola considerazione negativa: purtroppo il lavoro dell’autore, applicato allo svelamento della profonda commistione tra capitalismo e danni ambientali, non riesce ad allargarsi e a mettere in connessione anche capitalismo e conflitti di genere.

Comunque, anche quella che è la questione centrale del lavoro di Löwy, non è così palese. Si tratterebbe di una miopia reciproca tra i movimenti ambientalisti e quelli inerenti la politica sociale e del lavoro, dove le correnti più radicali di entrambi hanno esasperato in maniera paradossale la cura del proprio orto. Löwy cita per assurdo la tutela della zanzara anofele che in un delirio anti antropocentrico avrebbe gli stessi diritti alla vita di un bambino affetto dalla malaria. Differenza che peraltro esiste, ma sulla quale non si dovrebbe costruire un’istituzione sociale e nemmeno semantica.

In realtà, la ricerca di un punto di unione delle due pratiche di lotta si è provata a teorizzarla già in precedenza, Löwy cita per esempio il lavoro di James O’Connor per il quale il trait d’union consiste nel subordinare il valore di scambio al valore d’uso. Valore, quest’ultimo” che deve tenere conto anche delle esigenze di tutela ambientale. Löwy articola poi questa proposta con alcune ricette classiche del pensiero marxista, quali la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, la pianificazione democratica e una nuova struttura tecnologica delle forze produttive.

Quello che è in discussione è la limitata razionalità del mercato capitalista che antepone degli obiettivi immediati (il mero calcolo dei profitti) mancando di una visione prospettica ma anche di una politica che esprima una certa solidarietà se non di specie, almeno di classe. Il modello produttivo e i modi di vita che ne derivano non sono infatti applicabili a tutto il pianeta, se non amplificandone gli effetti nefasti peraltro già presenti nel modello stesso. Il capitalismo non esprime nessuna forma di solidarietà di classe, vedendo negli altri capitalisti soltanto degli spietati concorrenti. Il capitalismo è allora una forma egoistica di rapportarsi al mondo che sulla spinta di quella concorrenza e mosso da meccanismi interni, è condannato a una crescita perenne della produzione e quindi dei consumi, dove le crisi – e le vittime prodotte dalle stesse – sono consustanziali al sistema. Ma la soluzione non sarebbe la semplice limitazione generale dei consumi, ma forme alternative di consumo non legate solo e soltanto alla loro crescita infinita sganciata da qualunque espressione dei bisogni e dei desideri non condizionati dalla macchina sistemica. Serve allora, prosegue l’autore, una riorganizzazione del modo di produzione, una economia di transizione al socialismo, che si misuri sui bisogni reali della popolazione e la tutela dell’ambiente.

E su questo si innesta la mia seconda critica verso un testo peraltro fondamentale per fare uscire sia la critica economica che quella ambientale dalle secche provocate dalla loro incapacità di comunicare. La critica è che si parla di bisogni “veri” (della popolazione e dell’ambiente) non sempre mettendo in campo quale riflessione e quale meccanismo possa avere agito per determinarne la veridicità. Per il resto si ha coscienza che occorra dare voce a interessi generali e a più lungo respiro, che scalzino la nuda redditività capitalistica degli stessi.

Il lavoro di Löwy si apre a questo punto a proposte concrete, a pratiche non astratte, individuando – almeno in parte – anche analisi utili a smascherare i meccanismi che inducono bisogni non autentici: «Il criterio per distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale è la sua persistenza dopo la soppressione della pubblicità» (p. 32). E, dopo di questa, mette in discussione la “mano invisibile” del mercato alla quale, citando Richard Smith, ci sarebbe da contrapporre l’azione diretta di una mano, questa volta esplicita, della pianificazione diretta. Il senso è semplice: se certi meccanismi, quelli che giustificano il capitalismo, si reggono soltanto sulla miopia totale nei confronti di certi ambiti, per esempio quello della salvaguardia dell’ambiente, la proposta socialista se ne deve invece fare carico, superando in questo la complicità involontaria delle «principali tendenze di sinistra durante il XX secolo» (p. 39) per le quali le forze produttive avessero allora una certa forma di neutralità. Si parla così, più e più volte, di tenere in conto la salvaguardia degli equilibri ecologici, ma lo si dà come compito aggiunto senza spiegare il fatto del perché esso sia stato fino a qui trascurato. È un compito del quale prendersi carico, più perché si è superata la capacità dell’ambiente di rigenerarsi, con la conseguenza di un’urgenza riparatoria che sinistra e capitale ormai devono riconoscere, che non attraverso un’analisi dei meccanismi produttivi di questo sistema economico sociale. L’interesse di Marx era concentrato nel fare emergere la forma di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, tanto che, altri aspetti – seppur intravisti – non meritarono quell’attenzione che oggi è diventata palese.

Se Marx, pur dentro a questa “trascuratezza”, era comunque in sincronia con la società a lui coeva, Löwy aggiorna l’apparato concettuale della sinistra mantenendo comunque uno scarto. Lo fa, secondo me, quando dice: «La condizione necessaria per raggiungere questi obiettivi è una piena ed equa occupazione» (p. 40), scarto temporale che poi cerca di colmare quando, poco dopo, parla della riduzione del tempo di lavoro”, aggiungendo: l’aumento del tempo libero è infatti una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla gestione dell’economia e della società» (p. 41). Adesso, quando invece della piena occupazione, si parla di piena automazione, mettendo in risalto un obiettivo che non si può più posporre come quello di andare sempre di più in direzione della soppressione del lavoro salariato, si ha con il lavoro un rapporto ambiguo come se la fine del lavoro salariato fosse una utopia astratta.

Mentre il capitale si è organizzato per l’utilizzo ai propri fini delle tecnologie digitali attraverso le quali è riuscito a riorganizzare ampi settori della produzione e della logistica, sganciando il lavoro dal salario attraverso il lavoro gamificato, gli stage e consimili, svincolando poi il salario dalle ore di lavoro, reintroducendo il cottimo e inventandosi la figura dell’imprenditore di se stesso per la quale i rider non sono dei lavoratori sottopagati, ma degli imprenditori, ecco, che la buona vecchia sinistra si trova in difficoltà a sbarazzarsi una volta per tutte di quella imposizione distruttiva che è il lavoro salariato. Si può obiettare che il lavoro, anche in senso fordista, sia a tutt’oggi uno dei modi dello sfruttamento capitalista degli uomini, della natura e doppiamente delle donne, ma che la tendenza vada in un’altra direzione è ormai elemento fuori da ogni tipo di dubbio. Si può e si deve invece aggiungere che la sinistra sia completamente impreparata ai giochi di prestigio messi in campo dal capitale per continuare a dominare il campo, un campo che è, a ben guardare, il mondo. E che anche in quei settori più tradizionali della produzione e del lavoro salariato, le innovazioni digitali quali quelle messe in atto nel comparto della distribuzione e della logistica, remino verso un futuro di sottomissione totale alla macchina del consumo in-consapevole e distruttivo del capitalismo del XXI secolo.

Löwy affronta allora le accuse che questo capitalismo aggiornato gli leva tramite i suoi alleati ideologici, con la difesa e il recupero di alcuni strumenti storici della sinistra, quello per esempio della pianificazione democratica e quello del recupero della centralità del valore d’uso: operazione preziosa, ma lo fa pensandoli come strumenti del secolo scorso. Strumenti che, per di più, il socialismo “reale” avrebbe male applicato. In realtà, se riusciamo a pensare in termini digitali e a non lasciare, in questo settore, il campo libero al capitale, possiamo intravedere nello strumento del feedback continuo prodotto dagli utenti delle piattaforme digitali e nelle possibilità offerte dalla pianificazione algoritmica delle reti degli ibridi umani e di quelli non umani – feedback che anche l’ambiente produce – una possibilità mai così tecnologicamente alla portata di una sinistra realmente rivoluzionaria. Contro il genere, la razza e la specie, una sinistra anti colonialista, che non colonizza né gli uomini, né la natura, ma non lo fa attraverso la buona volontà, non lo fa per motivi morali se non moralistici. Lo fa perché è frutto non soltanto di un’umanità rispettosa, ma di quel potere che la coalizione delle cose riacquistano nelle reti cibernetiche che offrono loro un’agenzialità sino a oggi concessa soltanto agli umani, a quegli unici soggetti spesso impersonati nella figura del maschio bianco del nord del mondo. La pianificazione funziona non soltanto perché è democratica, ma perché è frutto del “parere” di tutte le cose. Ecco il valore d’uso che lasciato a sé stesso sarebbe soltanto un astrazione, un valore intrinseco alla cosa, che sarebbe allora inconoscibile.

Do qui un esempio del modo di pensare di Löwy.

Sorge una domanda: che garanzia abbiamo che le persone faranno delle buone scelte, quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da pagare è cambiare parte delle proprie abitudini di consumo? Tale “garanzia” non esiste, tuttavia appare ragionevole la prospettiva del trionfo della razionalità delle decisioni democratiche. (p. 45).

Con l’apparato metodologico che mette in atto non si può che affidare alla razionalità delle scelte per soggetti non più condizionati, mantenendo il monopolio delle soggettività all’antropos dell’antropocene, che non è la specie tutta, ma, come ben ci ha insegnato Jason Moore, è il capitalista del Capitalocene, quel maschio bianco e razionale del fallogocentrismo deriddiano. Anche il lessico di Löwy è segnato da questa cultura: si parla di valore d’uso, ma, nello stesso tempo, di “consumo consapevole” e non di “uso”. Si parla di protezione dell’ambiente perché non si riesce a pensare a un ambiente che non ha bisogno di essere protetto da nessuno.

Il resto viene di conseguenza. Löwy cita Michael Albert a riguardo di quella democrazia partecipativa che dovrebbe incarnare il nuovo soggetto della pianificazione con una frase che, presa a se stante, potrebbe andare nella direzione che avevo prospettato qui sopra: «Nella misura in cui nessun attore ha maggiore influenza di un altro nel processo di pianificazione, dove ciascuno valuta i costi e i benefici sociali con un peso che corrisponde al suo grado di coinvolgimento nella produzione e consumo, questo processo genera contemporaneamente equità, efficienza e autogestione». (p. 46). Peccato che gli attori di cui si parla siano di nuovo solo e soltanto attori umani.

Il mondo di Löwy è un mondo meglio di questo dove ancora hanno effetto dispositivi antichi. Löwy ci parla dello «attuale odioso sistema del debito» e dello sfruttamento imperialista del sud del mondo, ma anche qui la soluzione è moralistica e solidaristica perché tutto questo «lascerebbe il posto a un’ondata di sostegno tecnico ed economico dal Nord verso il Sud». Cosicché la giusta critica all’infelice slogan della “decrescita felice”, è di nuovo in mano a un dispositivo logico razionale che distinguerà i “reali” bisogni umani, aprendo il campo all’esclusioni dei desideri umani quando non reputati reali. Si parla così di “utilità marginale” (p.51), di “obblighi ecologici” (ibidem), della necessaria infrastrutturazione dei paesi poveri (quale? L’alta velocità?).

Löwy d’altronde è cosciente che molte delle sue analisi e delle sue proposte possono avere uno sbocco transitorio. In più, nella seconda parte, il suo lavoro ha un altro respiro. Si tratta della giusta critica alla fiducia che anche Marx aveva inizialmente per il progresso. Fiducia che si affievolisce con il tempo in relazione alle sue letture (di Marx) e alla presa di coscienza di alcune problematiche negative da imputare al modo di produzione capitalista, oltre a quella centrale dello sfruttamento della mano d’opera tramite lo strumento del lavoro salariato. Si tratta per esempio dell’impoverimento del suolo e della rottura metabolica tra le società umane e la natura. È questa seconda parte probabilmente la più utile, non perché smentisca la prima, ma perché fa un altro lavoro, quello di trovare tra le pieghe delle analisi di Marx e di Engels materiale utile a capire anche le problematiche contemporanee. Si tratta di un’operazione non di recupero acritico dell’intero corpo delle loro opere, ma di una indagine sul metodo, metodo questo applicabile anche all’attualità e all’emergenza ambientale che la contraddistingue.

La terza parte prosegue nell’opera – se non di smentire il detto della prima – per trovare una continuità etica tra il corpus degli scritti di Marx e quello che dovrebbe essere il portato di tutta la sinistra. Qui la morale è esplicita e esplicitata: “Per un’etica ecosocialista”, il titolo. Ma non moralistica né volontaristica. Qui il lavoro della cura e il ruolo delle donne trova il giusto spazio, non in un recupero razionalista del loro ruolo, ma in quello spazio di sensibilità che la sinistra ha come lascito e programma. Cosa che permette all’autore di giustificare l’umanesimo e una forma di antropocentrismo come punto di vista proprietario e non coloniale.

Chiudono il libro degli importanti esempi ricchi di materiale dal Brasile e dagli Stati Uniti. Si tirano le fila nelle conclusioni seguite da alcune appendici con documenti di riferimento. L’ultima parola a Michael Löwy che, riferendosi al lavoro di Joel Kovel, così ci descrive il capitalismo:

Un sistema fondato sulla predominanza del valore di scambio sul valore d’uso, del quantitativo sul qualitativo, e che può esistere solo nella forma di un processo di accumulazione del capitale espansivo, incessante e autoriproduttivo. Un sistema dove tutto, compreso se stessi diventa merce, un sistema che impone a tutti un insieme potente e uniforme di vincoli: la redditività a breve termine, la competitività, la crescita a tutti i costi, l’espansione e il consumo. (p. 112).

Michael Löwy, Ecosocialismo. Una alternativa radicale alla catastrofe capitalista, ombre corte, Verona 2021, pp. 156, € 14.00

Gilberto Pierazzuoli

 

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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