Pianificazione Cyborg

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Per una Critica del Capitalismo Digitale

È un modo per la classe hacker di pensare e agire come classe, producendo non solo conoscenza collaborativa ma anche prototipi sperimentali di un altro modo di vivere
Mckenzie Wark

Rovesciare il paradigma che contiene l’opposizione natura-cultura, per il quale la cultura, il fatto tecnico, l’artificiale si contrappongono al naturale che sarebbe preesistente. Provare a pensare l’opposto. Ecco una cosmologia amerindia. All’inizio non c’era niente, ma le persone esistevano già, non c’era nulla del mondo, solo umani. Questa specie degli inizi era morfologicamente duttile. Una duttilità caosmica aperta appunto a un certo disordine (antropofagia, incesto). Poi alcune persone si trasformano, prendono un’altra forma rimanendo però persone. E le forme sono quelle di altre specie biologiche, di fiumi, monti ed altri elementi geografici; di pioggia, vento ed altri fenomeni metereologici; e pietre e corpi celesti, stelle e meteore. La parte che rimane del popolo delle origini, di quelle persone che non hanno cambiato forma, è l’umanità quale la conosciamo, quella storica e quella contemporanea. Lo sviluppo dell’universo fu un processo di diversificazione tale però che gli indio attuali sono coloro che sfuggirono alle trasformazioni. Miti simili sono presenti anche fuori delle Americhe: “in quel tempo non c’erano alberi, torrenti, animali o cibo”. Il mondo era completamente ricoperto di persone. Dopo, un uomo (autorevole, un big man) decise di trasformare alcune persone in specie differenti e in fenomeni naturali. Quelli rimasti, sono i nostri antenati (Nuova Guinea). Si tratta dunque, all’origine, di un’umanità senza mondo o di un mondo dalla forma umana. Un’umanità che è dunque anche sostanza del mondo, sua attanza. È il contrario del Giardino dell’Eden. In questi miti gli esseri umani arrivano prima e da loro si genera il resto della creazione. «È la Natura che nasce o si “separa” dalla Cultura e non il contrario» (Danowski e de Castro p. 148). Esiste dunque un’arcaica latenza umanoide in ogni cosa del mondo. Ogni oggetto è anche un altro soggetto. In questo mondo il concetto di impronta ecologica (mangiare presuppone, ad esempio, la distruzione di altre forme di vita) è certamente più palese. L’antropomorfismo di queste popolazioni si pone all’opposto dell’antropocentrismo del pensiero occidentale. Qui il concetto di crescere o quello di progredire non hanno alcun senso, al massimo verrà loro in mente di conservare lo stato di fatto del mondo, di conservare il mondo. È qui che prende senso l’affermazione: “Vivir bien, no mejor”.

«[…] le ecofemministe hanno insistito più di qualunque altro su una versione del mondo come soggetto attivo, non come risorsa di cui tracciare una mappa e appropriarsi secondo progetti borghesi, marxisti o maschilisti. Riconoscere che il mondo è capace di agire sulla conoscenza apre alcune inquietanti possibilità, come il fatto che il mondo abbia un suo indipendente senso dell’umorismo, che non fa comodo agli umanisti e ad altri che considerano il mondo una risorsa» (Haraway, p.125).

Un umorismo che sconcerta anche l’antropologo più navigato che non riesce a identificare, collocare, la figura del Trickster (figura topica di Haraway), personaggio dei racconti di più popoli, ma in particolare degli indigeni nord americani che ha funzioni demiurgiche, ma che le espleta mettendo in atto burle e scherzi, non disdegnando atteggiamenti grotteschi e osceni e infrangendo tutte le regole. Quando il ricercatore (maschio bianco) chiede spiegazioni, la risposta è quella giustamente più ovvia: il creatore è così perché, altrimenti, non si spiegherebbe la configurazione – anch’essa folle, di questo mondo. «È il riso suscitato dal Coyote fabulatore dei Wichita [Il trickster si presenta spesso sotto le spoglie di un coiote o di un corvo] […] suscitato dalla provvida stoltezza di Kutq, che ha fatto sì il mondo, dicono gli Itelmen, ma ha dimenticato che avrebbe anche potuto farlo un po’ meglio di com’è!» (Miceli, p.142). Colpa dunque di un demiurgo incapace, distratto e fannullone. Da noi la colpa per le imperfezioni e le brutture del mondo è tutta insita nella specie, nel debito infinito che dobbiamo al creatore dopo la caduta secondo una storia diventata vincente e alla quale il capitale si è così affezionato che moltiplica i debiti e ci scommette sopra, spargendo sensi di colpa e assoggettamento per ogni dove. Da noi, maschi bianchi, la colpa è della donna, Eva o Pandora che sia, con l’attenuante, per quest’ultima, del contributo della goffaggine di un semidio, il Titano Epimeteo che, con suo fratello, svolgono la funzione demiurgica che nelle culture amerindie è svolta invece dal trickster stesso.

Il trickster non è soltanto uno spiritello dispettoso, o il buffone divino come dicono Jung e Kerényi, ma ha anche funzioni demiurgiche. Questo sposta l’attenzione anche su altri aspetti. Nella tradizione occidentale c’è il dio Loki che assomma le stesse funzioni del trickster, d’altronde alla tradizione norrena si riferisce anche Mauss del “Saggio sul dono” per situazioni perfettamente comparabili con quelle amerindie (ad esempio il potlach). In quella greca ci sarebbe la figura di Epimeteo, in quella giudaico-cristiana non sembrerebbe essercene nessuna se non assegnassimo il ruolo al demone tentatore del paradiso terrestre. Quello che emerge allora, a proposito del rapporto con la tecnica, è che c’è uno scollamento tra il prometeismo e l’epimeteismo, uno sdoppiamento legato proprio alla tecnica e a una visione dell’ambiente mondo diversa, per la quale un’ontologia orientata agli oggetti è conseguenziale nel pensiero amerindio e paradossale in quello “occidentale”. Fino a qui è abbastanza facile e già da questo punto si possono trarre conseguenzialità non banali. Proviamo però a riportare su questo piano il demone tentatore. Il rapporto degli umani con l’ambiente mondo è, all’interno del paradiso terrestre, più che aperto (Heidegger), è una full immersion ma a bassa agenzialità. Luogo dove però hanno un rapporto pre-dominante sulla natura: sono loro infatti a cui spetta il compito di dare un nome alle altre creature. Ma è soltanto dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza che gli umani pervengono al pieno possesso della loro agency. Questo comporta però il fatto per il quale la condizione umana sia quella che è: il frutto della creazione di un demiurgo impazzito o di quel lato oscuro e demonico che segna la sua origine.

Il tempo nel paradiso delle origini non scorreva, la dimensione divina del tempo non esiste: è una perenne esistenza del sempre stato, è il piano dell’eternità. L’Eden non ha storia, come non ha storia lo stare degli dei. Non c’è nemmeno ripetizione dell’uguale, anzi il concetto stesso di ripetizione presuppone il tempo. Fonda il tempo. La punizione di Prometeo da parte di Zeus non rende Prometeo mortale, ma lo confina fuori dalla dimensione dell’eternità senza tempo, trasportandolo nella successione temporale della ripetizione del supplizio. Il tempo si istalla nella divisione periodica del giorno e della notte che perpetua la condanna di Prometeo ma anche quella degli uomini. La condizione umana è la condizione che li obbliga a lavorare, a usare la tecnica per vivere. Li costringe all’uso, a esprimere la facoltà di sottomettere all’uso le cose. In altre cosmologie non si tratta infatti di uso ma di collaborazione. Gli umani di altre cosmologie collaborano, con-laborano con le cose.

Il cambio di paradigma significa allora abbandonare il pensiero polare, le opposizione binarie. È questo infatti il compito del trickster: «giusto e sbagliato, sacro e profano, pulito e sporco, maschio e femmina, giovane e vecchio, vivente e morto, e ogni volta il trickster varcherà la linea e confonderà le distinzioni. Egli incorpora dunque l’ambiguità e l’ambivalenza, la doppiezza e la duplicità» (Hyde , p. 7). Fa dunque un gesto di unione, di commistione, di relazione, anche di ingarbugliamento (ricordate l’entanglement?).

Il conflitto Prometeo Epimeteo, dove l’umanità non è soltanto prometeicamente un soggetto che si interfaccia con il mondo attraverso la tecnica, è anche il frutto irrazionale di un demiurgo dispettoso, che ci restituisce un soggetto ontologicamente indefinito in quanto frutto di correlazioni che tentano di dare spazio a pulsioni e appetiti smisurati, fuori misura, incompatibili con la misurazione.

La conoscenza frutto dell’albero edenico è allora il dispositivo che ti fa atterrare, che ti toglie il suolo celeste da sotto i piedi promettendoti un ritorno che trascende la condizione umana.

In questa visione complessiva si può allora immaginare che le popolazioni amerindie abbiano un rapporto con lo strumento tecnico tale che l’affermazione heideggeriana che abitare sarebbe costruire, si riveli falsa, oppure che rimanga vera dando però un significato molto diverso al termine “costruire”. Significato che darebbe allora anche senso allo slogan di Haraway: making kin“.

È in quest’ultima costruzione che appaiono i soggetti umani e non-umani che tessono relazioni collaborative, che cambiano il loro mondo (lo Umwelten di von Uexküll). L’antropos facitore di mondo non è il soggetto che manipola il mondo, ma soltanto uno degli attanti, una figura che alleandosi in modo collaborativo con gli altri, forma concrezioni di senso, popola il mondo di cose. È in questo ambito che il fare dà senso alla frase di Rovini: “Non c’è più tempo per conquistare il potere, il potere lo acquisteremo facendo”. Per Rovini, il fare – in quell’articolo – lo intende come fare pianificazione, fare organizzazione, tanto che, sicuramente, gli piacerebbe la tectologia di Bogdanov.

L’oggetto tecnico prometeico non è una protesi, ma qualcosa di esterno e lo è ancor più oggi dove l’oggetto tecnico incarna l’innovazione, fintanto ci si mostri come una sfasatura del senso, uno strumento “avanzato”, che viene dall’avanti con un suo esotismo che crea una sospensione e un certo iniziale riguardo, che tiene le distanze. È l’interfaccia che si frappone tra il soggetto e le cose, ma non per farle inter-agire ma per impedire che si fondano, che si imparentino, che avvenga quel contatto profondo che le unisce in una potenziale nuova performance. Il gesto prometeico spartisce e isola le cose, non crea unioni, dividua i soggetti così come gli oggetti.

Per Heidegger, la nostra relazione principale con gli oggetti non viene dalla loro percezione, ma neppure nel teorizzare su di essi, ma semplicemente nel farci affidamento in vista di uno scopo. Ma così non si esaurisce la nostra capacità di presa sugli oggetti, essi continuano a sfuggirci. Sia la visione, sia l’uso li distorcono. Ma non è un vizio soltanto umano, anche le cavallette non esperiscono la piena realtà del granturco, «i virus delle cellule, le rocce delle finestre, né i pianeti con le lune» (Harman, p. 17). La semplice relazionalità le distorce.

L’oggetto tecnico interfacciato con l’umano vive la dimensione dell’uso. «Nell’uso, il soggetto sospende, ossia “mette tra parentesi” la struttura e la connotazione epistemica di ciascun oggetto; l’oggetto diviene così un mezzo o, meglio, un “mezzo per”, pragmaticamente connotato dal proprio utilizzo concreto» (Kulesko in riferimento a Heidegger di Essere e Tempo). Dove l’interfaccia si liquefa o si interrompe, l’umano perde la presa restituendo all’oggetto la sua cosalità. Ma non è che questa sottrazione, quella dell’oggetto fuori dall’uso, lo releghi a una distanza, dalla quale possiamo avere coscienza soltanto superficialmente, è il contrario. «La forma discreta e autonoma risiede solo negli abissi, mentre il dramma della potenza e dell’interazione fluttua lungo la superficie» (Harman, p. 19). Adesso, senza entrare in un ragionamento che tenti di restituirci una qualche “sostanza” delle cose, che trovi un tratto comune con la cosa della relazione e quella che fuori di essa ci sfugge, c’è uno spiraglio tra i due stati, una dimensione particolare che riguardo l’oggetto rotto.

«Quando ci si accorge della non-utilizzabilità, l’utilizzabile assume il mondo dell’importunità: quanto più urgente è il bisogno di ciò che manca, quanto più esso è effettivamente sentito nella sua non-utilizzabilità, tanto più importuno diventa l’utilizzabile» (Kulesko) «[…]. Il non utilizzabile può venire incontro non solo nell’esperienza dell’inidoneità o del puro e semplice mancare, ma anche come non utilizzabile che non manca e non è idoneo, ma che […] è “fra i piedi” come un ostacolo» (Heidegger, p. 100).

L’inutilizzabile, l’oggetto rotto che “sta tra i piedi” richiama qui l’Odradek di un racconto di Kafka.

Odradek è un giocattolo auto costruito. Occorre un rocchetto di filo per cucire, poi un cartoncino con il quale ritagliare due cerchi del diametro leggermente più grande del diametro esterno del rocchetto. Ad uno di questi tondi di cartone facciamo delle incisioni per ottenere qualcosa che è al limite tra una stella a molte punte ed un ingranaggio. A questo punto prendiamo un elastico poco più lungo della lunghezza del rocchetto. Lo infiliamo nel rocchetto da parte a parte. Al centro dei due tondi di cartone facciamo dei piccoli fori che permettano di farci passare l’elastico. Appoggiamo uno dei due tondi sul lato del rocchetto, facendo passare l’elastico nel foro appena fatto. Con l’aiuto di un pezzo di stuzzicadenti e un pezzo di nastro adesivo fermiamo il capo dell’elastico al tondo. Ripetiamo l’operazione con il cartoncino a stella, ma con l’accortezza di lasciare libero lo stuzzicadenti, questa volta poi, lasciato intero e leggermente disassato, per permettere ad uno dei suoi lati di sporgere per quasi un centimetro dal diametro della stella. Girando lo stuzzicadenti intero si carica l’elastico che una volta lasciato libero si dipanerà velocemente trascinando in rotazione l’intero rocchetto. Questo era un motore di base che poteva essere utilizzato per muovere varie cose, ad esempio il modellino di un automobile, anch’esso di cartone. Una cosa che può animare oggetti inerti, una cosa che può essa stessa passare dall’inerzia al moto.

Kafka dice che forse in origine la cosa poteva avere avuto una forma razionale, mentre l’aspetto attuale la fa sembrare come un cosa rotta. Ma dentro un’ambiguità, è inerte e animato allo stesso tempo. Kafka parlava di fili di più colori che ancora attaccati al rocchetto lo possono mostrare in un aspetto mimetico evocativo di qualche animalità. Anche il mio di Odradek quello che vedo adesso sul mio tavolino (fig. 1) ha l’apparenza di un rocchetto che rotolando tra le piume di un disordine probabile sulla toilette di una signora, ne rechi ancora alcune intrappolate nei suoi ingranaggi. Perché proprio con alcune piume di uccello di quelle che si usano per decorare i cappelli, ho deciso di terminare il suo abbigliamento. Odradek è certamente animato, addirittura vivace, non per questo mortale. Odradek lo incontri, ci inciampi spesso. Provi anche ad interloquirci, sembra che rida, con una risata, con quella risata senza polmoni che «suona press’a poco come un fruscio di foglie cadute» (Kafka, ivi). Animato ma non mortale, senza soffio vitale, senza polmoni, animato ma muto di parole e non mortale tanto da lasciarci l’angoscia o il «quasi dolore» che poi ci sopravviva, a Kafka ed a noi. Odradek ha qui due esistenze, quella dell’oggetto rotto e quella perturbante della soglia tra soggetto e oggetto, tra vivente e inerte. Il perturbante, lo spaesamento è, sia per Freud che per (in parte) Heidegger, l’incontro con qualche cosa di familiare che non si rivela tale.

Seguendo Heidegger, la dimensione dell’Odradek oscillerebbe tra quella dell’oggetto tecnico che prende forma e concretezza a partire dalla sua usabilità, dal suo essere “mezzo per”; sino a quella dell’oggetto che è soltanto presente e inconoscibile dal punto di vista pratico. Lo strumento rotto inadeguato e “impertinente”. «Nell’uso, il soggetto sospende, ossia “mette tra parentesi”, la struttura e la connotazione epistemica di ciascun oggetto; l’oggetto diviene così un mezzo o, meglio, un “mezzo per”, pragmaticamente connotato dal proprio utilizzo concreto» (Kulesko, ivi).

Il nucleo oscuro dell’oggetto tecnico appare sotto nuova luce dal momento in cui esso diviene sorgente di “agency” (agentività), ossia a sua volta soggetto agente o quasi-agente, trapelando dalle maglie della rappresentazione e dell’utilizzabilità umane.

L’oggetto non giace inerte, nel guasto, nell’inadeguatezza, dimostra la propria impertinenza, una interruzione del meccanismo, un’agency reattiva.

Tale manifestazione interruttiva è stata definita dalla teorica americana Jane Bennett “Thing-Power” (“potere-della- cosalità”): un atto performativo nel quale «gli oggetti appaiono più vividamente in quanto cose», ossia al di là della correlazione soggetto-oggetto, «sarebbe a dire, in quanto enti non interamente riducibili al contesto in cui i soggetti (umani) li hanno relegati» (Bennett 2004, 351, citato da Kulesko, ivi)

L’agency degli oggetti è tutta insita nella rottura dell’asservimento macchinico del mezzo tecnico. È il flusso macchinico che si interrompe. È la macchina di Turing che si arresta. È l’impertinenza dello strumento guasto. È un glitch nella routine algoritmica. È l’oggetto rotto che perdendo la sua destinazione d’uso si apre a una nuova possibilità, a una interazione libera, alla possibilità di giocarci. È lo stesso giocattolo rotto che si dà liberamente all’interazione ludica, meglio del giocattolo merce. È la possibilità di fare “come se” che è alla base del gioco. È qualcosa di ontologicamente più potente e più inquietante: il perturbamento provocato dalla bambola rotta, l’ospedale delle bambole come luogo weird e eerie. Gli occhi delle bambole come oggetti perturbanti. È tutto questo ma, allo stesso tempo, una possibile apertura verso un soggetto plurale.

L’internet delle cose, IoT (Internet of Things), quello che mette in rete gli oggetti smart, quegli oggetti che tramite sensori e attuatori acquistano un’intelligenza, dà anch’esso un’agenzialità alle cose, così come intelligente (sapiens) è l’antropos. Ma non è un rapporto paritario, non si tratta di una operazione OOO (Object-oriented ontology), quella serie di ragionamenti che cercano di scalsare la posizione antropocentrica per la quale si immaginano gli oggetti disposti fianco a fianco senza nessuna connessione diretta, in attesa di una reificazione da parte dell’umano. È proprio il suo contrario, l’oggetto smart – pur avendo una sua agenzialità, un suo ambiente determinato dai suoi sensori e attuatori – si reifica nell’interazione non a partire da una sua qualità, ma di nuovo attraverso il filtro degli umani che – in questa fase del processo di produzione del valore – ne stabiliscono il comportamento in vista di una finalità tutta determinata da quello scopo. Questo non inficia però la possibilità di poter pensare a forme di pianificazione che tengano conto dell’interrelazione armonica di tutti i soggetti umani e non umani, viventi e non viventi. Una rete P2P (peer to peer), una rete di condivisione di informazioni, contenuti, ma anche di potenza computazionale. Una rete che sconvolge il modello centralizzato del Cloud. Milioni di computer degli utenti in parallelo che prestano la loro capacità di elaborazione per progetti condivisi. Configurazioni simili a quelle cosiddette di cluster computing o di grid computing  che adesso sono in mano a soggetti privati, sono state invece usate per fornire potenza computazionale per progetti nei quali delle forme di simulazione avevano bisogno di potenze possibili soltanto con i super computer i quali, peraltro, si rifanno allo stesso modello di elaborazione parallela e collaborativa tra macchine più semplici. È qui intuibile ed è facilmente immaginabile,  la differenza della struttura e dell’organizzazione di questo tipo di approccio. È così pensabile non soltanto una rete collaborativa della intelligenza e capacità elaborativa delle macchine, ma anche tutta una serie di interfacce che colleghino tra loro soggetti umani e non umani. Un’internet delle cose che assomiglia a forme di animismo digitale. Una rete non gerarchica né centralizzata con molteplici periferie, con una proliferazione periferica nella quale la distanza dalla presa utilitaria degli umani, restituisca alle cose non tanto la loro essenza – falso problema – ma la loro pertinenza relazionale. Luogo dove valore d’uso e valore di scambio si confondono; dove la pianificazione si fa ecologia socialista. Uno sciame che si fa moltitudine.

L’intelligenza smart che viene implementata negli oggetti non è una “apertura al mondo” heideggeriana, non restituisce una soggettività ma un assoggettamento. La comunicazione con gli umani non è direttamente dialogica. La macchina (in questo caso l’oggetto smart e l’algoritmo che presiede al suo funzionamento), non risponde all’utente umano attraverso la agenzialità ricevuta, ma pescando e facendo emergere le correlazioni probabilistiche che gli umani le hanno fornito, questo anche quando pesca le risposte con la propria intelligenza computazionale proveniente da sessioni di deep learning, mostrando così la propria sottomissione. La macchina restituisce infatti in output quello che gli umani mediamente o probabilisticamente risponderebbero; riproduce cioè la decisione dell’umano medio. Attraverso la macchina gli uomini dell’antropocene capitalista interagiscono con se stessi continuando a esercitare il loro potere coloniale nei confronti del mondo e perpetuando i loro bias cognitivi, razziali e patriarcali. La risposta della macchina non sarà così mai sorprendente, almeno sino a quando la macchina pescherà una correlazione inaudita che l’algoritmo filtrante si è lasciato sfuggire. La macchina è allergica al caso e subordinata alla necessità umana, una necessità che non è poi quella di tutti gli umani ma soltanto di quella dei padroni della macchina.

La macchina è stupida perché è una macchina capitalista. Qui uno dei bias più potenti è quello antropocentrico che si immagina di poter dialogare con il frigorifero. Una forma di interrelazione cioè, che presuppone che ogni dialogo somigli a quello che gli umani intrattengono tra di loro. Non è un antropomorfismo che dà dignità umana al frigorifero o alla terra del giardino equipaggiata da un igrometro che comunica la mancanza di acqua, quella è “la voce del padrone”, è soltanto il trionfalismo umano che si autocelebra, non ascolta la terra, ma “la misura” a sua immagine, celebrando così soltanto l’asservimento di quella stessa terra.

Continua…

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  • Lewis Hyde, Trickster Makes This World: Mischief, Myth, and Art, Ed. Farrar Straus & Giroux 2010
  • Danowski Déborah– Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle Paure della fine, Nottetempo, Milano 2017
  • Haraway, Manifesto cyborg. Donne. Tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano 1995-2018.
  • Silvana Miceli, Il demiurgo trasgressivo. Studio sul trickster, Sellerio, Palermo 1984.
  • Jane Bennett, The force of things. Steps toward an ecology of matter. Political Theory, Vol. 32, No. 3, June 2004
  • Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976
  • Graham Harman, Sulla causazione vicaria, in a cura di: Vincenzo Cuomo e FedericoSchirò, Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology, Kaiak, Napoli 2021

Gilberto Pierazzuoli

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Ci sono Storie che si evolvono o involvono a una velocità tale che nessun libro riuscirà a fotografare, a darne cioè una versione che possa essere attuale. C’è per esempio la pandemia virale da Covid 19, con i suoi risvolti sociali, politici e antropologici che Zizek cerca di interpretare con uno strumento insolito: l’ebook in “divenire”. Il capitalismo digitale – quello che ha a che fare con universo contemporaneo dove tecnoscienza, Intelligenza Artificiale (AI) e amministrazione governamentale della vita si intrecciano – ha una velocità di trasformazione non così alta ma certamente più alta dei tempi editoriali di un libro cartaceo. Cogliamo così l’occasione di pubblicare anche noi un ebook in divenire che riprende gli articoli che sull’argomento sono stati pubblicati e che continueranno a essere pubblicati su “La città Invisibile” e in particolare la serie a puntate di “Per una Critica del Capitalismo Digitale”. Il libro non è terminato, anche per questo è in divenire, perché non è possibile mettere la parola fine a narrazioni che sono in corso. Verrà perciò aggiornato costantemente permettendogli così di essere in qualche modo dentro l’attualità. Ogni articolo ha una sua indipendenza e lo si potrà leggere anche senza aver letto il resto, così come ha anche una sua coerenza d’insieme, tale da poterlo leggere dalla prima all’ultima parte senza percepire nessuna frammentazione. Almeno questo è l’intento. 

Per una Critica del Capitalismo Digitale – Parte XXXVI

Qui la I parte, Qui la II, Qui la III, Qui la IV, Qui la V, Qui la VI, Qui la VIIQui la VIIIQui la IXQui la XQui la XIQui la XIIQui la XIIIQui la XIVQui la XVIntermezzoQui la XVIQui la XVII Qui la XVIIIQui la XIXQui la XXQui la XXIQui la XXII, Qui la parte XXIIIQui la XXIVQui la XXV , Qui la XXVIQui la XXVIIQui la XXVIIIQui la parte XXIX Qui la parte XXXQui la parte XXXI,  Qui la parte XXXIIQui la parte XXXIII,  Qui la parte XXXIV , Qui la parte XXXV

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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