Per una analisi critica del Jobs Act (prima parte)

Il complesso normativo detto Jobs Act è anche formalmente di lettura faticosa, talvolta penosa, a causa dei molti maxi articoli che coesistono con numerosi rinvii a testi normativi precedenti: un dispendio di Gazzette Ufficiali che non arrivano neppure a formulare un testo unico di diritto del lavoro. Nel merito, esso porta a conclusione il piano contro riformatore, nemico del lavoro democratico su quasi tutti gli aspetti del rapporto; mi limiterò quindi all’esame delle questioni che mi paiono più rilevanti. Precisamente, la qualità e la durata del contratto a forma “comune”, la quantità e qualità dei contratti a forma diversa da quella “comune”, la quantità della retribuzione.

Il contratto “comune” a tempo indeterminato

L’intento dichiarato sarebbe quello di introdurre come contratto di lavoro normalmente in uso quello a tempo indeterminato a “tutele crescenti”. In realtà, questa legge porta a compimento l’opera di distruzione iniziata con legge 28.6.2012 n. 92 (c.d. riforma Fornero) che pone come asse portante della costruzione il mercato e svuota di diritti il lavoro.

Lo strumento è l’indebolimento, prima, l’annullamento, ora, per i nuovi assunti e progressivamente per tutti, della tutela dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, con la conseguenza di facilitare il ricorso impunito a licenziamenti individuali ingiustificati e arbitrari perché privi di giusta causa o giustificato motivo.

download (1)La privazione della tutela reale consistente nella reintegrazione giudiziale nel posto di lavoro è sostituita dal solo obbligo di corresponsione di una esigua mercede: da 4 a 24 mensilità commisurate alla anzianità di servizio; minimi e massimi sono fissi e prescindono dall’entità del danno subito dal lavoratore in seguito al recesso padronale.

La legge rende possibile il licenziamento per motivi inesistenti o futili poiché impedisce l’indagine giudiziaria sulla proporzionalità fra comportamento sanzionato ed entità della sanzione massima, cioè il licenziamento disciplinare.

I soli casi di reintegrazione riguardano i licenziamenti orali, discriminatori, nulli per i quali risulta evidente la difficoltà di fornire prova certa in giudizio. Non è difficile prevedere l’uso dello strumento espulsivo nei confronti di lavoratori ritenuti poco produttivi perché malati, infortunati (magari per nocività ambientale), assenti per motivi di cura famigliare, attivi sindacalmente.

La riflessione che si faceva a proposito della controriforma Fornero – rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato – viene superata dalla novella renziana che provvede a togliere ogni tentazione di audacia eliminando del tutto i diritti.

Infatti, è consentito il demansionamento unilaterale del dipendente (prima fulminato di nullità dall’art. 13 Statuto dei Lavoratori) per generici motivi di riorganizzazione addotti dall’imprenditore, con grave incidenza negativa sulla professionalità e sulla dignità stessa della prestazione.

E’ la futilità del pretesto unilaterale oggi consentito che inquieta, poiché casi seri come la sopravvenuta inidoneità al lavoro, la gravidanza e il puerperio già prevedevano la possibilità di consensuale assegnazione di mansioni inferiori in alternativa al licenziamento. L’inquietudine trae origine dalla violazione palese dell’art. 35 della Costituzione là dove prevede l’obbligo di formazione e di elevazione professionale del lavoratore.

Altro motivo di deterioramento qualitativo è l’introduzione della video sorveglianza tramite dispositivi elettronici che sottopongono il lavoratore a monitoraggio costante durante la prestazione lavorativa e anche oltre, in tal modo annullando la norma di civiltà espressa nel divieto dell’art. 4 Statuto dei Lavoratori. (continua)

*Maria Grazia Campari, avvocata esperta in diritto del lavoro