Il quotidiano trattamento da “dannati della terra” riservato a bambini, donne e uomini in fuga da disastri sociali e ambientali, rende manifesta la strategia securitaria cui in Italia è stata ridotta la politica dell’accoglienza.
Una civile e lungimirante politica dell’accoglienza non può relegare i profughi dello sviluppo nelle inqualificabili macrostrutture: CIE (Centri di Identificazione e di Espulsione) o CPA (Centri di Prima Accoglienza). Il “popolo nuovo” ha invece bisogno di case e diritti, lavoro, uguaglianza e cittadinanza. Di ospitalità diffusa e capillare, come già messa in pratica in alcune, isolate, realtà peninsulari.
A fuggiaschi, clandestini per legge e rifugiati politici devono essere destinati alloggi dignitosi nel cuore delle città e dei centri minori. Non ricoveri provvisori nelle estreme periferie, non ghetti, non soluzioni securitarie.
Nelle città italiane abbondano edifici vuoti, privati ma più spesso pubblici, non raramente di valore monumentale, in attesa di essere venduti a faccendieri e multinazionali. Edifici che in tal modo, da bene comune, diventano oggetto di speculazione immobiliare e la cui trasformazione, il più delle volte in residenze e alberghi di lusso, contribuisce a desertificare le città e i centri storici. Città che mancano invece di luoghi di socialità, di aggregazione e di cura e che necessitano di essere ripopolati.
Per attrarre nuovi abitanti, in una nazione dal tasso di natalità assai basso, la città può rispolverare le virtù civiche dell’accoglienza attingendo a una plurisecolare tradizione ospitale. Una hospitalitas rivolta ai bisognosi di ogni provenienza e fede.
Molti edifici pubblici (alcuni nati proprio in funzione dell’accoglienza) si trovano ora in stato di abbandono e potrebbero essere riabilitati allo scopo. Caserme, ospedali, ex conventi, scuole etc., costituiscono un imponente «vuoto pubblico nazionale». Cui si aggiunge il patrimonio edilizio privato, per il quale non va sottovalutata la possibilità, specie da parte dei Comuni, di formulare protocolli speciali con i proprietari disponibili; laddove invece la proprietà è rappresentata da persone non fisiche – spesso immobiliari a scopo di lucro – che tengono fuori dal mercato sociale milioni di appartamenti, vanno ricercati gli idonei strumenti coercitivi: dalla tassazione progressiva sul vuoto inutilizzato fino alla requisizione per pubblica utilità.
Su questo monumento allo spreco sociale, economico e ambientale, gli enti potrebbero far leva per trasformare l’accoglienza in una delle componenti fondamentali delle azioni, non solo abitative, ma anche di rinascita di qualità civile e ambientale delle città.
La presenza di nuova popolazione può infatti favorire la ricostituzione del tessuto socio-culturale urbano e rurale, oggi slabbrato. Di più, i migranti possono essere gli attori principali di nuove occasioni lavorative, nella cura e nel recupero degli ambienti di vita, soprattutto nei centri abbandonati che, come già avviene in alcuni contesti meridionali, vivono una nuova stagione di sostenibilità sociale legata all’agrorurale e al turismo socioculturale.
A tale riguardo, sarebbe auspicabile affidare ai migranti interessati ruoli più “strutturali” per rivitalizzare attività utili all’economia locale, specie nelle aree interne e abbandonate dell’arco alpino e dell’«osso appenninico», che costituiscono la parte preponderante del territorio italiano. Queste aree, che il dramma dei terremoti nell’Appennino dell’Italia centrale ha evidenziato nella loro struttura di un fittissimo reticolo insediativo di piccole città, borghi, frazioni, e che costituisce un patrimonio estesissimo e unico in Europa, possono diventare, con l’aiuto dei migranti, i luoghi di una nuova civilizzazione collinare e montana, di un ripopolamento urbano e rurale agro-ecologico in grado di curare le urbanizzazioni malate delle aree metropolitane di pianura.
Iniziative di livello e responsabilità pubblica municipale, di lungo termine, conformi ai tempi della pianificazione e non a quelli dell’emergenza, potrebbero esaltare la vocazione delle città, dei piccoli centri, dei borghi e delle loro campagne come luoghi in cui si intrecciano storie e nascono nuove identità perché esse sono plurimondi di vita. Luoghi dello stare insieme, della convivenza, della solidarietà. Luoghi da cui ripartire per costruire un tessuto sociale in cui si riconoscano e crescano le generazioni future.
*Officina dei Saperi, perUnaltracittà-Laboratorio politico Firenze, Società dei Territorialisti/e
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