Nella rubrica “Kill Billy” di questa rivista ho recensito dieci testi di recente pubblicazione con i quali è possibile fare il punto sulla riflessione che il pensiero critico ha prodotto a partire da competenze oggettivamente pluridisciplinari. A questo livello, le recensioni sono anche forme di rielaborazione e uso di quei testi. Non poteva perciò mancare un tentativo di sintesi del percorso fatto.
Il sistema capitalistico è un sistema mercantile che si basa sulla capacità del denaro di produrre profitto. La sua nascita non coincide con la rivoluzione industriale come saremmo tentati di pensare, ma dallo spirito coloniale sotteso alle esplorazioni e alle “conquiste” territoriali a partire dai viaggi di Colombo verso le Americhe che inaugurano un nuovo modo di organizzare i rapporti tra gli umani e il resto della natura, portando a compimento il chiamarsi fuori degli umani dalla natura che caratterizza il modo occidentale di rapportarsi con essa; forse a partire dalle prime forme di logos per le quali l’interpretazione del frammento eracliteo che dice «la natura ama nascondersi» si trasforma immediatamente in un esercizio di svelamento dei segreti della natura. Il capitalismo è uno dei punti di arrivo di questo pensiero. Il rapporto con il mondo è allora un’appropriazione. Prima le colonie, poi la recinzione (enclosure) di quelli che erano i campi comuni, forme di appropriazione che marcano il rapporto che il capitale esplicita nei confronti della natura, del mondo, della natura-mondo. La connessione tra lavoro e natura è dunque tutta insita nel sistema di produzione capitalista.
Il capitale è sempre stato globale, ne sanno qualcosa gli schiavi e gli indigeni e tutti coloro che hanno subito espropriazioni. È appunto il modello delle enclosure che produce l’esercito di mano d’opera di riserva, ma rinnova anche l’accumulazione originaria, «hanno incorporato il suolo al capitale» dice Marx (Il Capitale, libro I, cap. XXIV). Ma ogni forma di accumulazione è originaria, starter di una ripartenza, di un nuovo ciclo di appropriazione e sfruttamento. Si tratta di recinzioni ed espulsioni, divisioni e inquisizioni che hanno in comune la capacità di disarticolare il corpo sociale e di produrre differenze e diseguaglianze utili al sistema. «L’accumulazione originaria non è stata quindi semplicemente un’accumulazione e concentrazione di forza-lavoro e capitale. È stata anche un’accumulazione di differenze e di divisioni nella classe lavoratrice, così che gerarchie basate sul genere, come anche sulla “razza” e l’età, sono diventate un elemento costitutivo del dominio di classe e della formazione del proletariato moderno», dice Silvia Federici (Federici 2015 – 85). Si tratta dunque anche di uno spostamento dell’asse principale intorno al quale si esprime la lotta di classe, e cioè dal sistema di produzione in generale a quello della riproduzione della forza lavoro. Elemento questo che è uno dei meriti più fruttuosi del movimento femminista internazionale; perché è qui che si produce vita e resistenza alla sua espropriazione. Tutto questo senza perdere di vista i meccanismi dell’accumulazione, indispensabile al capitale che ha l’obbligo di ripetersi in tutte le forme possibili, pena l’implosione del sistema. (Non a caso la prima critica alla interpretazione marxiana dell’accumulazione capitalista è stata sollevata da una donna: Rosa Luxemburg).
Ad ogni crisi economica, infatti, il capitale deve mettere in atto un nuovo processo di accumulazione, cioè un processo di colonizzazione e espropriazione che è facile poter individuare all’interno dello svolgersi storico di questo sistema di produzione. Il conflitto di classe si deve dunque esprimere sul piano del lavoro salariato (la produzione in senso stretto), ma anche su quello della riproduzione del capitale, come accumulazione originaria, e quello della riproduzione della forza lavoro perché non possiamo considerare la vita sociale interpretata da un soggetto astratto, universale e asessuato che non risente delle differenze e delle gerarchie insite nella divisione del lavoro, con un discrimine da non poter più sottacere che è quello tra il lavoro salariato e quello non salariato. Non si può cioè ignorare «che nella società capitalista la riproduzione della vita quotidiana sia stata sussunta alla riproduzione della forza lavoro e costruita come lavoro “femminile” non retribuito» (Federici 2018 – 159). Elemento questo rivendicato dai movimenti delle donne sin dagli inizi degli anni ’70 del secolo scorso e che ci permette di poter mettere in campo un concetto quale quello di “patriarcato del salario” che non rispecchia semplicemente una rivendicazione di genere, ma che esprime una ennesima contraddizione del capitale.
Se poi arriviamo ai modi di produzione post industriale (post Fordismo) l’elemento riproduttivo della forza-lavoro non viene semplicemente trascurato, ma con un gioco di prestigio, si trasforma in quella parte del lavoro di riproduzione che corrisponde alla formazione della mano d’opera e quindi in capitale fisso. Fenomeno questo evidenziato dalla natura sempre più cognitiva del lavoro stesso; tutto questo non facendo nessun investimento, ma delegandolo al lavoratore. Così il tempo della riproduzione, tempo non pagato, lavoro occulto, in realtà contribuisce – e sempre di più – alla produzione. Il tempo passato in fabbrica non è ormai più di una frazione del tempo realmente dedicato al lavoro, sino al momento in cui è la condizione esistenziale in toto ad essere completamente sussunta all’interno del lavoro, quasi annullando la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro.
Si è parlato, a questo proposito, di lavoro cognitivo, ma anche di un nuovo paradigma dell’accumulazione che trasporta la vita intera dentro le dinamiche di valorizzazione del capitale. Se a questo aggiungiamo lo smantellamento del welfare in atto in tutta Europa si percepisce come i limiti dello sviluppo siano percepiti meglio dal capitale stesso (che è un dispositivo automatico alla ricerca del profitto) nel momento in cui, quasi a raschiare il fondo del barile, si avventa in modo compulsivo su ogni scampolo di bene comune e su ogni risorsa da poter espropriare. Siamo di fronte a forme di sfruttamento che riguardano non soltanto il tempo di lavoro, ma anche il tempo di vita, là dove anche la produzione si fa più immateriale, produzione ormai fortemente dipendente dalla messa al lavoro dei caratteri relazionali e mentali di quegli umani che costituiscono la forza lavoro e contribuiscono in modo impersonale al general intellect.
General intellect: concetto marxiano estrapolato dai “Grundrisse”, che ha anche una corrispondenza in Frege: «col termine pensiero intendo non l’atto soggettivo del pensare, ma il suo contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti» (Frege 1892). Marx la chiama anche “capacità scientifica oggettivata” cogliendone forse soltanto una parte (Marx, Frammento sulle macchine). Il capitale esercita cioè forme di biopotere particolarmente sofisticate. Lo sfruttamento del lavoro, in epoca fordista, si esercitava sui corpi, oggi il lavoro – anche se non tutto – è diventato “cognitivo”, allora subordina e cattura l’intelligenza, il linguaggio, i saperi, ma anche gli affetti, dice Bifo e tutto questo egli lo chiama l’anima. Oggi il capitale sfrutta financo l’anima.
Ma non si tratta della solita opposizione tra anima e corpo. «Anima è il corpo come intenzione, apertura verso l’altro, incontro, sofferenza e godimento» (Berardi 2016 – 7). L’era del corpo, quella della produzione industriale, era l’era del disciplinamento; della creazione di dispositivi che piegavano il corpo, che si appropriavano di muscoli e braccia. L’era del digitale mette al lavoro l’anima, il flusso semiotico che il tempo di lavoro umano è in grado di emanare. Si è passati dall’alienazione al coinvolgimento.
Nella catastrofe si fa faticosamente strada la visione di un pertugio, di una possibilità. Il general intellect che corrisponderebbe al sapere che, abbiamo detto, viene catturato dal capitale, non fa più riferimento al capitale fisso per divenire di fatto lavoro vivo. Il possibile carattere riordinante del lavoro cognitivo (Leonardi parla di carattere neghentropico – Leonardi 2017) potrebbe essere liberato dalla sua subordinazione al profitto, sostituendo la logica del valore (valore di scambio) con quella della ricchezza (valore d’uso). Un uso che dovrà perciò privilegiare una produzione – realmente sostenibile – di valori in grado di soddisfare bisogni e desideri di tutti e non profitto per pochi. Questo significa anche un orientamento delle lotte non soltanto per il salario ma “oltre il salario”. L’elemento oltre, sarebbe lo spazio che le lotte operaie per il salario e per il controllo della produzione possono aver aperto per ipotizzare e provare a mettere in pratica sistemi e relazioni non impattanti e più egualitarie. Oltre sarebbe oltre lo sfruttamento della natura, oltre ogni tipo di discriminazione di etnia, religione, genere, età e di specie, umana e non umana, biologica o non.
Occorre poi ricordare i tagli allo stato sociale, quelli ai servizi e, in particolare, quelli relativi all’istruzione e alla sanità, che hanno riportato nelle case, di nuovo con un carico di genere, i lavori relativi alla cura dei bambini, degli anziani e dei malati cronici. In questo scenario la risposta non può semplicemente essere figlia del conflitto tra capitale e forza lavoro salariato. La lotta, meglio le lotte si devono articolare perciò su fronti i più variegati comprendendo forme di mutualismo e assistenzialismo che hanno però in comune la ricostruzione dei beni comuni; come se – pur potendo apparire poca cosa – si volesse lasciare un segnale che racconta che un altro mondo è possibile e che da subito possiamo iniziare a costruirlo. E con la ricostruzione dei beni comuni appare, immediato e coinvolgente il riconoscersi, l’appartenenza, la relazione. Una ricomposizione che è di classe oltre la classe (al suo uso semplicistico).
Il lato ecologico dell’economia politica abita, dunque, dentro l’elemento riproduttivo della diade riproduzione/produzione, in quel versante dove la lotta di classe e le lotte per l’ambiente e per i beni comuni si caratterizzano come forme di svelamento dall’operazione di occultamento che il capitale ha fatto mettendo in atto quella che si potrebbe chiamare accumulazione per appropriazione (lavoro domestico, lavoro servile, doni gratuiti dell’ambiente). Ma anche nel semplice concetto che vede la natura come unica entità di produzione, verificando invece che il ciclo delle altre trasformazioni agisce su materie prime a bassa entropia verso scarti ad alta entropia (Leonardi 2017). La connessione, più o meno esplicita, tra lavoro e natura è tutta insita nel sistema di produzione capitalista.
Il conflitto di classe non si può allora esaurire nel campo del salario e sulle condizioni del lavoro, ma deve potersi esprimere sulle finalità della produzione e sul tipo di forma merce messa in cantiere. Forse l’insieme è quello che aveva intuito Benjamin già nel 1940, quando – commentando Fourier – trova nel lavoro degli armoniani, il modello utopico di un’attività liberata. Lavoro che ispirandosi al gioco sarebbe una forma di lavoro non sfruttato e che quindi si svolgerebbe fuori dal rapporto con il capitale. Benjamin così commenta: «un lavoro così ispirato al gioco non è diretto alla produzione di valori, ma al miglioramento della natura […] Una terra ordinata secondo questa immagine cesserebbe di essere parte “di un mondo in cui l’azione non è sorella del sogno”.
L’azione e il sogno vi diverrebbero fratelli» (Benjamin 1986 -7; parzialmente citato da Leonardi 2017 – 66). Nei Passagenwerk, inoltre, Fourier era stato messo in relazione con Bachofen che trovava nella società matriarcale l’archetipo della natura che si manifesta come madre generosa, in opposizione alla visione “feroce” (mörderische) dello sfruttamento della natura dominante a partire dal XIX secolo. Nella visione utopica di Fourier, Benjamin scorgeva la proiezione di un’età smarrita così da vedere come una consonanza ritrovata tra l’antico e il nuovo che dà nuova vita al sogno antichissimo del “paese di Cuccagna”. In un altro passo di Benjamin rintracciabile nel “Baudelaire” (Benjamin 2012 – 565) dice ancora: «L’estrinsecarsi del lavoro nel gioco presuppone forze produttive altamente sviluppate, che solo oggi sono a disposizione dell’umanità, ma che purtroppo vengono impiegate in senso contrario alle loro possibilità, cioè in caso di guerra. Eppure, anche in epoche caratterizzate da forze produttive non sviluppate l’immagine crudele dello sfruttamento della natura non era affatto scontata». Questi brevi brani di Benjamin fanno emergere due aspetti quali la separazione e la polarizzazione dei concetti di gioco e lavoro, caratteristiche del pensiero occidentale e una forma acuta di anti naturalismo che si fa evidente nel sistema di produzione capitalista.
Rovesciare il paradigma che contiene l’opposizione natura-cultura, per il quale la cultura, il fatto tecnico, l’artificiale si contrappongono al naturale che sarebbe preesistente. Provare a pensare l’opposto. Ecco una cosmologia amerindia. All’inizio non c’era niente, ma le persone esistevano già, non c’era nulla del mondo, solo umani. Questa specie degli inizi era morfologicamente duttile. Una duttilità caosmica aperta appunto a un certo disordine (antropofagia, incesto). Poi alcune persone si trasformano, prendono un’altra forma rimanendo però persone. E le forme sono quelle di altre specie biologiche, di fiumi, monti ed altri elementi geografici; di pioggia, vento ed altri fenomeni meteorologici; e pietre e corpi celesti, stelle e meteore.
La parte che rimane del popolo delle origini, di quelle persone che non hanno cambiato forma, è l’umanità quale la conosciamo, quella storica e quella contemporanea. Lo sviluppo dell’universo fu un processo di diversificazione tale però che gli indio attuali sono coloro che sfuggirono alle trasformazioni. Miti simili sono presenti anche fuori delle Americhe: “in quel tempo non c’erano alberi, torrenti, animali o cibo”. Il mondo era completamente ricoperto di persone. Dopo, un uomo (autorevole, un big man) decise di trasformare alcune persone in specie differenti e in fenomeni naturali. Quelli rimasti, sono i nostri antenati (Nuova Guinea). Si tratta dunque, all’origine, di un’umanità senza mondo o di un mondo dalla forma umana. Un’umanità che è dunque anche sostanza del mondo, sua attanza.
È il contrario del Giardino dell’Eden. In questi miti gli esseri umani arrivano prima e da loro si genera il resto della creazione. «È la Natura che nasce o si “separa” dalla Cultura e non il contrario» (Danowski e de Castro p. 148). Esiste dunque un’arcaica latenza umanoide in ogni cosa del mondo. Ogni oggetto è anche un altro soggetto. In questo mondo il concetto di impronta ecologica (mangiare presuppone, ad esempio, la distruzione di altre forme di vita) è certamente più palese. L’antropomorfismo di queste popolazioni si pone all’opposto dell’antropocentrismo del pensiero occidentale. Qui il concetto di crescere o quello di progredire non hanno alcun senso, al massimo verrà loro in mente di conservare lo stato di fatto del mondo, di conservare il mondo. È qui che prende senso l’affermazione: “Vivir bien, no mejor”.
Benjamin W., Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986
Danowski Déborah– Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle Paure della fine, Nottetempo, Milano 2017
Silvia Federici, Calibano e la strega – Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano- Udine 2015
Silvia Federici, Reincantare il mondo – Femminismo e politica dei commons, ombre corte, Verona 2018
Frege Gottlob Senso e significato (1892 (Über Sinn und Bedeutung, Ztschr. f. Philos. u. philos. Kritik, NF 100, 1892), Da “Logica e aritmetica” Scritti raccolti a cura di Corrado Mangione, Boringhieri, Torino 1965)
Emanuele Leonardi, Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita, Orthotes, Napoli Salerno 2017
*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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