Abusi in divisa, dopo San Gimignano l’Italia scopre il reato di tortura. Nonostante i negazionismi

Succede a San Gimignano che quindici agenti di polizia penitenziaria siano indagati per una serie di presunti abusi sui detenuti: oltre che di minacce, lesioni aggravate e falso ideologico, sono accusati anche di tortura, in base alla legge approvata nel 2017. E succede a Monza che il Dap – il Dipartimento di amministrazione penitenziaria – allontani dal servizio a contatto coi carcerati quattro agenti dopo la denuncia di un detenuto che sostiene di essere stato preso a calci e pugni, in attesa che la magistratura decida se e come intervenire (anche qui si potrebbe ipotizzare il reato di tortura).

Sono fatti di cronaca ancora da accertare ma che ci rammentano una verità spesso rimossa: l’attualità della questione-tortura, erroneamente reputata dai più una vicenda del passato, consegnata ai meandri più oscuri della storia. L’abuso sui detenuti, sui fermati, su persone prese in consegna è un pericolo incombente su ogni forza di polizia – anche nei regimi democratici. C’è una storia della “tortura democratica” poco scritta e ancor meno conosciuta che dovremmo invece avere ben presente, perché lo  snodo diritti della persona/condotta delle forze di sicurezza è un aspetto decisivo per la qualità di una democrazia.

Nel nostro paese si parla malvolentieri di questo argomento. E’ diffusa addirittura una postura negazionista, come ben sa chi abbia seguito il tortuoso e a tratti allarmante iter della legge approvata malvolentieri nel 2017 sull’onda dello scandalo suscitato dalle condanne subite dall’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani, chiamata a giudicare i casi Diaz e Bolzaneto, ossia le clamorose torture praticate durante il G8 di Genova del 2001. La  legge sulla tortura, nonostante tutto, è stata fortemente contrastata dai vertici delle forze dell’ordine e alla fine approvata (con trent’anni di ritardo rispetto agli impegni presi dall’Italia in sede Onu) solo al termine di un’accurata operazione di svuotamento dall’interno del suo contenuto.

La legge è stata scritta in modo così contorto e così malizioso da risultare pressoché inapplicabile a tutti i casi più delicati e probabilmente più frequenti. Basti dire che alla vigilia del voto finale, undici pm e giudici genovesi, tutti impegnati a vario titolo nei processi scaturiti dal G8, hanno messo in guardia i parlamentari con una lettera formale inviata a deputati e senatori: attenti, hanno scritto, la legge che state approvando è così poco chiara e confusa, che se fosse esistita prima del 2001 probabilmente non sarebbe stata applicabile ai casi Diaz e Bolzaneto. I magistrati segnalavano dunque un paradosso – una legge discussa sull’onda di casi eclatanti, ma scritta in modo da escluderne l’applicazione in casi analoghi – ma il loro messaggio è stato ignorato dal parlamento. E possiamo aggiungere che a fine 2017, cioè pochi mesi dopo il varo della legge, il Comitato dell’Onu di prevenzione della tortura l’ha bocciata e ha invitato il parlamento italiano a cambiarla, quindi prima ancora che un giudice pensasse di poterla applicare a un caso concreto.

La legge del 2017 differisce in modo sostanziale dal modello sottoscritto da decine di paesi (Italia inclusa) in sede di Nazioni Unite per più aspetti, a partire dal suo impianto: il parlamento italiano ha scelto di qualificare il crimine di tortura come un reato comune anziché come un reato specifico del pubblico ufficiale. Una concessione alla postura negazionista diffusa nei corpi di polizia, quasi offesi che si pensi necessaria una legge in materia… E poi differisce quando usa il plurale anziché il singolare, escludendo di fatto la tortura eseguita con atto singolo; e ancora – aspetto gravissimo – quando per la tortura psicologica, la più diffusa e anche la più difficile da accertare poiché non lascia segni sui corpi, pretende non solo che siano accertati i fatti ma anche che vi sia, caso per caso, un “verificabile trauma psichico”, concetto sempre incerto in materia psichiatrica e assurdo in sede penale: basti pensare che a parità di maltrattamento subito, l’eventuale diversa reazione psicologica della vittima (o la difformità di giudizio dei periti) potrebbe portare a conclusioni opposte: c’è tortura in un caso, non c’è tortura in un caso identico.

La legge del 2017, per come è stata scritta e anche per come se ne è discusso (o meglio: per come non se ne è discusso), ha mancato soprattutto l’obiettivo che dovrebbe essere primario: esercitare un’opera di persuasione e prevenzione all’interno delle forze dell’ordine diffondendo princìpi cardinali come l’obbligo di trasparenza, la responsabilità di fronte ai cittadini, l’obbligo di collaborare con la magistratura nell’accertamento dei fatti, la sacralità del corpo del detenuto.

La tortura è fra noi e non siamo finora riusciti a contrastarla in modo adeguato sul piano politico e culturale. Le notizie di cronaca di questi giorni ce lo ricordano. I magistrati dovranno accertare i fatti e valutare la possibilità di applicare la deficitaria legge del 2017, ma qualsiasi cosa accada in tribunale, ben poco cambierà se non riusciremo ad aprire un percorso serio di riforma delle nostre forze dell’ordine, tuttora chiuse al dialogo con il resto della società, ferme al vetusto e pericoloso modello autoreferenziale permesso da decenni di ignavia e complicità di governi e parlamenti.

Lorenzo Guadagnucci