Dall’ANSA abbiamo appreso che il 30 giugno 2020 Maurizio Bigazzi, neo eletto presidente di Confindustria Firenze in una conferenza stampa ha affermato che i dipendenti della Pubblica Amministrazione devono aiutare chi non ha. “Lavorano a casa? Diano contributo solidale a chi non ha nulla”, i lavoratori della Pubblica amministrazione “ancora sono in lavoro agile, e addirittura si sta pensando di portare questo lavoro agile fino alla fine dell’anno”, per cui “penso che ci sarebbe una giusta misura nel far pagare a loro un contributo di solidarietà da far giungere a tanti cittadini”, soprattutto “alle persone che non hanno più niente…Stando a casa ho l’impressione che risparmino dei soldi, perché non vanno a lavorare con i mezzi pubblici o privati; risparmiano del tempo, quindi hanno più tempo libero; e poi non sono minimamente controllati, infatti Ichino parla di ‘ferie‘”. (Ansa).
Impoverimento e disoccupazione: un progetto politico
Prima di tutto il contributo di solidarietà i lavoratori dipendenti del pubblico impiego lo danno da sempre attraverso le loro tasse, pagate sempre fino all’ultimo centesimo e anche in anticipo, visto che l’85% dell’IRPEF arriva da dipendenti pubblici e privati e pensionati. Sarebbe l’ora piuttosto di far finire l’odiosa evasione fiscale (110 miliardi di evasione fiscale annuale secondo le stime del ministero dell’Economia) e le fughe di capitali nei paradisi fiscali appartenenti a soggetti che poi grazie alle dichiarazioni false si accaparrano facilitazioni, finanziamenti e bonus. E bisognerebbe interrompere le facilitazioni a imprese che non sono benefattrici della patria, ma semplici produttrici di profitti per sé. Che non “danno lavoro”, il ricatto utilizzato per costruire le infrastrutture più distruttive e inquinanti e attivare le imprese più inutili e pericolose, ma semplicemente utilizzano il lavoro troppo spesso senza assicurargli le sicurezze e i diritti necessari per distinguere un paese civile da uno incivile. D’altra parte se non sono obbligati dalla comunità perché dovrebbero sottrarre risorse a loro stessi per darle ad altri?
Dagli anni ’70 in poi si è verificato un arretramento dei diritti dei lavoratori a favore di quelli delle imprese: un progetto politico reazionario e classicamente fascista. Obbligo di assumere dalle liste di disoccupazione eliminato per garantire il “diritto” di assumere chi si vuole, obbligo a reintegrare i lavoratori ingiustamente licenziati scavalcato e nei fatti superato, obbligo a farsi carico dei periodi di scarsa domanda da parte del datore di lavoro graziosamente scaricato sulla collettività. E non dimentichiamo la fiera lotta per “abbassare il costo del lavoro” che per gli sfruttatori sarebbe stata la ragione della scarsa produttività del lavoro, e che ha prodotto quei soggetti che non hanno nulla, e che fanno tanto comodo per ricattare i lavoratori e dir loro “se tu non stai alle regole dico che sono in crisi, ti licenzio e ne assumo un altro” oppure “tu sei fortunato a lavorare”. Fortunato a dover lavorare sotto patrone per vivere? Lavorare è una attività che va pagata non solo in termini di reddito, rapportato alla qualità del lavoro erogato e tale da sostenere i costi della vita quotidiana (basti pensare al costo della casa), ma anche di diritto alla pensione che è stato sottratto in modo infame, aumentando di fatto l’orario di lavoro totale della vita lavorativa: la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero a parità di salario (la lotta per le 8 ore lanciata nel 1889!!), annuale (ferie) e della vita lavorativa (pensione) non a caso è uno dei punti della lotta dei lavoratori per i diritti fondamentali da più di un secolo. Il problema è che i legislatori si sono posti sempre più spesso nell’ottica (di classe) di predisporre il regime normativo più favorevole alle imprese invece di imporre le tutele più adeguate per i lavoratori. Un esempio infame di questa pratica è stato il Job act del 2015. Con norme che difendono il datore di lavoro anche quando ha comportamenti illegittimi come il licenziamento senza giusta causa, è ovvio che i lavoratori sono ricattabili e sono più deboli nel rivendicare i loro diritti. E’ facile poi accusare la vittima. La mancanza di regole in favore dei lavoratori, la mancanza dell’obbligo ad assumere sempre e solo a tempo indeterminato, garantendo il pieno pagamento nei periodi di fluttuazione della domanda, pagando un salario che permetta di vivere in modo degno, questo è il motivo per cui ci sono lavoratori sottopagati che ora non hanno nulla. Tutto questo ha portato un extra-profitto alle imprese che prima o dopo dovrà essere restituito non solo “alle persone che non hanno più niente” ma a tutta la società.
Non sono i dipendenti pubblici e privati a dover dare un contributo ma invece gli evasori, gli elusori e poi occorre guardare dove i soldi ci sono: per esempio ai 36 miliardari italiani con un patrimonio di 125,6 miliardi di dollari (Dati Forbes 2020). Rappresentano certo meglio una classe di privilegiati dei pubblici dipendenti che lavorano per vivere con redditi bassi. Abbiamo bisogno di un sistema di tassazione che colpisca maggiormente il capitale e non il lavoro. L’impoverimento è il sintomo di un processo di arricchimento smisurato a livello locale e globale. Per ridurre la povertà bisogna ridurre l’accaparramento di ricchezza agendo su come la ricchezza viene prodotta: non deve più essere possibile arricchirsi sfruttando i lavoratori e distruggendo il patrimonio comune, ambiente e natura.
Smart work is work
Se si guarda all’affermazione del presidente di Confindustria sembra poi che non abbia cognizione che c’è stata una rivoluzione informatica dagli anni ’90. Infatti per tornare al lavoro pubblico ogni lavoratore è un video terminalista che usa il computer per lavorare: banche dati on line, posta elettronica certificata, posta elettronica, istruttorie su piani e programmi che sono nei fatti già condotte on line e sul computer, gare e appalti online, procedure e procedimenti informatizzati. In particolare la Regione Toscana ha condotto da anni una lotta contro il cartaceo per rendere ogni procedura e processo informatizzato, facilitando in questo modo la possibilità di consultare e scaricare i documenti online. Si trova tutto sul sito online, basta informarsi prima di parlare. Il lavoro dei lavoratori pubblici viene controllato con molteplici mezzi (anche eccessivi e ridondanti): i piani di lavoro con obiettivi individuali da realizzare vengono verificati attraverso valutazioni semestrali con tanto di voti sui diversi compiti, i report settimanali sul lavoro svolto in smart work, infine il fatto che il lavoro, per esempio della Regione Toscana, è stato effettivamente effettuato e non si è mai interrotto bensì è continuato durante tutto il lockdown e nelle fasi successive. Le prove? Basta informarsi per esempio visionando il sito della regione con tutte le attività in essere.
Ogni scelta politica comporta l’attività dei lavoratori degli uffici della giunta e del consiglio regionale. Tra l’altro molte della attività riguardano l’erogazione dei finanziamenti alle imprese che vengono elargiti da UE o dallo Stato o direttamente dalla regione attraverso le istruttorie degli uffici, con capitale a fondo perduto o attraverso prestiti garantiti, oppure riguardano la costruzione di infrastrutture che vengono utilizzate a costo zero dalle imprese sebbene ne siano i principali fruitori. Oppure ancora si tratta di bandi per appalti di beni e servizi oppure per opere pubbliche che danno lavoro alle imprese. E poi controllo del rischio idrogeologico e ambientale, cura del territorio e del paesaggio, la programmazione degli interventi di edilizia scolastica e la manutenzione di scuole e strade, le opere infrastrutturali sono gestiti e programmati grazie agli uffici regionali. Le recenti istruttorie della cassa integrazione in deroga sono state predisposte da dipendenti regionali in telelavoro straordinario. E’ sicura Confindustria attraverso il suo Presidente, di voler affermare che questi sono lavori che non sono stati effettuati in questi mesi? Tutto è andato avanti durante il lockdown.
Lo Stato più che un nemico sembra essere un amico che sostiene economicamente e facilita le imprese, offre appalti di lavori e di servizi, e queste attività riguardano molti dei settori in cui è organizzata la pubblica amministrazione. Ma a ben guardare è noto che il problema per le imprese sono le regole sul lavoro e sull’ambiente, quelle che secondo loro non permetterebbero di competere con altri paesi con regole meno restrittive. E queste regole e controlli, che riguardano un’altra parte delle competenze pubbliche, continuano ad essere attive grazie a norme conquistate in periodi di maggior forza dei lavoratori e di maggiore consapevolezza dell’importanza della qualità dell’ambiente per la salute e il benessere di tutti, malgrado siano contestate duramente da chi si avvantaggia dello sfruttamento del lavoro e dell’ambiente e malgrado troppo spesso siano state ridotte e ridimensionate da interpretazioni giurisprudenziali, modifiche e stravolgimenti o siano semplicemente bypassate da presunti altri interessi pubblici. Senza regole in loro favore il lavoro si dissangua, fino a estinguersi prematuramente (vedi morti e infortuni sul lavoro e malattie professionali), e l’ambiente si dissipa fino a rendere impossibile la nostra vita sul pianeta. Le imprese, la loro incapacità di investire in innovazione e di competere sul mercato, la imputano alle regole di civiltà che proteggono la dignità del lavoro e salvaguardano l’ambiente e la salute dimostrando miopia, unilaterialità e furbizia. In realtà il vero limite della produzione capitalista è che non risponde alla domanda d’uso di tutti su beni e servizi fondamentali e si limita a produrre solo per la domanda solvibile e per quella selettiva delle élite. Le promesse di “gocciolamento dall’alto verso il basso” sono sempre rimaste solo una promessa. In un periodo in cui la crisi ambientale e il riscaldamento globale, con incendi, allagamenti, frane, desertificazioni, inquinamenti di aria, acque, suolo, rischio di epidemie, non può essere negata, le regole a favore di ambiente e lavoratori devono diventare sempre più stringenti: devono impedire, negando i permessi, che vengano attivate produzioni nocive e i finanziamenti pubblici devono essere indirizzati a garantire la qualità della vita di tutti e non i profitti.
La Regione Toscana, in base a disposizioni statali, ha estenso alla stragrande maggioranza dei suoi lavoratori il lavoro agile, dimostrando di avere cura della salute dei lavoratori, ma anche della collettività, e su questo la sollecitazione della RSU e del sindacato COBAS ha trovato una risposta davvero soddisfacente. Ad oggi solo una quota minima dei lavoratori per compiere le loro attività devono recarsi al lavoro in ufficio, ma il numero esiguo e le regole da seguire tassativamente, rendono il rischio di contrarre il covid19 inesistente, mentre tutti gli altri lavorato in smart work. Lavorano: hanno un orario, il solito, e sono presenti come sempre per telefono e per e mail. Il mondo immaginario di alcuni è diverso dal mondo reale. Certo, da un punto di vista politico, la Regione potrebbe aver un’altra struttura organizzativa e altre priorità politiche. Meno gerarchia e meno differenza fra reddito dei dirigenti e del comparto sono da tempo una rivendicazioni dei lavoratori, ma questo non tocca il fatto che i lavoratori abbiano lavorato in periodo di lockdown. La qualità dei servizi pubblici e l’offerta di servizi pubblici dipendono in via prioritaria da scelte di priorità politica, basti pensare alle privatizzazioni, e organizzative di attribuzione di personale, e non certo da quanto lavorano i dipendenti pubblici.
La crisi, in questo caso il virus, ha fatto fare un salto obbligato: chi non era convinto che si potesse lavorare in lavoro agile ha verificato che era possibile. Abbiamo imparato tutti a usare le piattaforme per le videoconferenze e le riunioni di lavoro. E’ stata una scelta obbligata per contribuire a salvaguardare la salute di tutti che ha accelerato un processo di cambiamento e consapevolezza. Il lavoro agile, svolto a casa porta un vantaggio collettivo, la riduzione del pendolarismo casa – lavoro con conseguente riduzione dell’inquinamento, mentre al lavoratore dà la possibilità di usare il tempo di viaggio per vivere, compensando il fatto che gli orari di lavoro continuano ad essere di certo troppo lunghi, 40 o 36 settimanali. Situazione assurda se si pensa che c’è chi invece non lavora. Distribuire ore di lavoro a tutti garantendo a tutti un salario pieno: lavorare meno, lavorare tutti (ma proprio tutti, anche quelli che oggi comandano, ma non lavorano, che non è la stessa cosa).
Finanziamento pubblico selettivo
Tornando all’economia, nella giungla c’è chi vince e c’è chi perde. Alcune imprese hanno tratto vantaggio dal lockdown: quelle che si occupano di servizi informatizzati su internet non ultimo di videoconferenze; quelle farmaceutiche; le vendite di prodotti on line, solo per fare degli esempi. Le imprese devono accettare che c’è il rischio di impresa, avrebbero dovuto prevedere ed essere capaci di prendersi cura di se stesse, come chiedono di fare alle persone in visione neo-liberista “Se non ce la fai è colpa tua”. D’altra parte si può vivere di immeritati finanziamenti pubblici diretti e indiretti e dell’uso di risorse di tutti per i propri vantaggi oppure riconvertire la produzione verso merci e servizi davvero utili e necessari. Il virus ha insegnato che c’è un metro per giudicare la produzione che non è la semplice produzione di profitti, ma che rimette al centro il valore d’uso di quello che si produce e i suoi effetti sull’ambiente e sulla giustizia sociale.
E’ noto anche ai liberisti che esistono i cosi detti “fallimenti del mercato” cioè l’incapacità del mercato capitalista di produrre certi beni e servizi di vitale importanza, come le abitazioni per tutta la popolazione e non solo per chi può pagare alti prezzi, oppure la sanità e l’istruzione per tutti. Lo stato dovrebbe farsi carico della produzione e finanziare quelle produzioni di beni e servizi necessari che il mercato non produce e non finanziare imprese che producono beni il cui solo scopo non è rispondere a bisogni essenziali, ma semplicemente essere vendute magari alle elite, quelle che i soldi li hanno e li fanno anche in tempo di crisi. E le produzioni che non sono davvero socialmente necessarie non dovrebbero essere permesse, altroché finanziate. Cosa, quanto, come, dove produrre dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Con la crisi ambientale la produzione che implica uso di risorse e inquinamento dovrebbe essere sottoposta a oculata disamina. Pensiamo alle auto, producono profitto ma sono altamente inquinanti e inefficienti, e per funzionare necessitano di costose infrastrutture dedicate, di cui si fa carico la collettività. Ci vuole una riconversione verso altre forme di mobilità: trasporto pubblico davvero efficiente e pubblico, non sottoposto alle regole inique del profitto, per esempio. Invece di finanziare imprese con la sola giustificazione che producono profitto e occupano personale, bisognerebbe finanziare solo le attività davvero necessarie, considerarne il peso sociale in termini di capacità di produrre risposta ai bisogni sociali di tutta la popolazione. E i lavoratori andrebbero rioccupati in attività utili.
Le risorse pubbliche dovrebbero essere utilizzate in primo luogo per re-impiegare direttamente i lavoratori che hanno perso il lavoro per la crisi economica conseguente al corona virus, nel pubblico impiego: istruzione, sanità, cultura, cura degli anziani, cura del territorio e dell’ambiente, produzione di edilizia abitativa sociale di alta qualità per tutti, solo per fare degli esempi. C’è una miniera di lavoro da attivare. Contemporaneamente il pubblico impiego deve essere riorganizzato con meno strutture gerarchica e più collaborazione orizzontale, quella democrazia organizzativa che i lavoratori propongono da tempo. E poi permettere di andare in pensione a chi ha più di 60 anni e sostituirlo occupando i disoccupati, giovani e meno giovani, in base a concorsi pubblici e quindi assicurando loro tutti i diritti, è un progetto ineludibile di civiltà. Abbiamo persone costrette a lavorare fino a 67 e oltre e abbiamo persone giovani che non hanno mai lavorato. Ovviamente prevedendo pensioni degne e salari degni di questo nome.
Non vanno solo attutiti i sintomi ma vanno costruite le nuove strutture istituzionali, ancora più che regole, per agire sulle cause. Come sosteneva Saint Just nei Discorsi sulle Istituzioni repubblicane (1793) sono necessarie poche leggi e molte istituzioni, intese come configurazioni organizzate di relazioni sociali. Le legge è una limitazione delle azioni mentre l’istituzione è un modello positivo di azione.
Sempre nella conferenza stampa Bigazzi afferma “qualche volta ci troviamo di fronte a dei cittadini privilegiati” che “sono ancora in lavoro agile, mentre tutte le nostre imprese sono in funzione, e alcune non hanno mai chiuso” (Ansa).
Infine, da che pulpito viene la predica. Confindustria è stata fra le forze che si sono espresse con pervicacia contro il lockdown e per il ritorno celere dopo che è stato imposto, dimostrando in modo evidente che la salute dei lavoratori e della popolazione è in lontano subordine dopo il loro guadagno. La loro preoccupazione è stata soprattutto non essere ritenuti responsabili dal punto di vista civile e penale nel caso un lavoratore si ammali, dopo che INAIL aveva riconosciuto la contrazione del virus covid 19 come infortunio sul lavoro. L’infezione dipende da quante persone sono in giro e da quanti contatti hanno, quindi tenere aperto se non è strettamente necessario dal punto di vista della produzione di beni con valore d’uso (quella aperta anche nel lockdown) e il vantaggio è solo la produzione di profitti, è egoismo, non prodigalità. Molti lavoratori hanno protestato per il fatto di essere costretti a lavorare in presenza mettendosi a rischio. Devono avere la possibilità di scegliere un posto di lavoro migliore, con più diritti. Nuove istituzioni.
Non semplicemente far ripartire l’economia, ma riconvertire la produzione verso beni e servizi davvero necessari e capaci di rispondere alla domanda di valore d’uso di tutti con l’obiettivo della giustizia sociale e ambientale e di un nuovo rapporto sinergico con la natura non umana.
*Marvi Maggio – Dirigente Sindacale COBAS Regione Toscana, Coordinamento RSU Regione Toscana, rappresentante eletta in RSU Regione Toscana – Architetta e Dottoressa di ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana – Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore universitario di seconda fascia in Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale.
Marvi Maggio
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