Non è assolutamente facile scrivere qualcosa dopo aver letto Il giorno prima. Non è assolutamente facile dopo che, coincidenza ha voluto, nel terminare queste 311 pagine è arrivata la notizia che a Torino è crollata una gru e 3 operai sono morti. Una carneficina che vede centinaia di lavoratori uscire la mattina di casa per recarsi nel luogo simbolo dell’obbligo e non tornare a casa. Torino dopo la Thyssen. Inadeguatezza, impotenza, rabbia sono sentimenti che anche se in modo diverso, emergono da quanto scrive Chalandon rispetto al 27 dicembre del 1974 quando a Lievin, cittadina francese tra campagna e miniera, 42 minatori restano uccisi in fondo al pozzo di una miniera in una regione dove muoiono di silicosi 2 minatori al giorno e c’è un incidente fatale ogni 2 giorni.
C’è la descrizione della comunità che vive attorno e per la miniera, che è un popolo a parte, un popolo che deve lavorare per soddisfare le nostre comodità, che tramuta rabbia e disperazione in silenzi; perché un minatore si riconosce, si riconosce dal passo incerto ereditato dalla vita lavorativa, dai tremolii, dai gesti lenti, dalla schiena spezzata, dagli occhi tristi… Ma soprattutto dalla sua fierezza. Le famiglie che si assottigliano, il numero di appartenenti ad essa diminuisce, chi sopravvive è una minoranza. La miniera rende l’aria acre; l’orizzonte fatto di cumuli minerari; gli abitanti dei borghi che abbassano gli sguardi davanti ai sopravvissuti che hanno gli sguardi stanchi. Michel che vuol vivere di altro che non siano solo rimpianti e che vede la propria moglie, che soffriva per lui e ne era fiera, non morire, ma spegnersi in un letto di ospedale perché la malattia uccide come la miniera.
La comunità operaia si riconosce e si identifica nel rendere omaggio ai propri morti, alla classe operaia, ai crepati nel fondo di un pozzo mentre in superficie si festeggia l’anno nuovo in un villaggio prostrato dagli avvenimenti luttuosi, invaso da un odore nauseante. Una comunità che si stringe assieme attraverso la disperazione che diviene dolore collettivo, che si incammina verso la miniera e più si incammina e più si fa corteo, con anziani, compagni di scuola, donne, uomini, e al passaggio di questa umanità imposte e porte si aprono in segno di saluto e di rispetto.
Il giorno dopo la strage è una mattina triste cadenzata solo dai passi di chi si dirige verso la miniera, perché la miniera si ingozza di uomini: non un grido, non una parola, non un lamento, nessuna parola di troppo perché è il silenzio di chi va al macello. Minatori tristi di fatica, neri di polvere, come un plotone di soldati tornati dall’inferno, che possono continuare a vivere grazie al fondo di solidarietà, solidali l’un l’altro. E’ una comunità che si ribella di fronte alla versione di comodo che attribuisce la responsabilità dell’accaduto alla fatalità. Una comunità che, il giorno dei funerali, si trova messa ai margini, perché tutto deve essere nascosto ed i minatori devono svolgere solo la funzione di scenografia, nessuno deve vedere, ma che reagisce con rabbia e quindi il minatore accusa: “ci hanno rubato il lutto”; “la fatalità non esiste vogliamo la verità”.
Michel di fronte prima alla perdita del fratello morto da operaio, poi al suicidio del padre, morto da contadino, che lascerà come testamento 4 parole chiare e precise “vendicaci tutti della miniera”, e ancora della madre morta da sola, e infine della moglie, pianifica la vendetta. Ma prima di tutto questo vuole raccontare al fratello cosa significa essere minatore, senza niente di tutto ciò che è la dignità di un uomo, con la sveglia tutte le mattine alle prime ore del giorno, con il respiro come quello dei pesci arenati sulla spiaggia.
Chalandon in queste pagine scrive un vero e proprio atto di accusa verso il profitto, fatalità per i padroni, che scaturisce dalle miniere; verso l’ assoluta scarsa considerazione della sicurezza per i lavoratori. “Se dovessimo applicare le regole …”; “se teniamo troppa attenzione alla sicurezza addio rendimento”: questo è il minimo comune denominatore che tiene assieme i padroni, questa è la filosofia che domina le logiche produttive. Il senso di frustrazione, l’impotenza di fronte a condanne che hanno solo e soltanto il sapore della beffa; condanne che sono una riga su un bilancio contabile. Michel pianifica una vendetta non solo per i familiari, ma per i silicotici, per tutti gli uomini morti di carbone senza ferite apparenti, per le vedove umiliate.
È un libro decisamente importante, diviso in due parti, tutte e due molto intense. Perché dopo la prima parte dedicata alla miniera e alla comunità che ruota attorno ad essa, Chalandon ci porta in una seconda parte, collegata alla prima, con l’indagine accurata della personalità di Michel. Abbiamo lo psichiatra, lo psicologo, gli avvocati. Cos’è il carcere, cos’è la pena di fronte al pozzo di una miniera. Su tutto questo il desiderio irrefrenabile di arrivare ad un tribunale popolare composto dai vecchi minatori, dai vecchi silicotici, dalle vedove. Perché sia giudicata la miniera che ha scritto il dramma nella memoria collettiva e ha prodotto un mondo di scarti. Un libro che è un pugno allo stomaco per chiunque, sia sensibile o meno. Un libro che parla anche a noi, noi che viviamo in un paese in cui da gennaio ad ottobre in questo 2021 sono morti 1017 lavoratori, una media di 3 al giorno; una strage infinita e di cui non si vede la fine.
Sorj Chalandon, Il giorno prima, Keller editore, Rovereto 2021
Edoardo Todaro
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