A partire da Magia e tecnica di Federico Campagna

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In questo stesso numero di La Città Invisibile pubblichiamo con il gentile permesso della casa editrice Tlon l’introduzione al bel libro di Federico Campagna, dove l’autore spiega le sue intenzioni e il carattere del libro stesso. Libro per me così tanto suggestivo che mi ha ispirato tutta una serie di ragionamenti e rimandi, tanto che la seguente recensione si è trasformata in qualcosa di diverso, come forse ad una specie di note a margine.

La sensazione di un’impotenza politica, di un allentarsi se non disfarsi dei legami sociali, la precarietà dell’esistenza, la mancanza di un orizzonte con la conseguente incapacità di immaginarsi un futuro, segnano la condizione in cui si trova molta popolazione dell’occidente, ma non soltanto le classi popolari, ma anche la gran parte della classe media che si assottiglia sempre più, di fronte alla polarizzazione sempre più acuta della società. Ma non è soltanto il disagio della civiltà, è anche il farsi meno degli strumenti politici utili ad avere una presa sul mondo; strumenti capaci di dare significanza al gesto politico; strumenti con i quali poter pensare e costruire una via di uscita, di fuga; strumenti capaci di mettere mano a una trasformazione del mondo. La sensazione è quella di una perdita di presa nei confronti della realtà, di una perdita di mondo; di una perdita delle coordinate attraverso le quali possiamo cartografare il mondo, renderlo accessibile. Anche il rifugio non è più un modo di abitare il mondo; anche della costruzione dei rifugi si è persa la conoscenza. Il semplice abitare il mondo non è più scontato. Lo si può abitare virtualmente come in un gioco impostoci dall’esterno, con regole implicite dettate da altri; un facendo finta che il mondo occidentale, il mercato, il consumo, in definitiva la realtà, abbiano ancora dei fondamenti. Una realtà attraversata da eventi come la guerra, la pandemia, la crisi ambientale, le morti sul lavoro, i femminicidi, il lavoro che non c’è e, se c’è, è ormai un lavoro di merda. Il restringersi degli spazi sociali, la loro virtualizzazione che in mano agli algoritmi del capitale crea bolle, crea cerchie autoreferenziali, crea il complottismo, crea la post verità che a partire da una infatuazione tecnoscientifica, si libera paradossalmente dalla scienza stessa. Una verità che si moltiplica come fanno i batteri e i virus e che, come questi, muta.

Siamo al punto di incrocio tra due tendenze, quella che porta alla catastrofe ambientale o atomica, con la conseguente perdita di mondo e l’implodere della realtà. Ma anche al fatto di trovarsi di fronte a qualcosa di simile alla fine della cultura contadina per mano della modernità dei mezzi di comunicazione di massa e al trionfo di quel paradigma che ci hanno raccontato in modo diverso Pier Paolo Pasolini e Ernesto de Martino, che metteva fine ad un “mondo magico” – nel senso demartiniano del termine – soppiantato dal mondo della tecnica prima e della comunicazione oggi. Si tratta, in entrambi i casi,  di una perdita del senso dei valori intersoggettivi della vita umana, per cui si può annientare la possibilità della cultura. In un certo senso la misura del rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile.

Federico Campagna ci dice che quel cambio di paradigma, quel passaggio dalla magia alla tecnica è qualcosa che è possibile pensare di nuovo. Qualcosa che è doveroso costruire ancora per mettere fine a quella impotenza prodotta dallo stare al mondo oggi, per chi non ama il modo di stare che questo mondo impone, ma anche per chi semplicemente si sente fuori dal mondo. Campagna dice che ci sono altri paradigmi possibili. Dice che il paradigma della tecnica basato sul linguaggio oltre a creare tutte le disfunzioni di cui sopra, bandisce tutto quello che non è manipolabile dal linguaggio, bandisce in prima istanza l’indicibile, l’ineffabile. Ma non l’indicibile in sé, l’indicibile con quel linguaggio. Dice che altri strumenti dal punto di vista metafisico sono leciti. Dice che è possibile mettere in discussione quel paradigma e che è possibile costruirne uno nuovo, non gratuito, basato su altre ipostasi, su altri caratteri fondamentali che agiscono sul reale su un piano paradigmaticamente diverso da poter costruire intorno ad essi, ma non solo.

Ogni sistema metafisico è un insieme di decisioni sul modo migliore di dare ordine al caos della mera esistenza: è la forma di un particolare universo o cosmo. Cosmologia, il “discorso intorno all’ordine del cosmo”, mi è sembrato allora un termine più adatto, rispetto alla semplice metafisica, per definire l’oggetto della mia ricerca (Campagna, p. 23, cfr l’introduzione qui).

Il carattere della cosmologia sottesa all’occidente contemporaneo, quello della tecnica, è quello di poter “impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità priva di senso”, dice de Martino. Una cosmologia direttamente connessa con la catastrofe e con la “fine del mondo”. Così come – analogamente alla Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer – de Martino affrontava il problema di come si potesse conciliare la fine delle tradizioni arcaiche con la ripresa di una civiltà borghese che prometteva progresso ma che aveva portato anche alla catastrofe del nazismo (cfr Paolo Pecere qui) o, come diceva Anders, a quella nucleare che richiedeva che ci fosse un’apocalisse all’orizzonte per riuscire ad evitarla. Un immaginario che per sussistere presupponeva la possibilità della sua fine. Tutto il contrario di quello che avviene nello scenario cosmogonico non tecnico e non occidentale come quello amazonico raccontatoci da Viveiros de Castro dove la cosmopolitica degli indios è basata su un’inesauribile diplomazia dei rapporti con l’”arena internazionale” dell’ambiente in cui vivono. “Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un nuovo popolo, il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciano di esso” (Danowski e De Castro). In questo ragionamento mondo e popolo si interscambiano, ma non solo: pensare dal punto di vista del popolo nella “arena internazionale”, significa già aver pensato un nuovo mondo dove il mondo stesso è popolo e la fine del mondo diviene lo spazio mitopoietico di una nuova cosmopolitica. La catastrofe climatica segna quello che si potrebbe chiamare “un fallimento multiplo del governo cosmopolitico (il nomos) dei Moderni” (Bruno Latour). «L’umanità non si trova sul lato opposto dell’essere, non è il contrario o il negativo del mondo, così come il mondo non è il “contesto” (l’”ambiente”) di un Soggetto che lo contro definisce come Oggetto» (qui).

E se “de Martino poteva pensare che un nuovo ‘simbolismo laico’, quello socialista, potesse sostituire quello religioso e assolverne la funzione nell’orientare le masse di contadini e proletari che irrompevano nella storia del Novecento” (Pecere), oggi, con il “realismo capitalista” (Fisher), con il TINA della Thatcher, questo orizzonte è tutto da restaurare. E il suo restauro sta in una forma di re-incantamento del mondo.

Ma una cosmologia non è lo stesso di una cosmopolitica. La seconda esprime il carattere agenziale della prima. Qui il cosmo nella sua accezione universalizzante, sposta la politica su un piano nel quale le sole problematiche umane diminuiscono la loro significanza. Mentre la qualità politica mette in discussione il carattere e l’assegnazione del cosmo a quella sua indole a rappresentare nelle epoche antiche l’ordine eterno e immutabile, al di sopra delle beghe e delle vicende degli umani. Ma non è soltanto un’operazione di de-universalizzazione del cosmo e di generalizzazione della politica, l’uso del termine vuole da una parte superare le ristrettezze dell’antropocentrismo senza perdersi in uno spazio senza coordinate, dove le agency di umani e non-umani non possano trovare un loro esito. È questo il senso di cambiamento di paradigma, quello che per Campagna costituisce l’esercizio metafisico del passaggio da una cosmopolitica della tecnica, alla costruzione di un’altra cosmopolitica che chiama magia. Campagna, come abbiamo visto, non usa il termine cosmopolitica, caro invece a Isabelle Stengers, ma usa “cosmologia” e l’operazione la fa usando gli scarti che l’evoluzione del pensiero occidentale, del pensiero della tecnica, hanno lasciato lungo il cammino. E questi scarti li ritrova in quelle forme particolari del pensiero orientale che un qualche rapporto con l’occidente lo potevano avere ma che la costruzione cosmologica e paradigmatica del pensiero prometeico della tecnica si erano lasciate alle spalle. Ma non si tratta di una cosmologia magica dell’oriente che si contrappone al paradigma occidentale della tecnica. Campagna parla infatti di due luoghi ipotetici: “la terra del non-dove” del nord e “la terra del non-dove” mediterranea. Sappiamo che il Mediterraneo è per Campagna un progetto per un prossimo libro e quindi non sappiamo ancora cosa è. Forse il Mediterraneo non è semplicemente un luogo geografico, ma quella terra del non-dove che fa da soglia, da limes tra la civiltà occidentale, il nord, e un altrove che l’ha nutrita. Cose che il nord non ha accolto o non ha sviluppato o di cui si è liberato, pur facendo parte della sua archeologia culturale. Oppure soltanto delle possibilità ulteriori. “Non basta rendersi conto che il mondo sta finendo; dobbiamo imparare a immaginarne di nuovi” dice John Tresch. Immaginarsi una cultura profetica che rinstauri il futuro. Una cultura profetica che evoca e rivitalizza quelle ipotesi immaginative che è possibile scovare tra le rovine del nostro futuro.

“Un mondo non esiste semplicemente dal punto di vista umano. Deve essere mantenuto e persino intrattenuto per mezzo di canzoni e storie. Ma come eseguire questa manutenzione, o pulizia se il tempo e lo spazio si rompono, se il presente diventa imprevedibile, il passato continua a cambiare, il futuro è passato e la “casa” in quanto tale diventa precaria, instabile e indisponibile?” si chiede Hito Steyerl (ibidem) a proposito del lavoro di Campagna.

Un’epoca di instabilità, militarismo, commerciabilità. Ora il problema è che tutte le culture, anche quelle radicali, vogliono essere contemporanee. Se partiamo da questo, non riusciremo mai a uscire dalla trappola. Rimanere ancorati alla contemporaneità non ci farà sfuggire né dal populismo né dalla religione del lavoro. La contemporaneità è un filtro che non ci farà mai vedere cosa stiamo cercando. Qual è una delle forze dell’Islam? Vivere nel tempo sacro, mentre l’Occidente sembra esistere solo nella Storia. Secondo me è in questa atemporalità, nell’affermare che c’è un altro tempo, che non è il passato né il presente e nemmeno il futuro prossimo che possiamo trovare le risorse per uscire dalla trappola. (Qui)

La magia è quella pratica rituale che all’interno di un modello descrittivo della realtà, il mondo magico appunto, serve per tenere insieme le sue parti, per dare forma a quello stesso mondo. Uno dei tanti mondi possibili, tanto che lo stesso rituale in altri mondi non è efficace. Fissare le coordinate attraverso le quali il mondo sussiste, disegnare il frame che stabilizza il mondo a partire dalle pratiche e dagli scambi simbolici, ha un effetto mitopoietico che, in una routine fatta di feedback e aggiustamenti, fissa i limiti e le pratiche (i riti) di conservazione del mondo stesso. Il trionfo del paradigma della tecnica ha messo in crisi il mondo magico, che era sopravvissuto tra gli interstizi della cultura occidentale, il mondo contadino e mediterraneo del sud Italia descritto da de Martino che voleva chiudere quel racconto parlandoci della sua fine, parlandoci della fine del mondo, di quel mondo dove la fine è un’apocalisse senza eschaton (potere che frena), priva di un orizzonte di reintegrazione possibile. È “il momento dell’abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire [che] costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca” (De Martino 2019, 355). Crisi del mondo e crisi della presenza sono infatti una crisi sola: crisi di quella soglia, ogni volta rinegoziata, che presenza e mondo istituisce come realtà distinte, piano di consistenza – “magia” che si spezza. (cfr qui).

La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante (pp. 669-70).

Il problema dell’oggi somiglia a quello di quella cultura popolare alla quale hanno guardato de Martino e Pasolini. La fine di quella cultura è stata l’avvento della cultura elettrica dei mezzi di comunicazione di massa, quella odierna è quella che ha impattato con i media digitali. Una tecnologia che sembra venire dal futuro ma che per molti è sottrazione di futuro. Qualcosa è finito. Quello che verrà dopo non è ancora chiaro. In un momento in cui i futuri estrapolativi progettati per navigare in realtà più stabili si stanno rivelando inadeguati.

Un ‘mondo’ è sempre mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo ordine di valorizzazioni intersoggettive umane, per entro un certo progetto comunicato dell’operabile. Ciò che sostiene il mondo è l’ethos valorizzatore, ed il rischio a cui questo ethos è esposto sta nel flettersi del suo slancio valorizzante su tutto il fronte della possibile valorizzazione. Allora il mondo perde la sua condizione fondamentale ed entra nel finire. La cultura è l’anastrofe di questa catastrofe, la ripresa e la riplasmazione del finire, il recupero di senso, il configurarsi della prospettiva dell’operabile, il dischiudersi ad una progettazione comunitaria e comunicabile della vita. (de Martino 1977, pp. 636-637)

Il paradigma della tecnica nella sua articolazione moderna compie una operazione complessa: “L’abolizione della piena e autonoma esistenza delle cose e la loro simultanea trasformazione in numeri seriali equivalenti sono entrambe al cuore del processo contemporaneo di trasformazione del mondo in una nuvola impalpabile di unità finanziarie, dati digitali, catene di informazione, oggetti di identificazione” (p. 39). E la scomparsa delle cose che evaporano nella loro descrizione informazionale e quello che rimane è dunque soltanto il nome: “della vecchia rosa nulla rimane se non il nome” (Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus). È il trionfo della grammatica: “Una volta lasciata libera, la grammatica separa l’essenza dall’esistenza, riducendo la prima a una mera posizione di una serie sintattica e annullando la seconda in quanto inutile e pretestuosa. Che cosa sono oggi le ‘cose’, se non indicatori della posizione assegnata loro all’interno della sintassi produttiva della tecnologia, dell’economia o delle norme sociali?” (ibidem).

Il passaggio dal paradigma della Tecnica a quello della Magia corrisponde al punto nel quale è possibile avere un’idea ontologica (che ne determini l’esistenza) delle cose. Esso è quel livello in cui sono accomunate dal fatto di essere “cose oltre la cosalità stessa. In quanto ineffabilmente esistente, ogni essente è vivo e realmente connesso con tutti gli altri, mentre nei termini dell’essenza variabile tipica di questo o quell’oggetto, ogni esistente negozia la propria identità e la propria differenza rispetto agli altri sulla base di sintassi linguistiche storicamente determinate”. Si tratta di un’ontologia piatta, non gerarchica, molto vicina a quella proposta dai pensatori della OOO.

Sia de Martino che Campagna sono coscienti del carattere strumentale delle cose che comunque non ne esaurisce l’esistenza. Lo strumento si caratterizza sulla sua potenzialità e non sulla sua attualità, dice Campagna. E la potenzialità strumentale si misura con il fatto che l’uso è una forma di relazione che nella tecnica viene intensificata tanto che in quel mondo (che poi è questo), le cose esistono soltanto in quanto strumenti, sino a trasformare la loro esistenza funzionale in una ontologia. È la tecnica che costringe le cose a esistere soltanto nella loro versione potenziale, quella strumentale, tanto che Heidegger per ritrovare una qualche essenza della cosa in sé, è costretto a pensare all’oggetto rotto. Alla cosa che si tira fuori dalla costrizione strumentale riconquistando la propria attualità. Ma per me l’oggetto rotto, l’oggetto che ha perso la sua funzionalità, si apre a una usabilità ludica, improduttiva. Si presta a essere la cosa magica, l’oggetto di un “far finta che”, che fonda la magia del gioco infantile del cui valore ci informa Agamben: “Contro questa saggezza puerile, che afferma che la felicità non è qualcosa che si possa meritare, la morale ha levato da sempre la sua obiezione” (Agamben, p. 20). La morale che oggi è incarnata nella Tecnica che impedisce anche a questa Magia di distendere le sue capacità di immaginare mondi. Agamben ricorda anche una frase enigmatica di Kafka che ha scritto che se si chiama la vita con il nome giusto, essa viene, perché “questa è l’essenza della magia, che non crea ma chiama” (p. 22) Per questo la magia è ricca di arcinomi. Ma “il nome segreto non è tanto la cifra dell’asservimento della cosa al potere del mago, quanto, piuttosto, il monogramma che sancisce la sua liberazione dal linguaggio” (ibidem) e quindi dalla presa della Tecnica.

Federico Campagna, Magia e tecnica, la ricostruzione della realtà, Tlon, Roma 2021, pp. 337, € 18.00

Altri testi citati

Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi. Torino 1977

Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle Paure della fine, Nottetempo, Milano 2017

Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005

Isabelle Stengers, Cosmopolitiche, Sossella, Roma 2005

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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