Brano tratto da “Cultura Profetica” di Federico Campagna

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Con il gentile permesso della casa editrice Tlon pubblichiamo un brano estratto dall’ultimo libro tradotto in italiano di Federico Campagna (in questo caso da Francesco Strocchi), un autore di cui abbiamo già parlato (qui e qui). Questo lavoro è in continuità con il precedente Magia e tecnica e, anche in questo caso, è stato per me così suggestivo da avermi ispirato due pezzi. La prima suggestione riguardava il concetto di tradizione, la seconda lo sguardo profetico. Entrambe sono contenute in nuce nel brano che pubblichiamo qua sotto. (Gilberto Pierazzuoli)

Estetica e annichilimento

Sei un nessuno mischiato con niente.[1]

Un problema tecnico può essere ignorato. Una breve interruzione può essere assorbita dentro il sistema. Un’autentica catastrofe invece divora ogni cosa, senza possibilità di rimedio.

I delicati strumenti elettronici odierni si consumano rapidamente e la loro manutenzione risulta difficile senza il supporto di sistemi ipercomplessi di estrazione e fornitura dei materiali. I loro contenuti digitali si deteriorano anche più velocemente, trascinando con sé nell’oblio la possibilità che rimanga anche solo un’eco del mondo da cui provenivano. Quando collasseranno le condizioni materiali che tengono attivi i loro hardware, gli archivi digitali ai quali la nostra civiltà ha assicurato il proprio lascito culturale ugualmente scompariranno. Non appena verranno privati della fornitura ininterrotta di metalli rari, di energia elettrica e di forza lavoro specializzata, i magazzini della cultura contemporanea diventeranno definitivamente inaccessibili e spariranno come se non fossero mai esistiti. Più fragile dei papiri del mondo antico, l’immensa ricchezza della cultura digitalizzata è appesa a un filo, dipendendo per la propria sopravvivenza dal protrarsi degli assetti tecnicoeconomici della civiltà attuale. Il tesoro accumulato da questa società ossessionata dai dati sarà la prima cosa a scomparire con la morte del suo corpo storico.

Non che i media più materiali offrano un rifugio migliore. I milioni di libri pubblicati nell’ultimo secolo non potranno contare sulla qualità della loro carta per sopravvivere più a lungo. Già oggi, molte edizioni tascabili vecchie di qualche decennio si disintegrano al tocco. E in ogni caso, per quanto ben fatti, i libri oggi prodotti seguiranno il destino tipico della loro specie: nella migliore delle ipotesi, il tasso di sopravvivenza della cultura libraria contemporanea sarà paragonabile alla spaventosa mortalità cui è andata incontro la cultura del mondo antico.[2]

Dopo la fine della modernità occidentalizzata, solo una microscopica frazione delle parole, delle immagini e dei suoni oggi accessibili su supporto elettronico o cartaceo sarà disponibile per essere riscoperta. Diversamente dalle civiltà monumentali dell’antichità, il mondo della modernità occidentalizzata lascerà dietro di sé ben poco anche per quanto riguarda l’eredità architettonica. Sotto il sistema capitalistico, il materiale impiegato per le costruzioni si è da tempo adattato agli standard più infimi in termini di qualità e di resistenza nel tempo. Lasciata senza manutenzione, la selva di condomini tipica delle città contemporanee è destinata a sbriciolarsi rapidamente in mucchi di cemento, plastica e ruggine. Anche le torri di vetro e acciaio – i surrogati dei monumenti oggi mancanti – non tarderanno a crollare in campi di schegge e monconi aguzzi.

Di questa civiltà resterà poco, oltre alle ferite che è riuscita a infliggere all’ambiente naturale. Le isole di plastica vaganti per gli oceani, i depositi di scorie nucleari e i deserti creati dall’essere umano saranno gli unici rapsodi che canteranno la vita e la metafisica di miliardi dei nostri contemporanei e a testimoniarne l’eredità. Una volta che i rifiuti e gli scarti della cultura materiale avranno assunto il ruolo di eredità culturale della nostra civiltà, la visione che tormentava Andy Warhol si materializzerà finalmente in tutta la sua cupezza.

Al prospettarsi di questo annichilimento, forse qualcuno proverà un certo senso di sollievo. «Al di là delle scoperte tecnologiche audaci e di qualche timido progresso etico» quel qualcuno potrebbe obiettare, «c’è forse qualcosa della narrazione metafisica di questo mondo che meriti di sopravvivere alla propria traiettoria storica?». Immenso davvero è stato il prezzo del modesto avanzamento verso la felicità ottenuto dalla nostra epoca, un costo ironicamente inefficiente per una società devota al principio di efficienza.

Altri ancora potrebbero obiettare rispondendo alla maniera di Miles Davis: «So what?». Quale sarebbe il problema, potrebbero ribattere, se gli abitanti di questa civiltà non lasceranno niente di utile alla creazione di un nuovo mondo? Ciascuno ha il diritto di «lasciare dietro di sé un deserto e di chiamarlo pace».[3] Nessun Dio barbuto dall’alto dei cieli scenderà mai a obiettare che si sarebbe dovuto fare diversamente.

Due obiezioni legittime. Ma il punto della questione ha poco a che fare con la giustezza dell’oblio che la modernità occidentalizzata si meriterebbe per le sue colpe, o con la rivendicazione di una libertà assoluta in assenza di punizioni divine. Il fatto di ridurre il nostro lascito all’inquinamento ambientale e all’estinzione di massa è un problema che dovrebbe riguardare chiunque sia legato, volente o nolente, alle fortune di questa civiltà. Non si tratta soltanto di un desiderio narcisistico di lasciarsi dietro qualcosa che sopravviva alla nostra morte. Sono le nostre vite stesse, già oggi, a risentire della prossimità di tale scenario.

Per poter cogliere appieno l’urgenza di questo problema, conviene adesso fermarsi un momento e fare un passo indietro, ripercorrendo le tracce che legano un lascito culturale alla visione metafisica del mondo da cui proviene. Ritorniamo quindi al modo in cui ogni singolo soggetto crea per sé il paesaggio del mondo traendolo fuori dal caos della pura esistenza. L’atto di crearsi un mondo in cui poter vivere, richiede che si adottino dei criteri metafisici per poter definire “questo” e “quello” come reale, e tutto il resto come non reale. La “realtà”, per come la conosciamo, è il prodotto di un’operazione di filtraggio della selvaggia valanga di percezioni che in ogni momento ci investe, e la traduzione di quel che è stato filtrato nella forma linguistica del mondo. Per ciascun soggetto, creare ininterrottamente il proprio “mondo”, con le sue “cose”, significa farlo emergere in forma di enciclopedia da un substrato in cui non esistono né il linguaggio né “cosa” alcuna. Ogni processo di worlding è un atto di creazione ex nihilo, dal nulla. Assomiglia al modo in cui una musica ha inizio: emerge rompendo il silenzio con un suono senza precedenti. Nel suo essere completamente primitiva, la canzone del mondo è l’atto estetico per eccellenza. Non possiede una logica o un’etica preesistenti a cui potersi richiamare – al contrario, è essa a crearle entrambe come conseguenza armonica della propria melodia. Prima che il sequitur della logica abbia avuto modo di operare, prima che la meta-etica[4] abbia potuto gettare le sue reti, ogni sistema di senso necessita di un atto di fondazione che sia assiomatico – e quindi estetico. Il processo attraverso cui ci dotiamo di un “mondo” e lo sosteniamo in ogni istante della nostra vita, non è altro che uno sforzo estetico. Come Euclide all’inizio del suo discorso sulla geometria negli Elementi, ciascuno di noi in ogni momento fonda lo svolgersi della propria narrazione cosmologica su decisioni prese d’arbitrio.[5]

L’atto di fondazione del mondo – il fiat lux che fa emergere un “mondo” dalla valanga di percezioni grezze – è dunque non solo il principale atto estetico, ma anche il più frequente.

Ripetuto a ogni istante, esso rimane sempre assiomatico nelle distinzioni che opera tra oggetti, soggetti, tempi e luoghi. Il processo di worlding porta il soggetto a una prossimità immediata con le sue percezioni (aisthetiké), permettendo loro di rimodellare il proprio paesaggio attraverso l’intuizione.

Se vivere dentro il “fenomeno” – tagliati fuori dall’inafferrabile “cosa in sé” – equivale ad una caduta dallo stato di grazia, allora l’estetica è un generoso demiurgo che viene in nostro soccorso. È l’attività estetica a fornirci la sostanza dei nostri giorni e a rendere possibili le narrazioni metafisiche con cui cerchiamo di organizzarli. E poiché l’estetica si esprime attraverso il worlding, essa nobilita il processo cosmogonico al rango di vero antenato di tutti gli strumenti possibili.[6] In quanto antenato, il worlding richiede di essere riconosciuto – e in quanto uno strumento, richiede agli utenti di rispettare le peculiarità del suo funzionamento e di seguirne le regole interne. Così come dobbiamo rispettare i requisiti della macchina della logica per poter procedere con le nostre argomentazioni intra-mondane, allo stesso modo la creazione continua della forma del “mondo” ci richiede di rispettare l’unico desiderio che appartiene alla macchina dell’estetica. Si tratta di un desiderio piuttosto semplice, perfettamente in linea con la richiesta espressa da qualunque altro sistema di senso: il conatus[7] dell’estetica è per la propria riproduzione. Come la logica richiede che il proprio svolgersi sia mantenuto limpido e senza interruzione, così l’estetica chiede ai propri utenti che la luce della sua creazione non si estingua allo spegnersi di ciascuna scintilla cosmogonica. Diversamente dai sistemi linguistici come la logica e l’etica, tuttavia, l’estetica non chiede per sé un orizzonte di proliferazione illimitata. Non chiede di essere ripetuta all’infinito: chiede solo un’altra occasione, dopo la fine di una storia, per iniziarne da capo una diversa; un’altra possibilità per il mondo di rinascere dalle ceneri della propria catastrofe.

Una vera catastrofe incombe su chi manca di esaudire quest’unica richiesta della macchina estetica. Il prezzo di questo fallimento è ben peggiore di quello minacciato dalla logica, il cui tradimento porta all’impossibilità di dare una direzione lineare ai propri pensieri e azioni. Quando la macchina estetica cessa di funzionare, non è il singolo soggetto a scomparire, ma il mondo che gli sta intorno. Una consapevolezza che non sia più in grado di sospendere l’incredulità di fronte alla propria proiezione del mondo, e che abbia perso l’abilità di estrarre un significato narrativo dalla propria intuizione, si ritrova prigioniera di un gioco trasformatosi in tortura. Si trova, letteralmente, all’Inferno.[8] La richiesta avanzata dell’estetica è davvero inevitabile, se non si vuole che il fugace brivido del nichilismo si trasformi in paralisi catatonica. Un mondo che stia per terminare la propria storia senza aver compiuto un atto di solidarietà verso il mondo che verrà, si è già condannato da solo a sfaldarsi immediatamente e diventare inabitabile.

Il pericolo di incorrere nell’ira apocalittica dell’estetica ci spinge verso una specifica comprensione di che cosa sia il “bene”. È in questo modo che la macchina dell’estetica crea la sua etica implicita, trasformando le proprie regole di funzionamento in altrettante direzioni esistenziali. C’è un termine, il cui significato si è perduto da tempo, che ben definisce l’etica dell’estetica: “nobiltà” (aristéia). Essere esteticamente nobili (aristói) non significa trasformare la propria vita in un’opera d’arte isolata. Come predicato dagli adepti della futuwwah, la “cavalleria spirituale” dello sciismo,[9] vivere nobilmente consiste nel favorire l’esplosione di creazioni “altre” insieme alle proprie: agire come combustibile del motore estetico, dal quale emergono tutti i mondi possibili.

Fintantoché una certa storia-mondo risuona con forza, la nobiltà estetica richiede che ogni soggetto che adotta quella narrazione impari a “vivere bene”. Durante tali periodi espansivi, la comparsa di nuove storie viene proiettata all’interno della cornice di un futuro profondo e ampio, dove infinite variazioni sono ancora possibili. Come gli utopisti dei primi secoli della modernità, i “nobili” all’interno di un mondo forte sono quanti si sforzano di tenere aperto il futuro e di esplorare i canali che lo connettono alle sue originali riserve di sogni.

A coloro che vivono durante il declino finale di una forma mondo, tuttavia, la nobiltà richiede qualcosa di molto più difficile. L’estetica domanda loro di imparare a “morire bene”: di apprendere l’arte, non di aprire il futuro, ma di chiuderlo.

Ora che il mondo della modernità occidentalizzata si sta muovendo verso il proprio esaurimento – dopo un periodo di rifiuto, mascherato dal ricorso al termine “contemporaneo” –[10] la sua storia è entrata in uno stadio in cui la sola aspirazione sensata è di riuscire a vedere oltre l’orizzonte della fine che incombe, in cerca di un segno di quello che verrà.

Occorre andar oltre la situazione luttuosa, questo comanda il lavoro del cordoglio: che se davvero questa situazione ci fa prigionieri, e la morte della persona cara non si trasforma in una nostra scelta della sua morte […] allora cominciamo a morire noi stessi con ciò che è morto e nella alternativa senza esito di rendere reversibile il tempo storico andiamo smarrendo la stessa potenza morale che, decidendo le alternative, rende possibile l’esserci-nel-mondo. Chi non oltrepassa una situazione critica ne resta prigioniero e ne subisce la tirannia: la presenza rimasta senza margine davanti alla situazione luttuosa perde la fluidità, la operabilità, la progettabilità del divenire mondano. […] I morti non fatti morire dai vivi tendono a tornare, magari in una maschera che li rende irriconoscibili e contaminando tutto il fronte delle situazioni possibili nella vita reale.[11]

Morire bene non significa semplicemente saper scendere dal palcoscenico del mondo con grazia e leggerezza: per quanto aiuti chi è in grado di farlo, questo non basta a offrire qualcosa di utile a quanti rimangono a confrontarsi con la necessità di fare worlding. Imparare a morire bene richiede l’abilità di elaborare il lutto per la propria morte e di riconoscere, oltre al velo del tempo e della morte, quel filo comune che scorre attraverso ogni forma di esistenza. Significa includere dentro la propria visione l’invisibile presenza di chi vive – o vivrà – in mondi e tempi-segmenti del tutto “altri”. Coloro che sono destinati a morire dedicano a questi sconosciuti “altri” la cura che è normalmente riservata ai propri congiunti. La nobiltà dei morituri risiede nel sapere chiudere la propria storia in modo tale da creare una sorta di trampolino per quelli che dovranno iniziare a narrare daccapo un mondo. L’importanza del saper morire bene ci è immediatamente evidente, oggi, nella sua dimensione ecologica – dove un minimo di senso di responsabilità ci richiede che l’equilibrio ambientale nella biosfera non sia né devastato né congelato, ma che venga lasciato in eredità in condizione tale da potersi continuare a trasformare. Lo stesso si applica, con uguale urgenza, anche all’eredità culturale che ci lasceremo alle spalle.

È in questo senso che si pone l’urgenza, per noi oggi, di creare nuove opere di cultura “tradizionale”. Come suggerisce il termine latino da cui deriva, tradere (“consegnare”), la tradizione ha a che fare più con il movimento che con l’archiviazione di pratiche passate. Il suo ambito è la costruzione di ponti di solidarietà tra le generazioni, sui quali persone di mondi diversi possano reciprocamente aiutarsi a fare esperienza della realtà come fosse la prima volta.[12] La tradizione sfiora il piano nudo della realtà, dal quale ogni soggetto estrae la forma del mondo e il ritmo di ogni istante, e sopra di esso stende una mano a chi dovrà creare dal nulla un mondo nuovo. Consegnare a posteri sconosciuti le ceneri della propria eredità, come un terreno fertile per la nascita di nuove storie, del tutto slegate e infedeli rispetto alle proprie: questo è il significato della tradizione e dell’arte di costruire rovine.

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  1.  Tu sì nuddu mmiscatu cu’ nenti, insulto Siciliano.
  2.  Solo una piccola percentuale di lavori letterari della antichità classica è sopravvissuta fino a nostri giorni. «Secondo Gerstinger (H. Gerstinger, Bestand und Überlieferung der Literaturwerke des griechisch-römischen Altertums, Graz, Kienreich, 1948, p. 10), circa 2000 autori greci erano conosciuti nome per nome prima della scoperta dei papiri. Ma soltanto il lavoro completo di appena 136 di loro (6,8%) e i frammenti di altri 127 autori (6,3%) si sono conservati. Gerstinger, tuttavia, conta solo gli autori il cui nome era conosciuto, non i lavori conosciuti titolo per titolo. La relazione numerica tra questi ultimi e i lavori conservati in tutto o in parte sarebbe di certo ulteriormente peggiore» (R. Blum, Kallimachos. The Alexandrian Library and the Origins of Bibliography, University of Wisconsin Press, Madison 1991, f. 34, p. 13).
  3.  «Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero: e là dove fanno il deserto, gli dànno il nome di pace» (P.C. Tacito, “Agricola”, 30, in Id., Opere, a cura di A. Arici, utet, Torino 1997, p. 516).
  4.  «[Metaetica] non riguarda ciò che le persone desiderano fare. Ma riguarda quello che stanno facendo quando parlano di ciò che desiderano fare», W. D. Hudson, Modern Moral Philosophy, Macmillan, London 1970, p. 1. Sulla distinzione tra etica e metaetica, si veda il breve resoconto di Alexander Miller: «L’etica normativa cerca di scoprire i principi generali che sottendono la morale pratica, e così facendo si scontra con i problemi morali pratici: principi generali diversi emettono verdetti diversi in casi particolari. [Al contrario, la metaetica] ha a che fare con le seguenti domande: 1) Significato: quale è la funzione semantica del discorso morale? La funzione del discorso morale è stabilire dei fatti o ha un altro ruolo nello stabilire non-fatti? 2) Metafisica: i fatti morali (o le proprietà) esistono? Se esistono, come sono? Sono identici o irriducibile ai fatti (o alle proprietà) o sono irriducibili ad sui generis? 3) Epistemologia: esiste una cosa come la conoscenza morale? Come riconosciamo se i nostri giudizi morali sono veri o falsi? 4) Fenomenologia: come sono rappresentate le qualità morali nell’esperienza di un agente che esprime un giudizio morale? Sembrano tali qualità essere “là fuori” nel mondo? 5) Psicologia Morale: che cosa possiamo dire dello stato motivazionale di una persona che esprime un giudizio morale ed è motivata ad agire secondo quanto quel giudizio prescrive?; 6) Obiettività: può un giudizio morale essere corretto o scorretto? Possiamo lavorare con l’obiettivo di trovare la verità morale?» (A. Miller, Contemporary Metaethics. An Introduction, Polity, Cambridge 2017, p. 2).
  5.  Un’improvvisa e brutale intuizione di tale arbitrarietà e dell’origine assiomatica del mondo avviene spesso durante le crisi di ansia e gli attacchi di panico, così come nei momenti di noia inattiva, come discusso da Heidegger nella sua serie di lezioni del 1929-1930 intitolate Concetti fondamentali della metafisica (Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, a cura di C. Angelino, tr. di. P. Coriando, Il Melangolo, Genova 1992).
  6.  Uso qui il termine “strumento” nel senso dato da Georges Simondon alla tecnologia come mezzo di individuazione; si veda G. Simondon, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, a cura di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli 2020; e Id., L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano 2020.
  7.  Inteso nel senso dell’innato desiderio che ogni agente ha di perpetuare il proprio essere. «Per quanto possa, ogni cosa si sforza (conatur) di perseverare nel proprio esistere» (B. Spinoza, Etica, iii, prop. 6, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma 2009, p. 129).
  8.  «[Giulio chiese al suo Maestro:] ma l’Anima non lascia il corpo quando muore, e va in Paradiso o all’Inferno? No, rispose il venerabile Teosforo. […] L’Anima ha già dentro di sé Paradiso e Inferno. […] Allora Giulio chiese al Maestro: Questo è difficile da capire. Non va dunque in Paradiso o all’Inferno, come un uomo entra in una Casa, non entra forse in un altro Mondo? Il Maestro parlò e disse: No, non è affatto possibile entrarvi; perché Paradiso e Inferno sono dovunque, e in universale coesistenza» (J. Boehme, “Heaven and Hell”, in Id., The way to Christ, Paulist Press, New York 1977, p. 182).
  9.  Una discussione sulla futuwwah (cavalleria spirituale) nello sciismo, in H. Corbin, Storia della filosofia islamica, op. cit., pp. 297-298 e 318-319; H. Corbin, En islam iranien: Aspects spirituels et philosophiques, vol. 3: Les fidèles d’amour. Shî’isme et soufisme, Gallimard, Paris 1991; e P. Laude, Pathways to an Inner Islam, suny, Albany, ny 2010, pp. 156-158. Una nozione simile alla cavalleria spirituale anima anche il lavoro di autori moderni come R. Daumal, Il Monte Analogo, op. cit.; H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, tr. di E. Pocar, Adelphi, Milano 2001; E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, tr. di A. Pellegrini, Guanda, Milano 2022, tra gli altri.
  10.  In un tempo “contemporaneo”, la morte è negata dal congelarsi del tempo dentro un “adesso” contemporaneo che non passa. L’eternità è negata e la storia è cristallizzata in un momento in cui ogni cosa passa, ma che in se stesso non passa – sebbene resti inserito dentro il movimento della storia.
  11.  E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019, pp. 263-264.
  12.  Un lavoro importante – anche se non privo di problemi – sulla nozione di tradizione è stato sviluppato nel ventesimo secolo nell’ambiente dei pensatori della Filosofia Perenne. Si veda in particolare E. Zolla, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 1998; e R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, tr. di P. Nutrizio, Adelphi, Milano 1989. Seguendo l’esempio degli organizzatori del summit di Eranos, che sempre evitarono il suo lavoro e le sue idee, a mia volta preferisco non includere nel movimento perennialista il teorico fascista Julius Evola. Sulla storia del summit perennialista di Eranos e la controversia con Evola, si veda H.T. Hakl, Eranos. An Alternative Intellectual History of the Twentieth Century, tr. di C. McIntosh, Routledge, Abingdon 2013.

Federico Campagna è filosofo e scrittore.
Ha trascorso più di vent’anni a Milano, dove è stato attivo nelle reti anarchiche/autonomiste e ha co-fondato il collettivo di poesia di strada Eveline. Nel 2007 si trasferisce a Londra, dove vive. Nel 2009 ha iniziato una collaborazione a lungo termine con il filosofo dell’Autonomia italiana Franco Berardi ‘Bifo’. Nello stesso anno ha co-fondato la (ora defunta) piattaforma multilingue per la teoria critica attraverso l’Europa.
Gli ultimi libri di Federico sono Prophetic Culture: Recreation for Adolescents (Bloomsbury: 2021), Technic and Magic: the Reconstruction of Reality (Bloomsbury, 2018), and The Last Night (Zero Books, 2013)
Federico ha un dottorato di ricerca presso il Royal College of Art di Londra, con una tesi su Metaphysics and Metaethics in the Design of Strategy Video Games
 (disponibile qui ); ha un Master e una Laurea in Economia e Management delle Arti presso l’Università Bocconi di Milano e un Master in Studi Culturali presso la Goldsmiths University di Londra. Lavora come docente e tutor nel MA NonLinear Narrative presso KABK (Koninklijke Academie van Beeldende Kunsten), Den Haag , Paesi Bassi, e come direttore del dipartimento per i diritti di Verso Books.
È l’ospite del podcast Overmorrow’s Library , prodotto dal Centre d’Art Contemporain Genève.
È il philosopher in residence al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli (Torino) per l’anno 2022.

Federico Campagna, Cultura profetica. Messaggi per i mondi a venire, Tlon, Roma 2023

Le immagini sono state generate da una Intelligenza Artificiale Text to Imagine su indicazioni verbali di Gilberto Pierazzuoli

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