Estratto dalla postfazione di Making Kin. Fare parentele non popolazioni, a cura di Adele Clarke e Donna Haraway

Con il gentile permesso della casa editrice pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Making Kin. Fare parentele non popolazioni, a cura di Adele Clarke e Donna Haraway, DeriveApprodi 2022.

Traduzione italiana di Angela Balzano, Antonia Anna Ferrante, Federica Timeto

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Postfazione. Le parole delle parentele: dal tradurre al fare

Angela Balzano, Antonia Anna Ferrante, Federica Timeto

Foto di Roberto Melotti www.robertomelotti.net

In Making Kin. Fare parentele non popolazioni l’invito condiviso a fare giustizia multispecie contro ogni sfruttamento suprematista emerge da sette tastiere differenti, e dunque da sette differenti posizionamenti personali e politici. Clarke, Haraway, Benjamin, Murphy, TallBear, Yu-Ling Huang e Chia-Ling Wu insieme, ma con argomentazioni e collocazioni diverse, sostengono che ai tempi del Capitalocene occorre ripensare la riproduzione della specie sapiens in relazione alla rigenerazione della Terra tutta, allo scopo di favorire il diffondersi di parentele transpecie, degeneri, crossrazziali.

Anche il nostro testo si manifesta come prodotto di una molteplicità di prospettive diverse e posizionamenti eterogenei. Nel prendere forma non sembra emergere un desiderio di omogeneità, tutt’altro; forse è importante raccontare che anche la sua traduzione nasce dal gesto femminista di riconoscersi reciprocamente nelle differenze, affrontare la complessità del mondo e sfuggire a soluzioni semplici e risposte giuste. Il libro nasce come polifonia e la sua traduzione emerge da posizionamenti e prospettive diverse che rendono possibile affrontare insieme e nelle differenze la questione in termini ecologici e, dunque, di giustizia sociale. Tradurre a più mani, più voci, è proprio il lavoro di non ridurre a uno, all’omogeneità, ma far proliferare ulteriormente la possibilità di rileggere i testi, trovare altri contesti come condizione di possibilità per la discussione: aprire spazi, di parola e di pratica.

Aggiungiamo questa postfazione alle traduzioni per accogliere e far risuonare l’invito a fare parentele, componendola a nostra volta da collocazioni differenti ma sempre in transito tra studi e assemblee eco/cyborg/transfemministe, antirazziste e antispeciste. Ogni tentativo di rimediare ai guai provocati dalla Sesta estinzione di massa e dalla Grande accelerazione, infatti, senza forti dosi di teorie e pratiche eco/cyborg/ transfemministe, antirazziste e antispeciste, corre il rischio di far pagare il prezzo di crisi climatiche ed ecosistemiche proprio a chi ha meno contribuito all’intensificarsi dei guai. Spieghiamoci meglio. La Sesta estinzione di massa e la Grande accelerazione, il Capitalocene e i suoi annessi guai non sono ascrivibili in egual modo a tutte le vite sul pianeta. Sono forse più imputabili agli umani che sono per primi stati sulla Luna e che ora, alle prese con il countdown dell’apocalisse da loro stessi innescato, guardano con entusiasmo alla terraformazione di Marte: i bianchi occidentali. E se oggi anche altri paesi adottano lo stesso sistema economico della crescita senza limiti è perché i colonizzatori lo hanno imposto loro con violenza, riconvertendone le economie a mezzo di guerre e indebitamenti. Per questo rifiutiamo, proprio come le autrici in volume, la presunzione scientifica universalizzante di chi propone la riduzione in astratto della popolazione come principale misura di contenimento del riscaldamento globale. Neppure ci fidiamo delle politiche di controllo della popolazione della Banca Mondiale. Vediamo la problematicità di appelli scritti e diffusi dallo stesso Occidente in cui avanza il neofondamentalismo vitalista di matrice fascista che, mentre proclama la decrescita della popolazione altra, invita la propria a riprodursi fino a negare l’accesso ad aborto e contraccezione.

 

Possiamo prendere a esempio l’Italia e la sua retorica pro-natalista e apocalittica che sempre annuncia la «fine del futuro» appellandosi a un presunto calo delle nascite e metterla in relazione alle politiche razziste di respingimento e detenzione delle persone migranti. Sia dal Piano nazionale di fertilità voluto dal Ministero della salute del governo Renzi nel 2016 sia dal discorso tenuto da Draghi agli Stati generali della natalità nel maggio del 2021, si evince chiaramente che l’appello dei governi è quello a riprodurre su base fenotipica la nazione bianca e che questo appello è rivolto in primo luogo alle donne eterosessuali «ammesse cittadine», a loro volta supposte naturalmente devote al ruolo di madri e custodi della famiglia. In queste esortazioni pro-nataliste di governo delle popolazioni non c’è in corso una mistificazione del calo demografico, il problema è «statisticamente» inventato. Si può parlare di «calo delle nascite» solo se i dati vengono presentati come isolati e circoscritti ai confini dello stato-na- zione, o se anche considerandoli globalmente li si immobilizza in una temporalità che non è quella della geologia, che sarebbe il caso di prendere in considerazione, invece, quando l’obiettivo è comprendere l’impatto che abbiamo sulla Terra. Al contempo si può parlare di «fine della nazione» solo se si intende respingere le persone migranti. E in effetti, l’obiettivo di governi come quello italiano non è accogliere né porre un limite alla devastazione causata dalla crescita, garantendo così futuri altri, bensì garantire un futuro solo alla propria popolazione, come chiaramente si evince dal discorso tenuto da Draghi agli Stati generali della natalità: «un’Italia senza figli è un’Italia che non ha posto per il futuro, è un’Italia che lentamente finisce di esistere».

Non sembrano dunque lontani i discorsi e le politiche pro-nataliste di paesi quali Taiwan, Corea del Sud o Giappone, tutti in qualche modo impegnati a ostacolare l’accesso all’aborto e incentivare le nascite (si veda il saggio di Yu-Ling Huang e Chia-Ling Wu). Muovendoci tra questi discorsi contraddittori ma pur sempre accomunati dalla tendenza universalizzante – da un lato proliferano inviti alla decrescita della popolazione, dall’altro gli appelli alla crescita – intendiamo qui adottare una postura decoloniale, perché universalizzare lo slogan Fare parentele, non popolazioni non equivale solo a banalizzarlo, c’è il rischio concreto che una sua universalizzazione invisibilizzi/sacrifichi vite e desideri umani e altri dall’umano. Non intendiamo tuttavia neppure negare la valenza dei dati riportati in questo volume, sin dall’incipit di Clarke: nel 1900 la popolazione mondiale era di 1 miliardo e 600 milioni di persone, oggi si aggira intorno ai 7 miliardi e 600 milioni, forse supererà gli 11 miliardi entro il 2100. Bisogna tenere in seria considerazione il fatto che la popolazione umana è quadruplicata in poco più di un secolo, chiedersi come e dove è accaduto, in che misura altri fattori abbiano influito, come l’aumento della longevità o le politiche socio-economiche neofondamentaliste/ nazionaliste, ad esempio. Immergere questi dati nell’oceano delle analisi eco/cyborg/transfemministe, ecco cosa bisogna fare: esattamente il tentativo del volume che avete tra le mani. Soprattutto perché non è possibile insistere sul groviglio «riproduzione umana-rigenerazione del pianeta» senza insistere sui desideri, senza abbracciare l’irriducibilità dell’autodeterminazione dei corpi.

Se la questione della sessualità e della riproduzione è per molte il cuore della politica e della pratica femminista, per molte femministe nere questo è stato anche un terreno di grande invisibilizzazione. Il femminismo bianco, soprattutto quello delle donne ricche, ha legittimamente messo avanti la questione dell’aborto, lasciando poco o nessuno spazio per altre donne che hanno subito la sterilizzazione, i cui corpi sono stati il terreno della sperimentazione non consensuale di tecnologie contraccettive, o che semplicemente per reddito non hanno potuto accedere alla riproduzione. Oggi chi produce pensiero e pratiche critiche sulla violenza ambientale è necessariamente interpellat* a interrogare le condizioni in cui quella violenza è parte di una struttura più ampia di ingiustizia sociale. Questo implica anche affrontare, davanti alla Grande accelerazione, l’enorme sfida di allargare i confini della rivendicazione di una giustizia riproduttiva, in una prospettiva di lotta per una più ampia giustizia ambientale e sociale; oppure si renderà il campo della lotta per una riproduzione libera e autodeterminata un terreno ancora più sterile di invisibilizzazione e trionfo del suprematismo bianco e specista nello spazio del femminismo. È forse per questo che Michelle Murphy inizia la sua riflessione per una giustizia riproduttiva redistributiva dall’esigenza di fare spazio.

I diversi posizionamenti trovano un terreno comune intorno alla critica del concetto di popolazione, o meglio di un rigido determinismo economico che nel produrre valore produce scarto, anche quando per scarto si intende vite. In questo modo appare ancora più chiaro il rapporto esistente tra strutture material-semiotiche e logiche della violenza ambientale e sociale. Per Michelle Murphy, sottrarre la questione della riproduzione dal computo della gestione manageriale significa prima di tutto interrompere qualunque forma di complicità con il regime di estrazione capitalista coloniale. La questione viene invece posta in termini di abilitazione alla vita, in cui gli effetti metabolici della violenza strutturale dell’inquinamento segnano fino al livello molecolare la possibilità di vivere vite degne di esser vissute. Murphy si situa e sta raccontando dell’esproprio di terre ai popoli indigeni dell’America settentrionale, e di come l’inquinamento abbia avvelenato e segnato per sempre con tumori e sterilità il destino di quei popoli. Un destino che purtroppo è noto a numerosi altri popoli che subiscono l’esproprio coloniale e colonialista e i cui effetti sono noti anche a noi terrone.

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Insieme, le scritture di Making Kin compongono un discorso contro le ideologie del genere, della specie e della razza che ruotano sul cardine della ri-produzione normativa: quella della vita propria e proprietaria, maggioritaria (umana, eterosessuale, bianca), che si perpetua e sostiene attraverso la vita appropriata, all’occorrenza definita sia solo-natura che contro-natura. Making Kin ci porta fuori dai territori della ri-produzione, verso alleanze non familistiche e non speciste, non sanguinose perché non necessariamente di sangue. Fate parentele non popolazioni è un invito a ridimensionare la genetica, per scongiurare i genocidi di cui è costellata questa strada.

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Crediamo che questo sia tutto da fare, con le parole e i corpi, ed è per questo che abbiamo scelto di mantenere questo termine per tradurre making. Non c’è nulla di naturale o di «genetico», in questo fare: fare non è un destino o un’eredità, è una pratica che richiede tempo, creatività, condivisione, attenzione. Il fare di cui si parla qui, d’altra parte, è sostanzialmente antiproduttivo perché non ha come obiettivo la creazione di unità (neppure umane), quanto piuttosto di processi che sostengono la vita in comune, che possono anche contemplare nuove vite purché queste contribuiscano a stringere/ rafforzare/ nutrire le connessioni vitali esistenti, attaccamento dopo attaccamento.

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Proviamo a portare termini ideologicamente connotati e rischiosi come «demografia» e «popolazione» a fare un giro nel ventre del mostro, senza necessariamente smettere di servircene. Porre fine alla gestione, piuttosto che alla gestazione, è l’invito di Making Kin. La governance della vita, infatti, non è politica ma mera gestione, una strategia per impedire di immischiarsi, di mescolarsi, di ficcare il naso nelle domande da formulare lasciandoci a dibattere soluzioni per domande che non ci appartengono né abbiamo mai contribuito a formulare. Poiché il capitalismo non ama il disturbo, occorre intervenire in modo inappropriato, senza tirarsi fuori, anzi creando ancora più grovigli. Per diventare respons-abili, capaci di fare risposte, dobbiamo prendere posizione, ispessire il presente e restare situate, nella turbolenza di un tempo che si arrotola e srotola senza la linearità dell’Antropocene maggioritario e suprematista, e che richiede di essere abitato in tutta la sua complessità, sempre – anche se mai equamente – condivisa.

Se un certo umano dell’Antropocene lavora per separazione, definendo confini, sfruttando risorse, separando nature, attribuendo diritti, Making Kin compie un lavoro congiuntivo, material-semiotico e naturalculturale, che mostra le connessioni che creano mondi e le articolazioni che intessono differenze.

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Il terreno della riproduzione è un terreno scivoloso perché è sovraccarico del progetto eugenetico di futuri razziali. Di un futuro anteriore probabilmente, che è scritto strettamente in contatto con il passato-mai-passato della storia coloniale. Dobbiamo dunque affrontare una discussione complessa che metta in relazione concetti che sono frutto di posizionamenti e necessità molto differenti, abbandonando le strutture del colonialismo che ancora sostengono e strutturano il nostro modo di pensare il sociale. Per una politica dei futuri diversamente distribuita, dunque, è necessaria una svolta queer. La svolta queer che ci racconta Kim TallBear non consiste nell’assimilare le persone non eterosessuali o cisgender nelle istituzioni patriarcali o colonialiste. Al contrario, queerizzare significa fare uno sforzo pre-visivo, immaginativo, di vedere altri modi di fare mondi, altre infrastrutture per la cura reciproca. Le reti di intimità non monogame, che hanno una storia di violenta obliterazione presso i popoli nativi, diventano nuove pratiche di sperimentazione di riproduzione non biologica, ma soprattutto di sciopero dalla riproduzione della nazione. Le parentele diventano in questo senso radicali, intese come modo di ridistribuire – ancora una volta torna questo termine – materialmente il lavoro riproduttivo. Fare parentele diventa anche un altro modo di essere parte del tutto e un modo radicalmente diverso di prender parte alle politiche della conoscenza attraverso «altri modi di inquadrare e nominare relazioni più diffuse, sostenibili, intime».

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Si potrebbe scendere più nel dettaglio e scrivere una pragmatica compostista, abbozzare un’etica pratica transpecie e transfemminista che ci permetta di sopravvivere con (non vivere su) l’alterità, un sostrato comune che ci esorti a trovare risposte agli stringenti interrogativi posti da Clarke in apertura al volume. Ci auguriamo che questa pragmatica compostista transfemminista emerga da percorsi condivisi e intersezionali perché anche se scrivere una postfazione in tre può apparire simile al partecipare a un’assemblea, tutt’altra è la potenza che verrebbe dall’ibridazione delle attuali lotte ecologiste, femministe, antispeciste e antirazziste. Da traduttrici modestamente parziali quali siamo, ci limitiamo a segnalare che i saggi qui raccolti già ci regalano preziosi spunti in questa e altre direzioni.