La smaterializzazione della realtà (seconda parte)

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*Per un’ecologia anticapitalista del digitale – parte #13.2

Nella sua totalità l’avvenire è propaganda
Josif Brodskij

Per Hannah Arendt, l’esperienza della realtà e delle cose reali che la popolano è in funzione dell’uso e del consumo delle cose stesse. La differenza tra cose da consumare rispetto a quelle da usare soltanto, non è di poco conto. “[Le] cose fatte per il consumo incessante appaiono e scompaiono in un ambiente di cose che non sono consumate ma usate e, alle quali, usandole, ci adusiamo e abituiamo. In tal modo, queste cose danno origine alla familiarità del mondo, ai suoi costumi e alle modalità abituali dei rapporti tra uomini e cose come anche tra uomini e uomini: Ciò che i beni di consumo sono per la vita dell’uomo, gli oggetti d’uso sono per il suo mondo” (Arendt, p. 67). Ma c’è qualcosa di ancora più effimero e sono i “prodotti” dell’azione del discorso la cui realtà dipende dalla pluralità umana, dalla presenza di altri umani che, nel sentirli, ne testimoniano l’esistenza, prosegue Arendt. Non discostandosi così dalla concezione heideggeriana (vedi prima parte) per la quale l’esistenza delle cose, in prima istanza, dipende dalla loro usabilità. Allora, la cosalità effettiva, e quindi permanente delle cose, si ottiene per quanto riguarda la produzione discorsiva e del pensiero, nella loro conservazione, nella memoria orale, o su altri supporti esterni che le rendono disponibili per una successiva usabilità. Già qui la differenza tra memoria orale e quella su supporti diversi, rimanda a due ambienti, a due punti di arrivo abbastanza diversi. La memoria orale è più elastica, meno strutturalmente definita, perché è profondamente segnata dalla circostanza, dalla contingenza, dal dialogo, dall’atto linguistico. Mantiene un carattere in divenire continuamente modificato dall’uso. Soltanto la sua iterazione formalmente identica le permetterebbe di divenire abitudine e con essa sostanziarsi.

L’abitudine è una forma di economia speculativa. Ci sono cose che si fanno per abitudine e che non occorrono dell’attenzione e della presenza costante della supervisione della coscienza e che ci sgravano da una attenzione continua e minuziosa. Si potrebbe perciò pensare che le culture orali siano povere di mondo, in realtà sono culture che continuano a dialogare con le cose, non fissandole in un mondo dato una volta per tutte. Sono aperte alla impertinenza delle cose fuori dal loro uso predeterminato. Sono più propense al gioco e alla sovranità del dispendio, dell’uso inutilitario.

Nel mondo analogico le cose interagiscono tra di loro per mezzo di trasduttori e comunicano per mezzo di interfacce chimiche e magnetoelettriche. Un microfono è un trasduttore analogico. Le onde sonore vanno a colpire una membrana che vibra analogicamente alla forma ed intensità delle onde, sollecitando un sensore piezoelettrico che produrrà differenze di potenziali proporzionali alle sollecitazioni. Si è cioè trasdotto un fenomeno sonoro in uno elettrico. Questo avviene anche nel mondo digitale, soltanto è che l’informazione non si basa qui su differenze di potenziali ma su campionamenti discreti che contengono serie di zero e di uno. Ma gli algoritmi tentano di fare di più. Nel mondo digitale la trasduzione si basa, non soltanto sulle interazioni fisiche che interessano le cose, ma anche sulla modellizzazione presunta dei fenomeni se non, addirittura sulla causazione presunta dall’osservazione di correlazioni che soltanto l’algoritmo vede. In un certo senso si trasducono anche delle presunzioni.

Una definizione possibile di algoritmo potrebbe essere quella di una forma di ragione esteriorizzata. Una memoria tecnica. La ragione algoritmica è una sistemazione mnemonica di una causalità individuata. È una sistematizzazione di un evento. Un’azione che elimina l’accidentalità degli accidenti, e quella della contingenza. Per questo le operazioni di data mining che estraggono senso dalle correlazioni sono operazioni di tipo cognitivo. O meglio, la presunzione correlativa si fa ergere a legge di natura e la si sistematizza in una conoscenza. In questo modo i punti di riferimento sui quali poter costruire un’economia comportamentale basata sulle abitudini, si sgancia sempre di più dai fatti contingenti. Si induce una forma generalizzata di distrazione. La distrazione è quella che ci si può permettere, quando svolgiamo compiti abitudinari che abbiamo costruito segnando i punti nei quali l’attenzione deve ritornare ad essere presente. Quando guidiamo un’auto, la nostra attenzione non occorre che sia sempre concentrata sui comandi dei muscoli motori che regolano il freno e l’acceleratore, si deve però risvegliare (tornare alla coscienza) in prossimità di un incrocio, all’uscita di un garage, insomma in tutti quei punti critici che abbiamo memorizzato per permetterci di poterla allentare in tutti gli altri.

Quando però la distrazione è quella indotta dal fatto che il processo è svolto in termini imperscrutabili dagli algoritmi, non possiamo tenere tutto sotto attenzione e non possiamo nemmeno fissare i punti di attenzione. Le abitudini possibili sono allora quelle indotte dalle macchine algoritmiche. La mancanza di punti critici che allertano la coscienza, porta allora a una sensazione di spaesamento generalizzata, alla percezione di una mancanza di mondo. Ma accettare le abitudini indotte dalle macchine significa fare a meno della coscienza, della sua attivazione utile per superare i punti critici e piombare così in una apatia acritica dove, al limite, le uniche azioni possibili sono sconsiderate. La coscienza è qui un’esplorazione della nostra attività che la economizza creando punti di attenzione e tratti abitudinari. Cosa sono allora i momenti di distrazione quando le macchine – questo tipo di macchine – interagiscono con i nostri comportamenti? Non certo le cose che attivano la coscienza. La spinta è verso un uso compulsivo delle cose. Una patologia autistica indotta dalla full immersion nell’universo digitale.

Per Luhmann c’è differenza tra informazione e conoscenza. Quest’ultima si ha quando l’informazione viene memorizzata e resa disponibile successivamente. In questo caso l’informazione cessa di essere tale e si trasforma in conoscenza. Perde il suo essere accidentale e/ o di manifestarsi come sorpresa. «Perché l’informazione non è un’entità stabile, trasportabile, immagazzinabile, ma un evento che perde il suo carattere di informazione quando viene aggiornato» (ivi). L’informazione è la differenza tra l’aspettato e ciò che realmente accade; senza sorpresa non ci sarebbe informazione. Un carattere dell’informazione è la sua urgenza. L’informazione anticipa e determina la decisione. Le informazioni non devono così essere per forza corrette, basta che siano plausibili. Non c’è tempo per verificarle. Luhmann parla di un lato oscuro dell’informazione ed è quando l’informazione invece di informare oscura o svia (détourne) il senso. L’informazione rispetto al tempo è un evento. È legata al momento in cui appare, in cui si rende manifesta. Solo il senso permane, ma il senso non è l’informazione. Il rapporto tra informazione e senso sovrasta, influenza, determina la decisione. La decisione dipende dalla conversione dell’informazione in conoscenza. Già qui la decisione delle IA (Intelligenze Artificiali) basate su “evidenze” statistiche, si mostra in tutta la sua arbitrarietà[1]. Ma anche il modo di conservare l’informazione è totalmente diverso. Nell’universo digitale l’informazione è qualcosa che non ha a che fare con la sorpresa, ma nemmeno con la conoscenza che si ha ogni volta si incameri una informazione. L’informazione memorizzata rimane puro accidente che si ripresenta ogni volta che lo utilizziamo. È un dato. «Se l’informazione può nascere solo come una sorpresa, ne consegue che non può essere trasferita dall’ambiente a un sistema. Deve essere prodotta all’interno del sistema, perché presuppone aspettative specifiche del sistema attraverso le quali la sorpresa diventa visibile» (ivi). In questo senso i sistemi di elaborazione delle operazioni sono sistemi chiusi. E questa chiusura limita la loro capacità di interagire in maniera attiva, con cognizione di causa, nei confronti dell’ambiente, del fuori. Solo un approccio di tipo retroattivo può permettere al sistema di fare uso proficuo di nuove informazioni da immettere nel sistema. Ma la ricorsività tenderà a una interpretazione sempre più normata delle informazioni che la alimentano, sminuendone il senso. Ci sarà un momento per il quale l’immissione di nuovi dati sarà deleterio invece che proficuo. È da qui che nasce l’idiosincrasia delle IA per le novità.

Luhmann scriveva a proposito della “società dell’informazione” nel 1996 quando le tecnologie di elaborazione dei big data non erano nemmeno all’orizzonte, ma le sue conclusioni non sono obsolete visto che le tecnologie attuali esasperano le problematiche sottese a quei suoi ragionamenti. Egli descrive così l’informazione:

La loro cosmologia è una cosmologia non dell’essere ma della contingenza. Questo a sua volta porta a un predominio della dimensione temporale nella comunicazione sociale. In questo senso, informazione e decisione convergono ed entrambe creano l’impressione che la società moderna sia un sistema di incertezza auto generata. Allora resta solo la consolazione che si può almeno prendere decisioni ed essere informati sulle decisioni. È fin troppo facile capire che la risposta a questo è un appello a principi e regole “etiche”. Tuttavia, questa evasione non porta a un altro mondo migliore, ma solo alla domanda su quali informazioni sono disponibili e da chi vengono prese le decisioni su questi principi e regole (ivi, corsivo mio).

Le forme attuali di IA si sbarazzano del peso dell’esistenza umana perseguendo forme di ottimizzazione della vita, eliminando il futuro quale fonte di preoccupazione debellando la contingenza del futuro. Un futuro prevedibile in forma di presente ottimizzato non ci dovrebbe preoccupare più, se non fosse che questo presente può essere ottimizzato soltanto nel senso di una sua stabilizzazione, di una sua indiscutibilità. Rafforzare questo reale è un obiettivo che può interessare soltanto coloro che in questo reale trovano i loro guadagni e non certamente chi da questo reale è discriminato e sottomesso. Il risultato è allora il perfetto contrario: non si può fantasticare sul futuro e questo equivale a una sua sottrazione. Le macchine cognitive ci tolgono il conatus. Quella capacità che nelle congiunture esplica la potenza di cambiamento e di godimento delle alleanze dei corpi. Questo fa vacillare anche il presente nel quale subiamo l’informazione, incapaci di usarla per prendere decisioni, incapaci di quella memorizzazione cognitiva attraverso la quale esperire la nostra capacità di agency e di relazionarci con l’altro. Le informazioni sono avulse dal tempo, non sono contingenti, non sono allineate nella time line del racconto. Le informazioni rese computabili sono sommabili e contabili ma non narrabili. L’eccesso di informazione mette a tacere le narrazioni. E le narrazioni, le storie sono elementi di coesione sociale e di proiezione sociale. Reintroducono il tempo e la contingenza. Generano senso. Per assurdo, danno materialità alle cose. Il senso riporta le cose alla loro manipolabilità (vedi sopra). Anche a quella inutilitaria del gioco. Il senso è infatti oltre lo scopo.

Le IA producono convenienza, la convenienza ha a che fare col decoro: senza decoro si è sconvenienti. La convenienza è osservanza della morale e del pudore. La convenienza è una cosa che è richiesta. Si tace per convenienza. Le convenienze sono utili, vantaggiose e di tornaconto. La convenienza è economica. Perseguire la convenienza presuppone la sorveglianza. La convenienza è prescrittiva. Per questo un obiettivo delle “macchine” è il condizionamento. L’informazione stessa è una forma di sorveglianza. L’eccesso di informazione è rumore. L’eccesso di informazione deforma. L’informazione digitale è sganciata dai fatti e rimanda a un mondo post-fattuale dove è impossibile mettere insieme dei criteri di veridizione. Ecco di nuovo le Fake News. Il caos indistinto dell’accumulo dei dati, rende le condensazioni nelle fake più efficienti. In un mondo post fattuale, le cose stesse divengono evanescenti, inconsistenti. Non è però la loro virtualizzazione ma la loro resistenza alla manipolazione, il loro non essere alla mano. Le cose non offrono così appigli e la realtà stessa comincia a mancare.

Ma non volatizzano soltanto le cose. Esse potrebbero restare presenti in una loro gravità ottusa, ma quel che manca è anche la stessa pertinenza temporale. Senza di essa mancano le strutture temporali alle quali appartengono anche i riti, dice Byung-Chul Han (p.13). La ritualità sociale, il riferimento a una cosmologia che spieghi e accolga la realtà, lega gli umani tra loro e alla terra, a quella realtà nella quale essi possiedono gli strumenti per indagarla, per descriverla, per viverla. La mancanza di questo rende instabile la vita. Tutto si fa precario, senza senso, inducendo forme sempre più diffuse di depressione e attacchi di panico. La contemporaneità ci restituisce una umanità malata, sbandata dove è possibile condividere soltanto lo sballo. I centri storici delle metropoli offrono così quelle piazze assenti nelle periferie dalle quali si dipartono frotte di giovani alcool muniti, rendendo inutile qualsiasi politica di contenimento della movida che si è così trasformata nel suo contrario: in una stanzialità che accoglie una trasgressione senza interlocutori, rivolta al nulla. Una fuga sul posto.

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Riferimenti bibliografici:

Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994
Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022
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  1. Insisto qui sul fatto che non parlo in termini assoluti, ma di quella tecnologia in uso in questo momento che si basa sull’elaborazione e raccolta dei dati alla base di molte IA attuali. Quella dietro le traduzioni automatiche, quella di cui parlava Anderson a proposito della fine della teoria.

(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale” uscito a puntate proprio su questo spazio e poi raccolto nel libro “Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale” per “ombre corte”. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.

Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sestaQui la 7.1Qui la 7.2Qui la 8.1 Qui la 8.2, Qui la 9Qui la 10.1Qui la 10.2Qui la 10.3, Qui la 11 Qui la 12, Qui la 13.1

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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