La memoria e la ricodifica della realtà in tre film a tema gastronomico

L’enogastronomia è uno dei piani dei reality show che ha sempre una buona audience. L’attuale sviluppo delle piattaforme digitali, unito al lockdown che la pandemia ha provocato in tutto il mondo, ha fatto sì che la produzione cinematografica si sia orientata verso queste piattaforme, facendo sempre più convergere cinema e televisione, con il pericolo che il grande schermo scompaia del tutto. A parte questo problema, si assiste al fatto che i temi e i canoni televisivi inquinano sempre di più la produzione. Si ha così che la commedia romantica con happy end, l’altro tema sempre verde, in commistione con il tema enogastronomico abbia portato al fatto che tra aprile e maggio siano usciti su Netflix due film particolarmente compromessi con questi stilemi, che hanno avuto indici di ascolto molto alti.

Si tratta di “L’abbinamento perfetto” di Stuart McDonald (nomen omen) e di “Toscana” del regista iraniano Medhi Avaz. Lo sfondo è una azienda australiana che alleva pecore e produce vini di altissima qualità, dove si muovono i due interpreti destinati già dalle prime sequenze a quell’happy end di una banalità tale da farci desiderare che le cose potessero andare in un’altra direzione. Senza spoilerare il film, un’evoluzione del racconto dove la protagonista si scopre lesbica e si innamora della sorella, avrebbe salvato qualcosa di questa paccottiglia dove ogni personaggio è poco credibile. Il linguaggio da sommelier è anch’esso sopra le righe, macchiettistico e un po’ fuori posto. Sdoganati ormai i bicchieri di cristallo di grande capienza che non caratterizzano più soltanto le tavole più importanti, li possiamo vedere branditi rigorosamente per la coppa e mai per lo stelo, cosa che almeno gli addetti ai lavori dovrebbero fare per “degustare” uno dei loro prodotti. Ma non è finita: il vino che ha un certo peso nella storia è assurdamente un vino rosato frizzante confezionato in una bottiglia con tappo a stella che neppure gli australiani – che, giustamente, sono stati tra i primi a mettere in discussione il tappo di sughero – usano per vini di una certa qualità.

Ma lasciamo stare. Il turismo di massa e la cultura televisiva frullano tutto, tanto che i paesi, gli ambienti, gli usi locali o quelli gergali sono diventati intercambiabili e non riescono più a realizzare quella magia per la quale alcuni posti riescano invece a essere dei luoghi. Eccoci al secondo titolo, un solo termine “Toscana” che vuole fare della regione la location ideale di una storia romantica che si dipana alternando spazi gastronomici con quelli paesaggistici. E qui la confusione è totale. Si assiste all’aggiornamento di quegli stereotipi turistici per i quali i gondolieri cantano “O sole mio” come alla ricerca del balcone di Giulietta e Romeo a Firenze o a Roma. O a quello stereotipo gastronomico per eccellenza che sono gli “spaghetti alla bolognese” che nessun italiano ha mai preparato ma che è il piatto italiano più conosciuto all’estero. Il grosso del racconto si svolge al Castello di Ristonchi in quel di Pelago, ma stranamente la strada che la camera inquadra per arrivarci è quella tipica da cartolina della Val di Norcia dove presumibilmente hanno girato quelle inquadrature. Ma la non coerenza geografica e paesaggistica va molto oltre. Una visita a una azienda casearia nelle vicinanze porta i due protagonisti con una Vespa d’epoca all’interno della sala di stagionatura del Parmigiano Reggiano dove la scena culmina con il rito dell’apertura di una forma di formaggio di lunga stagionatura. La confusione gastronomica e geografica prosegue tanto che il vino che appare nelle apparecchiature e nei bicchieri a Ristonchi è un Bardolino chiaretto, un “rosato” della riviera del Garda, altro posto topico delle vacanze di tedeschi e danesi.

Ma anche la storia si muove in superfice con le inquadrature e le sequenze che non riescono a starle dietro. Lo chef danese Theo Dahl dopo la morte del padre eredita il Castello di Ristonchi. La cosa capita a fagiolo poiché proprio nel momento in cui egli stava progettando un nuovo ristorante, il socio che doveva finanziare l’operazione si era fatto indietro lasciando Theo nei pasticci. La vendita della tenuta avrebbe quindi risolto il problema. Per velocizzare la transazione Theo si reca a Ristonchi. Il suo impatto con l’ambiente non è dei migliori. Qui entrano in gioco altri due stereotipi: la precisione e l’accuratezza nordici in contrasto con il modo di arrangiare le cose delle popolazioni del sud Europa, con l’Italia in prima fila. Lo scontro culturale è anche connotato dalle pratiche gastronomiche nelle quali comunque prevalgono due filoni: quello decorativo di Dahl e quello casalingo e di poche pretese praticato a Ristonchi. Anche qui non voglio fare lo spoiler del film, dico soltanto che quello che gastronomicamente fa alla fine la brigata danese nelle cucine del Castello e che intravediamo di sfuggita poiché il racconto è ormai monopolizzato dal lato romantico della storia, è soltanto una mise en place minuziosa, maniacale e ordinata di prosciutto, formaggio e olive. Non a caso l’attrezzo da cucina che più usa Theo è una pinzetta. Non è l’incontro tra due cucine, la contaminazione culturale, la rivisitazione di un piatto della tradizione locale di Sofia che Theo aveva apprezzato precedentemente. Niente di tutto questo. Quel piatto di salumi e formaggi richiama una (non)cucina tutta declinata al passato, che rimane ferma e raccoglie soltanto – e non è poco – la capacità di un territorio di produrre ingredienti di altissima qualità ma incapace di dar loro strutture gastronomiche più elaborate. Incapace di metterci le mani e di fare di quegli ingredienti una cucina. Se questo in realtà sarà poi fatto, rimane soltanto nelle intenzioni, il film non lo racconta. Ma se ci teniamo al realmente raccontato nel film le cose si fanno ancora più insensate testimoniando una incompetenza  gastronomica di fondo. Si tratta di quando Theo si fa una bruschetta mettendo in atto la sciocchezza più assurda: mette l’olio e gli altri ingredienti sul pane prima di abbrustolirlo e non dopo. In quello che vediamo Theo coglie del paese, e della Toscana del titolo, le stesse cose, gli stessi luoghi comuni, di qualunque turista da week end, abbagli compresi. E anche per questo la sua storia con Sofia non ha niente di rimarchevole, niente che valga la pena di essere raccontato, trasformando il film in un documentario promozionale commissionato da una pro loco cialtrona e confezionato da un cineasta da matrimoni.

Ma veniamo al terzo titolo: “La cena perfetta” di Davide Minella. Questa è un’altra cosa, anche se racconta una storia che in alcuni aspetti ha molti gradi di somiglianza con quella del film “Toscana”. È un film pensato per il grande schermo: è cinema e non televisione. In entrambi i casi un* dei (delle) due protagonist* e un* chef. Nel film “Toscana”, come abbiamo visto, è un lui, ne’ “La cena Perfetta” è una lei. In entrambi casi lo chef e la “cheffa” sono abbastanza famosi e fanno cucina di alta qualità, fanno cioè riferimento a un tipo di ristorazione che ha come referente il pubblico delle guide gastronomiche cartacee, in primis la Michelin e le sue stelle. Quella che in gergo viene chiamata cucina stellata nella sua declinazione più generale o ristorante stellato nella sua accezione più particolare. Si tratta, come viene detto esplicitamente in questo terzo film, di un modello di impresa che ha bisogno di ingenti investimenti iniziali con i primi anni di attività in rimessa e con pochi ritorni economici diretti, compensati da tutte le attività accessorie che il raggiungimento di certi traguardi apre successivamente. Anche in questo caso la cucina di Consuelo – il nome della protagonista femminile – è fredda, tecnicamente ineccepibile ma, pur comunicando al palato, rimane una cucina che si percepisce estranea. Proviene dal futuro e non dal passato; tutto questo in un senso particolare. È una cucina pensata ex novo che combina ingredienti e tecniche. È una cucina che una volta descritta, diventa ripetibile; è involontariamente seriale. Qualcun* potrebbe dire che ha corpo ma manca di anima, ma i binarismi, le opposizioni non mi piacciono e non rendono il senso. È una cucina singolare e solitaria, non conviviale direbbe Illich e, rimanendo vicino a quest’ultimo e usando termini cari anche a Dante, non ha alcun carattere vernacolare. Questo significa che è un costrutto astratto, non mediato in nessuna relazione. In questo modo si cucina per tutti e per nessuno: non lo si fa per qualcun*. Non c’è niente di particolare da dire a quest* o a quell*; si dice e basta. Anche la storia dell’incontro tra Carmine (ecco il lui della storia) e Consuelo è inizialmente un incontro con un* e non con qualcun*, con qualcun* di specifico. L’incontro apre a una possibilità della storia di evolversi, di prendere una direzione, di andare da qualche parte. È un incontro. Un incontro in un luogo, in un progetto. Un incontro che fa interagire le persone e da questa interazione la storia può andare avanti. C’è un futuro che prevede le persone, che se le porta dietro, con e sopra.

In tutti i ristoranti si cucina tendenzialmente per degli estrane*, ma se il piatto ha una storia la si potrà intuire tra le righe. Se il piatto e la tecnica hanno radici, ne uscirà qualcosa capace di dire la sua; di dialogare con il/la cliente che allora non è più qualsiasi, ma un interlocutor* al quale siamo disposti ad aprirci.

C’è un assaggio che diventa il punto di svolta gastronomico che dà però, nello stesso tempo, al regista lo strumento intorno al quale poter costruire anche l’ultimo esito, la chiusura della storia che così diventa la storia di un incontro, quello tra Consuelo e Carmine. Una svolta che permette di convogliare verso quella fine che fa essere questa storia, una storia, un film e non televisione e non uno spot pubblicitario come gli altri due.

L’assaggio è quello di “pasta e patate” cucinato da Carmine, un piatto napoletano come Carmine. Non è in sé un assaggio memorabile. Lo diventerà dopo ma per non rivelarvi l’esito della storia qui non ve lo dirò. Ci arriveremo più avanti. Ecco che allora Consuelo capisce cosa manca alla sua cucina. Passa una notte a cucinare da sola nel ristorante e al mattino ha qualcosa da fare assaggiare a Carmine: una rivisitazione delle Empanadas argentine, il suo paese di origine. Ecco cosa dice allora Consuelo: “Ho capito cosa manca alla mia cucina, la memoria, sono sempre scappata dai miei ricordi. Pensavo di chiamarle Empanadas nostalgia”. Ma cosa significano la memoria e i ricordi in cucina? Non certo la ricetta scritta in maniera anonima su un foglio di carta, meno che mai in un anonimo sito sul web. Il ricordo è l’esperienza che abbiamo condensato e strappato all’infinito e al variegato modo di manifestarsi della realtà. La memoria rimanda a un evento, a una lettura di un evento. Il ripetersi dell’evento rinsalda la memoria ma non la cristallizza. Anche la memoria è dialogica, dialoga con gli altri, con il mondo che sono gli altri, con gli altri che ti toccano, che ti carezzano e ti nutrono. Ma anche che ti odiano, che ti fanno del male o che ti ignorano. I rapporti creano eventi che è allora possibile condensare nella memoria. Ma quello che è qui più importante è il fatto che la memoria continua a dialogare con gli altri, con chi ti ascolta e chi no. La memoria ricodifica la realtà e lo fa ogni volta di nuovo.

Il piatto di pasta e patate di adesso, questo piatto di pasta e patate, parla, dice, tocca, consola, eccita o stordisce. Non è un piatto neutro, non è astratto e fa cose: è performativo. Per questo quando qualcuno in particolare assaggerà quel piatto di patate, l’assaggio sarà memorabile. Linguisticamente è inenarrabile. Soltanto dei gesti: la chiusura degli occhi, un mugolio, un assenso, una pausa lunga.

Questo il film. Ma non occorre che ci sia una memoria condivisa. Basta che il piatto conservi il potere comunicativo, la memoria della sua nascita, di quel dialogo con tutti i sensi che lo ha fatto fecondo e che lo ha prodotto. Ecco l’assaggio di persone semplici per le quali la cucina era per lo più mera sussistenza che “riconoscono” i piatti che Babette ha cucinato per loro. Quei piatti erano pieni dei ricordi di Babette e quei ricordi comunicavano con tutti i sensi.

Non a caso in “La cena perfetta” non ci sono imperfezioni tecniche, non a caso il racconto gastronomico è corretto proprio perché il regista si è avvalso della collaborazione di Cristina Bowerman una “cheffa” che è riuscita a raggiungere una stella Michelin con un ristorante vegetariano.