L’iscrizione alle liste anagrafiche è un diritto-dovere del tutto disgiunto dal settore del welfare, ma in compenso robustamente agganciata al concetto di ordine pubblico, non solo nella sua accezione repressiva, ma anche in quella di tutela dei cittadini. In sintesi, è questo ciò che emerge dalla sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 26 aprile scorso, che ha sciolto alcuni dei nodi che nella prassi seguita dagli uffici del Comune di Firenze hanno indotto a rallentamenti e dinieghi nell’iscrizione nelle liste anagrafiche cittadine di molti richiedenti. Sulla questione, abbiamo ricostruito la vicenda col presidente nazionale dell’associazione Avvocato di Strada Antonio Mumolo, che, insieme alla collega Paola Pizzi del Foro di Bologna e all’avvocato fiorentino Silvio Toccafondi, ha seguito il caso che ha portato ad una sentenza che ben si può definire storica.
“Per comprendere la portata giuridica della sentenza in questione, è necessario ricordare i principi fondamentali che riguardano il concetto di residenza. Principi che si possono riassumere in tre punti: l’iscrizione all’anagrafe è un diritto soggettivo di ogni cittadino che si trova sul territorio nazionale, e ha natura di diritto-dovere, secondo la legge 1128/1954, in quanto: è fatto obbligo ai cittadini di dichiarare la propria residenza. Inoltre, l’anagrafe è di competenza del Ministero dell’Interno. Quindi, mettiamo in chiaro subito un punto: il welfare non c’entra nulla con l’iscrizione anagrafica. La legge anagrafica nasce come competenza del Ministero dell’Interno perché esiste la necessità dello Stato di un controllo dei cittadini per motivi di ordine pubblico, che non ha solo profili repressivi, ma contiene anche necessità che riguardano ad esempio la sicurezza (se si verifica in terremoto, lo Stato deve sapere quante persone ci sono nell’area e dove si trovano per potere far scattare i soccorsi, oppure in casi di eredità inaspettata è necessario sapere dove si trova il beneficiario per poterglielo comunicare)”.
Prima di occuparci del terzo punto, ricostruiamo il meccanismo legato all’iscrizione anagrafica. “La legge prevede che la competenza dell’iscrizione anagrafica sul territorio venga demandata al sindaco in quanto ufficiale di governo. Il sindaco a sua volta demanda la competenza all’ufficiale anagrafico. dalla stessa disciplina di legge si evince che il diritto alla residenza, o meglio all’iscrizione nelle liste dell’anagrafe, si esplica con una semplice dichiarazione di residenza che il cittadino richiedente fa all’ufficiale dell’anagrafe. L’ufficiale dell’anagrafe deve iscrivere subito la persona che richiede la residenza, se non ci sono gravi motivi ostativi, proprio perché la iscrizione è un diritto-dovere che discende direttamente dall’interesse dello Stato ed è legata a motivi di ordine pubblico. Sul punto, ricordiamo la sentenza costituzionale che pose nel nulla l’art.13 del Decreto sicurezza salviniano, con cui si cercò di togliere la residenza agli stranieri migranti. La sentenza della Suprema Corte rilevò l’irragionevolezza della norma: non sapere da parte dello Stato dove si trovano i cittadini presenti sul territorio nazionale è irragionevole e contrario alla ratio della legge, mai modificata, del 1954. Non si tratta di welfare: lo Stato deve sapere dove si trovano i cittadini per motivi di ordine pubblico”.
Calandoci sul territorio, per legge la residenza, come ormai noto, è il punto motore per una serie di diritti fondamentali, fra cui la presenza nel sistema sanitario nazionale, la possibilità di lavorare, la corresponsione di misure quali il reddito di cittadinanza, l’assegno famigliare e persino per il diritto all’istruzione. “Un diritto-dovere così importante che, al netto delle ultime modifiche, la legge chiede agli uffici anagrafe di rispondere, alla richiesta di iscrizione nelle liste, entro 48 ore. Ovvero, entro 48 ore il Comune deve dare risposta positiva oppure negativa, motivando quest’ultima”.
Ma se il richiedente avesse dichiarato il falso e non risiedesse abitualmente sul territorio nazionale all’indirizzo fornito? “La legge prevede ovviamente una serie di accertamenti, a valle della dichiarazione del richiedente, da svolgersi nei 45 giorni seguenti l’iscrizione – spiega Mumolo – ma ciò non incrina il principio fondamentale delle 48 ore: in due giorni il Comune deve rispondere sì, facendo scattare i controlli nei 45 giorni seguenti, o no, con le motivazioni che poi possono eventualmente essere impugnate dal richiedente”.
Se questa è la legge, nella realtà le cose non procedono affatto in questo modo. Il caso della signora con figlia minore, nata a Firenze, sfrattata a Campi in seguito alla perdita del lavoro, ricoveratasi in un edificio in cui era in corso un’occupazione nota, in mancanza di altre sistemazioni, che si era già rivolta alla Direzione Servizi Sociali per rendere notoria la sua situazione e a cui era stata rifiutata dagli uffici l’iscrizione anagrafica, è un caso simbolico della confusione che regna in questo campo.
“Intanto – spiega Mumolo – partiamo da una prima complicazione, quella dell’abitare in casa occupata. Come ben noto, era il caso dell’art. 5 del decreto Lupi, poi convertito in legge, che prevede che la residenza, ovvero l’iscrizione nelle liste anagrafiche comunali, deve essere rifiutata a chi risiede appunto in occupazioni senza titolo. Un articolo che creò il caos in tutta Italia, in quanto se da un lato sembrava una stretta contro gli abusivi indotta da motivi securitari, non aveva tenuto conto che spesso le occupazioni di edifici pubblici italiane vedono famiglie sfrattate magari in attesa nelle liste dell’Erp, irregolari con minori a carico che rischiano di scomparire dal radar dello Stato, storie di marginalità lavorativa e sociale che, una volta cancellate, vengono irrimediabilmente perdute, diventando invisibili”. Insomma a parte il costo umano che deriva dall’annullamento della sanità, del lavoro, del rdc, dei contributi sociali ecc., il prezzo che la società paga è in sostanza quello di non sapere più nulla di queste famiglie e di queste persone. Anzi, di nessuna persona si trovi in quel luogo, sfortunata, fragile o criminale che sia. La natura della norma del 1954, con il suo radicamento nell’ordine pubblico, viene completamente tradita.
La questione è così concreta, che il Ministero dell’Interno, dopo un anno, interviene con un atto di risoluzione ( emanato con nota n.633 del 24/2/2015) in cui si invitano i comuni a iscrivere all’anagrafe le persone e i nuclei famigliari che si trovano in occupazioni abusive con indirizzo presso le residenze fittizie. Per il Comune di Firenze, in via del Leone. Non solo. Il decreto Minniti ((14/2017) prevede anche che i sindaci possano “in caso di occupazioni abusive di immobili, in presenza di persone minorenni o bisognose di aiuto, a tutela delle condizioni igienico-sanitarie” consentire, “in deroga ai divieti previsti dall’art. 5 del decreto legge 47/2014”, il rilascio della residenza e l’allacciamento a pubblici servizi.
Torniamo al nostro emblematico caso. “La signora, nata a Firenze, dopo la sfortunata esperienza di Campi in cui perde il lavoro e viene sfrattata, e dopo il suo ricovero in una stanza in un edificio occupato – dice Mumolo – si rende conto che la figlia minore non ha né scuola né sanità. Si reca in Comune e chiede la residenza ma le viene proposto un percorso con i servizi sociali. Si reca ai servizi sociali, che le propongono una serie di passaggi tali da spaventarla, tanto da temere di perdere la figlia. Si rivolge a noi che chiediamo al Comune di Firenze l’iscrizione nelle liste dell’anagrafe, intanto in quanto, pur occupante senza titolo, abitando stabilmente in città (cosa nota anche ai servizi sociali cui la donna si è già rivolta), può essere, secondo la circolare, iscritta come residente all’indirizzo fittizio di via del Leone, oppure, in termini residuali, nelle liste del Comune di nascita, ovvero Firenze, secondo quanto previsto dalla legge”. Eppure, il Comune decide che la signora non deve essere iscritta. Forse perché non ha accettato il percorso sociale? Forse il percorso sociale è ritenuto da parte del Comune di Firenze unico metodo per accertare se la richiedente (o i richiedenti in generale) hanno asserito il vero? E comunque, è il percorso sociale elemento capace di far pendere per il sì o per il no l’iscrizione all’anagrafe?
Precisa Mumolo: “Il punto è: prima la residenza, poi il percorso, se accettato. La residenza è una dichiarazione che deve possedere solo due requisiti, secondo la legge: uno oggettivo, mi trovo nel territorio di Firenze; il secondo soggettivo, voglio la residenza qui, a Firenze. Il Comune deve darla, o negarla motivando il diniego, entro 48 ore. Se la dà, ha 45 giorni per fare indagini. Il percorso sociale, attinente al welfare, non ha nessuna parte nel processo di iscrizione o meno. E’ un ottimo aiuto che il pubblico dà alla famiglia o alla persona, che deve essere accettato liberamente dal soggetto cui è proposto che ovviamente potrà rifiutarlo, ma che non può e non deve influire su valutazioni che riguardano l’iscrizione”.
Intanto, su iniziativa dell’associazione Avvocato di Strada con ricorso d’urgenza ex art.700 cpc, scatta da parte del Tribunale di Firenze, giudice del procedimento cautelare, nel ritenere che tale delibera, lungi dal descrivere un iter procedimentale necessario, l’ordinanza del 25 novembre 2016, grazie alla quale la signora viene iscritta nelle liste anagrafiche. Potrebbe finire lì, e invece no: il Comune di Firenze fa ricorso. Questa volta, un diverso giudice del Tribunale di Firenze dà ragione al Comune di Firenze per una serie di motivi, che riguardano anche la condotta “non collaborativa” della signora.
La signora tuttavia non viene cancellata dalle liste anagrafiche, perché ancora la sentenza non è passata in giudicato, in quanto gli Avvocati di strada si rivolgono alla Corte d’Appello. E dopo 6 anni, ecco la sentenza del 26 aprile scorso, che oltre a confermare la natura di diritto soggettivo alla residenza, la sua obbligatorietà per il cittadino e per l’ente locale delegato di potere statale a procedere all’iscrizione o al suo diniego entro 48 ore, mette in chiaro l’assoluta indipendenza del profilo socio-assistenziale con quello legato alla legge che disciplina la materia in oggetto.
In particolare la Corte d’Appello boccia l’iter previsto dalla delibera del Comune di Firenze per la richiesta di residenza. Scrive infatti la Corte d’Appello: “Ritiene la Corte la infondatezza della pretesa del Comune di Firenze di subordinare la concessione della residenza a una pre-istruttoria da effettuarsi tramite la presa in carico da parte dei servizi sociali in conformità alla delibera della giunta Comunale n. 2016/G/00050 del 24/02/2016.”
Insomma, per dirla con Mumolo: “Prima l’anagrafe deve rispondere sì o no, poi i controlli ed eventualmente gli eventuali ricorsi del richiedente verso un giudizio negativo che deve essere motivato; in nessun modo il Comune può porre ostacoli alla richiesta di residenza”.
“La delibera della Giunta Comunale n. 2016/G/00050 del 24/02/2016 ha anche aspetti positivi – conclude il presidente degli Avvocati di Strada – in quanto propone ai richiedenti l’iscrizione nelle liste anagrafiche più “fragili”, dei percorsi di aiuto e integrazione sociale importanti e interessanti. Ma non può in ogni caso costituire valutazione per iscrivere o meno i cittadini nelle liste anagrafiche, tanto più considerando anche la natura di diritto-dovere della dichiarazione anagrafica che spetta al cittadino. Infine, vorrei anche sottolineare che esistono svariate circolari ministeriali che prevedono sanzioni per quei sindaci che negano la residenza alle persone. Tirando le fila: la residenza non è un benefit, un premio o una vincita. Si tratta di un diritto dovere che ha la sua ratio nell’ordine pubblico”.
Stefania Valbonesi
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