Caosmosi di Félix Guattari, una recensione atipica

Per il trentennale dalla morte di Félix guattari.

Caosmosi è l’ultimo libro di Felix Guattari. Un autore spesso “subordinato” al connubio intellettuale con Deleuze al quale però forniva le istanze derivanti dalla sua pratica esistenziale: la militanza e l’esercizio della professione psicoterapeutica, condite anche dalla sua capacità di immaginare concetti e nuove strade epistemologiche. Questo ha fatto sì che i suoi lavori in solitario si concentrassero essenzialmente su saggi specifici che non in monografie esaustive, producendo perciò testi spesso così densi da risultare di ostica interpretazione. Caosmosi risulta essere il risultato dello sforzo di chiarificazione e sistematizzazione dei suoi ultimi ragionamenti – anche, a quanto pare, con l’aiuto di Sivadon-Saoburin, suo collega e compagno nell’esperienza di La Borde – e segue il più difficile e intrigato lavoro delle Carthographies schizoanalitiques uscito nel 1989. Questo non significa che la lettura di Caosmosi sia una passeggiata come, di conseguenza, non significa che provare a raccontarlo, sia facile. Essa riprende nella prima parte alcuni concetti centrali della riflessione guattariana (anche di quella fatta con Deleuze) e più precisamente quello sulla produzione della soggettività, il macchinico e i processi di generazione dello stesso; seguiti dal tentativo di una loro modellizzazione che diviene la base della “pratica” schizoanalitica; per poi sfociare in quel nuovo territorio di speculazione e militanza costituito dalle istanze ambientaliste, già esplorato nel suo lavoro sulle “tre ecologie”, alla quale qui se ne aggiunge una quarta, l’ecologia del virtuale; sino a sistematizzarsi dentro il capace contenitore di quella che Guattari chiama “ecosofia”.

Questo significa che provare a raccontarvi e quindi in un certo senso riassumere un testo già di per sé denso porterebbe probabilmente a un risultato probabilmente illeggibile. Quello che allora mi sono proposto di fare è allora un altro lavoro: quasi un collage di citazioni intervallate a volte da delle chiose non interpretative in sé, ma che mi permettano di usare il lavoro di Guattari spesso applicandolo alla realtà contemporanea per altro da lui preconizzata in maniera incredibile.

Tra sergenti , il testo di Guattari, rientrate, le “chiose”.

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La produzione della soggettività.

La soggettività, nello spazio caosmico, non è un costrutto del sé, è un’entità in divenire che si confronta continuamente con il fuori del Sé

«La soggettività viene prodotta da istanze sia individuali sia collettive e istituzionali […] è infatti plurale e polifonica” (p.23). Essa è perciò condizionata dalle “produzioni semiotiche dei mass media, dell’informatica e della telematica e della robotica” che devono essere tenute in conto in relazione alla soggettività psicologica, “allo stesso titolo delle macchine sociali, che possono essere incluse nella rubrica generale delle Apparecchiature collettive, [del]le macchine tecnologiche d’informazione e di comunicazione [che] operano nel cuore della soggettività umana, non solamente in seno alle sue memorie e alla sua intelligenza, ma anche in rapporto alla sua sensibilità, ai suoi affetti e ai suoi fantasmi inconsci» (p. 25).

Nota importante rispetto alla preveggenza di Guattari: siamo nel 1992 quando esce il libro e internet è ancora agli albori. Nel 1989, in tutto il mondo sono connessi ad Internet centomila computer con protocolli diversi dagli attuali. Nel 1990 nasce il protocollo HTTP e il linguaggio HTML. Nel 1991 il CERN (Centro Europeo di Ricerca Nucleare) annuncia la nascita del World Wide Web (www). Il primo browser apparirà soltanto l’anno dopo, nel 1993.

Sul versante della soggettività diventa fondamentale il confronto critico che Guattari fa con Maturana e Varela e con il loro concetto di autopoiesi e quello sulle tesi sulla psicologia infantile di Daniel Stern pubblicate queste nel 1985; dove Stern descrive quattro sensi del Sé (il senso di un Sé emergente, che si forma tra la nascita e i due mesi, il senso di un Sé nucleare, che si forma tra i due e i sei mesi, il senso di un Sé soggettivo, che si forma tra i sette e i quindici mesi, e successivamente il senso di un Sé verbale) ognuno dei quali definisce un campo di esperienza soggettiva e di rapporto sociale, si mantiene pienamente funzionante e attivo, e continua a svilupparsi per tutta la vita.

«Il sé emergente, atmosferico, patico, fusionale e transitivo, ignora le opposizioni soggetto-oggetto, io-altro e, ovviamente, maschile-femminile. È il regno di una maternitudine assoluta, estranea a ogni triangolazione edipica» (p. 75).

«È all’interno di tale Universo protosociale, sempre preverbale, che si trasmettono i tratti familiari, etnici, urbani, diciamo l’Inconscio culturale. Una simile Territorialità soggettiva è coronata, intorno ai diciotto mesi, dalla designazione dell’identità propria (nome e cognome) davanti allo specchio» (p. 76).

«Egli mostra che non ci troviamo per nulla di fronte a stadi, nel senso freudiano del termine, bensì a livelli di soggettivazione che si manterranno in parallelo per tutto il corso della vita”. Niente a che vedere con i complessi concepiti come ‘universali’ di Freud. “All’opposto, troviamo valorizzato il carattere immediatamente transoggettivo delle esperienze precoci del bambino, esperienze nelle quali il senso del sé e il senso dell’altro non si trovano dissociati. Una dialettica fra ‘affetti condivisibili’ e ‘affetti non condivisibili’ struttura quindi le fasi emergenti della soggettività» (p. 27).

Questo comporta una messa in discussione dell’individuazione soggettiva, “che certo sussiste, ma inscindibilmente dal lavoro che su di essa svolgono i concatenamenti collettivi di enunciazione” (p. 29).

L’enunciazione, infatti, non è mai individuale; l’enunciazione non è sempre e necessariamente soggettivata; i processi di soggettivazione nel discorso, e la ripartizione e la parte che vi assumono i morfemi soggettivi, non sono governati da una funzione universale e intrinseca ad un’essenza linguistica, ma da una funzione semiotica particolare sovradeterminata dalla struttura complessa dei rapporti sociali. Semplificando molto, significa che non esiste una enunciazione puramente soggettiva da parte di un sé avulso dalle strutture sociali, ma che l’enunciazione stessa è prodotta/condizionata dal socius inscrittore.

«In particolare è necessario situare l’incidenza concreta della soggettività capitalista (soggettività dell’equivalente generalizzato) nel contesto dello sviluppo continuo dei mass media, delle Apparecchiature collettive e della rivoluzione informatica; uno sviluppo che sembra chiamato a ricoprire con la sua grisaglia il minimo gesto e gli ultimi angoli di mistero del pianeta» (p. 40).

Umanesimo e anti ‘umanismo’, quando Guattari giustifica la sua considerazione verso la parte non umana della soggettività:

«La soggettività non si fabbrica solamente attraverso gli studi psicogenetici della psicoanalisi o i ‘matemi’ dell’Inconscio, ma anche nelle grandi macchine sociali massmediatiche e linguistiche che non possono essere qualificate come umane» (p. 30)

Oggi, all’interno delle discussioni interne all’antropocene, a quelle della ecologia femminista, alla sensibilità anti specista, il problema è diventato l’opposto: quello di decentrare l’umano con punte estreme alla Zapfe nelle quali se ne auspica l’estinzione. Tutto questo segna così, ancora una volta, l’attualità del pensiero di Guattari probabilmente meglio sincronizzato con i nostri tempi che non in quelli nei quali scriveva ‘Caosmosi’.

«La nostra sopravvivenza sulla terra è minacciata non solo dalla degradazione ambientale ma anche dalla disintegrazione del tessuto di solidarietà sociali e dei modi di vita psichici che necessitano quindi di una reinvenzione complessiva[…] Non è concepibile come risposta all’inquinamento atmosferico e al riscaldamento del pianeta dovuto all’effetto serra una semplice stabilizzazione demografica senza che venga posto il problema di una nuova mentalità e della promozione di una nuova arte del vivere in società. […] Non è possibile sperare in un miglioramento delle condizioni di vita della specie umana senza uno sforzo considerevole di promozione della cultura femminile. L’insieme della divisione del lavoro, i suoi modi di valorizzazione e le sue finalità, sono egualmente da ripensare. La produzione per la produzione, l’ossessione per il tasso di crescita, sia nel mercato capitalista che nelle economie pianificate, conduce a mostruose assurdità. La sola finalità accettabile per le attività umane è la produzione di una soggettività autoarricchentesi in continuazione nel suo rapporto al mondo» (p. 39).

I ritornelli esistenziali.

«Non è quindi solamente nel campo della musica e della poesia che troviamo all’opera quei frammenti distaccati dal contenuto che io rubrico nella categoria di ‘ritornelli esistenziali’. La polifonia dei modi di soggettivazione corrisponde effettivamente a una molteplicità di modalità di ‘battere il tempo’. Ritmi diversi conducono così alla cristallizzazione di concatenamenti esistenziali che essi stessi incarnano e singolarizzano. I casi più semplici di ritornelli delimitativi di Territori esistenziali li possiamo trovare nell’etologia di numerose specie di uccelli. Alcune sequenze specifiche del canto operano al servizio della seduzione, dell’allontanamento degli intrusi, dell’annuncio della presenza dei predatori […] Nelle società arcaiche, Territori esistenziali collettivi di altro tipo si definiscono a partire da ritmi, canti, danze, maschere, segni tracciati sul corpo, sul suolo o sui totem, in occasione di momenti rituali e attraverso il riferimento al mito» (pp. 34-35).

È questa un’attenzione alla comunicazione prossemica che la sua rappresentazione sugli ‘schermi mediatici’ penalizza per restituirci così una forma coercitiva della soggettivazione stessa.

Contro il significante. La macchina astratta o del superamento delle istanze linguistiche in relazione all’opposizione “Espressione/Contenuto”:

«Da parte nostra invece auspichiamo il transito della semiologia in un quadro, quello di una concezione macchinica della forma, atto a liberarci da una semplice opposizione linguistica Espressione/Contenuto e quindi in grado di permetterci di integrare ai concatenamenti enunciativi un numero indefinito di sostanze d’Espressione, come per esempio le codificazioni biologiche o le forme di organizzazione proprie del socius. […] Il problema del concatenamento d’enunciazione non sarà più quindi specifico di un registro semiotico, ma attraverserà un insieme di materie espressive eterogenee» (pp. 41-42).

Troviamo qui un uso ulteriore del concetto deleuze-guattariano di Macchina, di macchinico etc. Un uso metaforico che non rimanda semplicemente alla macchina digitale e che, in qualche modo, si oppone al concetto di Macchina di Turing. La loro Macchina funziona in maniera diversa dalla struttura segnando così un superamento dello strutturalismo che aveva dominata la cultura francese per più di una decade. Questo significa che non si fa più riferimento a delle matrici e a delle corrispondenze nelle quali il senso è racchiuso e si trasmette lungo un’asse strettamente linguistica dove domina il significante, ma che si deve aprire a tutte quei tratti soprasegmentali che dipendono da un soggetto di relazione socialmente situato e che esprime la propria soggettività in relazione con l’altro. Già Deleuze nel “La piega. Leibniz e il barocco”, distingueva tra meccanismo e macchina e quindi macchinico. Era un modo anche per distinguere l’organico dall’inorganico facendo un’operazione per noi oggi controintuitiva, dove è proprio precipuo dell’organico il carattere macchinico. la macchina deleuze-guattariana è molto diversa da quella a stati discreti che caratterizza l’attualità digitale. È un concatenamento (un agencement) di macchine le une innestate nelle altre. “Se le forze plastiche si distinguono, non è perché il vivente ecceda il meccanismo, ma perché i meccanismi non sono a sufficienza macchine. Il torto del meccanismo non è quello di essere talmente artificiale da non poter rendere conto del vivente, ma di non esserlo abbastanza, di non essere abbastanza macchinato. I meccanismi, infatti, sono composti di parti che non sono a loro volta macchine, mentre l’organismo è infinitamente macchinato, è una macchina di cui tutte le parti o tutti i pezzi sono macchine, una macchina che viene soltanto «trasformata dalle differenti pieghe che subisce». Le forze plastiche sono dunque macchiniche più che meccaniche, e permettono di definire le macchine barocche” (Deleuze, La piega, p. 13).

Il concetto di concatenamento macchinico ma anche, semplicemente, il macchinico, è uno strumento utile per distinguere l’organico dall’inorganico: “L’organismo vivente, invece, in virtù della preformazione, possiede una determinazione interna che lo fa passare di piega in piega, o costituisce all’infinito macchine di macchine. Si direbbe quasi che tra l’organico e l’inorganico vi sia come un’inversione di vettore: mentre il secondo si indirizza verso masse sempre più grandi in cui operano meccanismi statistici, il primo si indirizza verso masse sempre più piccole e polarizzate in cui opera un macchinario individuante, un’individuazione interna.

«Non dobbiamo mai confondere il macchinismo e il meccanismo. Il macchinismo, nel senso in cui lo intendo, implica un duplice processo, autopoietico-creativo ed etico-ontologico (l’esistenza di una “materia di scelta”), assolutamente estraneo al meccanismo. Ciò perché l’immensa incastonatura di macchine, il mondo di oggi, si trova posizionata come autofondatrice della propria messa in essere. L’essere non precede l’essenza macchinica; il processo precede l’eterogenesi dell’essere» (p. 109).

«La voce del computer – “Non avete allacciato le cinture” – lascia poco spazio all’ambiguità. La parola ordinaria, al contrario, si sforza di conservare vivente la presenza di un minimo di componenti semiotiche dette non verbali, ove le sostanze di espressione costituite a partire dall’intonazione, dal ritmo, dai tratti del viso e dalle posture, si alternano e si sovrappongono, scongiurando in anticipo il dispotismo della circolarità significante. Ma al supermercato il tempo non consente né di apprezzare la qualità di un prodotto né di contrattare per fissare il giusto prezzo. L’informazione necessaria e sufficiente ha evacuato le dimensioni esistenziali dell’espressione. Non siamo là per esistere, ma per compiere il nostro dovere di consumatori» (pp. 93-94).

«Il sintomo, il lapsus, il motto di spirito, sono concepiti come oggetti distaccati in grado di permettere a un modo di soggettività che ha perduto la propria consistenza di trovare la via di una ‘messa in esistenza’. Il sintomo funziona, a partire dalla sua ripetitività, come ritornello esistenziale. Ecco il paradosso: la soggettività patica tende a essere costantemente evacuata dai rapporti discorsivi mentre gli operatori di discorsività si fondano proprio su di essa» (p. 43).

«La logica degli insiemi discorsivi trova una sorta di compimento disperato nella logica del Capitale, del Significante, dell’Essere con la E maiuscola. Il Capitale è il referente dell’equivalenza generalizzata del lavoro e dei beni; il Significante il referente capitalistico delle espressioni semiologiche, il grande riduttore della polivocità ontologica. Il Vero, il Buono e il Bello sono categorie di “messa in norma” di processi che eccedono la logica degli insiemi circoscritti. Sono referenti vuoti, che fanno il vuoto, che instaurano la trascendenza nei rapporti di rappresentazione. La scelta del Capitale, del Significante e dell’Essere partecipano a una stessa opzione etico-politica. Il Capitale schiaccia tutti gli altri modi di valorizzazione. Il Significante fa tacere le virtualità infinite delle lingue minori e delle espressioni parziali» (p. 45).

La macchina è allora una fucina del divenire. È fatta di flussi, di stacchi e prelievi; di concatenamenti; di emersioni, condensazioni. In tutta l’opera di Guattari, anche in quella in commistione con Deleuze, non c’è una sistematizzazione esplicita del concetto di concatenamento. In realtà è un termine che è, nella sua accezione francese, di una duttilità estrema riguardo alla descrizione di tutta una serie di fenomeni che interessano i processi di soggettivazione letti attraverso le relazioni con l’altro. Un’estensione della soggettività, l’essere e il divenire soggetto di tutta una serie di attanti e in particolare di quelli, al di là dell’antropocentrismo, non-umani.

‘Abbiamo un’altra idea del soggetto e, di conseguenza, dell’oggetto. Abbiamo anche un’idea del valore della relazione e della rete, occorre però riuscire a traslare tutto nel campo sociale. Occorre un concetto che rimandi a un ente territorializzato che sappia, nello stesso tempo, fare da contenitore e relazionarsi come agency con gli altri soggetti. Un ambito che non sia però mero contenitore, semplice spazio a disposizione, ma interlocutore valido e prezioso che sappia mettere in campo strategie di conservazione e equilibrio attivo e possa permettere la propria riproduzione’ (Pierazzuoli, 2022, p. 102). Si tratta di ‘agencement’. ‘Esso indica l’action d’arranger (sistemare) ou d’agencer, mettre en ordre (che si potrebbe tradurre con il ‘rimettere’ di rimettere a posto), pratiche che hanno a che vedere con gesti qua li quelli dell’organizzazione, della disposizione, del mettere assieme. […] Si potrebbe dire che agencement è il piano di lavoro dove si espletano e si rivelano i potenziali di agency delle cose: degli umani, ma soprattutto dei non-umani. È l’energia, la spinta, ma non la causa diretta. L’operare delle agency non è come quello di causa/effetto che è infatti un rapporto gerarchico e non bidirezionale: l’effetto non crea la causa. In questo senso l’agencement è lo strumento topico che mette in relazione natura e cultura. […] In Mille piani, la prima parte che introduce il concetto di rizoma, fa largo uso del termine “agencement” tanto da far pensare che il testo si organizzi più intorno ad esso che non al rizoma. In italiano la cosa non appare in quanto il termine è stato tradotto (correttamente) con ‘concatenamenti’ che hanno un alone semantico molto più ridotto, pur mantenendo un forte potenziale di agency. Nei due testi del progetto ‘Capitalismo e schizofrenia’ agencement è collegato fortemente alla spazialità, al concetto di territorio’ (ibidem); ai processi di territorializzazione. Agencement È il motore, l’azione, l’agentività non di un soggetto, ma di una struttura che cerca e trova forme, concrezioni di senso.

‘I concetti sono concatenamenti (agencements) concreti in quanto configurazioni di una macchina, ma il piano è la macchina astratta i cui pezzi sono i concatenamenti’, dicono altrove Deleuze e Guattari (1996, p. 26). Se il concetto di agency lavorava sulla coppia soggetto-oggetto, l’agencement opera una messa in disparte del soggetto; così come un concatenamento collettivo adombra il soggetto.

«Il termine ‘concatenamento’ non implica alcuna nozione di legame, di passaggio, di anastomosi fra componenti. Diversamente, ci riferiamo a un concatenamento di campi sia di possibili e di virtuali, sia di elementi costituiti, senza alcuna nozione di appartenenza a genere o specie. In questo quadro, gli utensili, gli strumenti e gli attrezzi più semplici acquisiranno lo statuto di protomacchine» (p. 50).

«Il misconoscimento del carattere autopoietico e ontogenetico dei segmenti macchinici è alla base, infatti, delle riduzioni universaliste sul Significante e sulla razionalità scientifica. Le interfacce macchiniche sono eterogenetiche, richiamano l’alterità dei punti di vista che si possono assumere su di esse e, di conseguenza, sui sistemi di metamodellizzazione che permettono di rendere conto, in una maniera o in un’altra, del carattere strutturalmente inaccessibile dei loro fuochi autopoietici» (p. 47).

«È curioso notare come, nel corso del loro processo evolutivo, le macchine, affinché possano acquisire sempre maggior vita, necessitino di una sempre maggiore quantità di vitalità umana astratta. La progettazione tramite computer, i sistemi esperti e l’intelligenza artificiale esonerano dal pensiero e nello stesso tempo esigono pensiero. Alleggeriscono il pensare dagli schemi inerti. Le forme di pensiero assistite dal computer sono mutanti, discendono da altre musiche e da altri Universi di referenza. […] Le semiologie della significazione operano su una gamma di opposizioni distintive di ordine fonematico o scritturale che trascrivono gli enunciati in materie di espressione significanti. Gli strutturalisti hanno eretto il Significante a categoria unificatrice di tutte le economie espressive: la lingua, l’icona, il gesto, l’urbanizzazione, il cinema… Hanno, in tal modo, postulato una traducibilità significante generale di tutte le forme di discorsività» (pp. 51-52).

È quello che avviene oggi, quando la macchina guattariana che aveva potenzialità autopoietiche, viene castrata dall’algoritmo di scopo (la massimizzazione del profitto) ridotto a trovare ‘significanze’ sulle corrispondenze che scova tramite l’analisi di enormi quantità di dati. Una significanza senza senso, come dice Giuseppe Longo a proposito delle tecniche di deep learning. Una causazione solo e soltanto probabilistica dove si perde il senso delle cose. Il senso stesso dei numeri.

«È certamente vero che un certo uso, riduzionista e capitalista, riconduce la lingua a uno stato di linearità significante composto da entità discrete binarie che spengono, zittiscono, depotenziano e uccidono le qualità polisemiche di un Contenuto ridotto alla condizione di “referente” neutro» (p. 83).

L’opposizione macchina/struttura di Guattari, in seguito alle scelte di cui sopra, è oggi come invertita:

«La struttura implica degli anelli di retroazione, mette in gioco un concetto di totalizzazione che domina a partire da sé stessa. È inoltre percorsa da input e output caratterizzati dalla vocazione a farla funzionare secondo un principio di eterno ritorno. È ossessionata da un desiderio di eternità. La macchina, al contrario, è lavorata da un desiderio di abolizione. Il suo emergere si accompagna al guasto, alla catastrofe, alla morte che la minaccia. Possiede la dimensione supplementare di un’alterità che sviluppa sotto forme diversificate. Questa alterità la distingue dalla struttura, centrata su un principio di omeomorfia. La differenza apportata dall’autopoiesi macchinica si fonda sullo squilibrio, sulla prospezione di Universi virtuali lontani dall’equilibrio» (ibidem).

L’eterogenesi macchinica. La macchina algoritmica attuale, quella in mano al capitalismo delle piattaforme, si comporta di fatto in dei termini che Guattari attribuiva alla struttura e non alla macchina. Questo non significa che egli abbia scelto una terminologia errata. Anzi. Il macchinico guattariano, che è profondamente compromesso con l’umano e il biologico, schiude a possibilità inespresse e quindi inaudite; a nuove strade, a nuove vie di fuga. La critica all’uso attuale che il capitalismo fa della macchina digitale non rimanda infatti a una ostilità pregiudiziale nei confronti delle macchine, tutt’altro. In questa macchina, nel suo continuo lavorare nella produzione di flussi desideranti, nell’autopoiesi che le è intrinseca, è possibile intravedere un orizzonte postcapitalista che la struttura meccanica della messa al lavoro della macchina capitalista ci aveva sottratto.

Ma cosa è la macchina autopoietica? Varela distingue due tipi di sistemi: quelli autopoietici e quelli allopoietici. Quest’ultimi sono quei sistemi che producono cose diverse da sé mentre gli altri sono quelli capaci di rigenerarsi e quindi di ri-produrre sé stessi. Era un modo per dare una definizione meno problematica possibile per distinguere i sistemi viventi dagli altri. Guattari propone invece di estendere l’autopoiesi alle macchine, ma non a tutte.

«L’autopoiesi anziché restare chiusa in sé stessa, meriterebbe di essere ripensata in funzione di entità evolutive e collettive che intrat­tengono reciprocamente diversi tipi di relazioni di alterità. In tal modo, istituzioni come le macchine tecniche, rubricate in un primo momento sotto il segno dell’allopoiesi, se considerate nel quadro dei concatena­menti macchinici che intrattengono con gli esseri umani divengono ipso facto autopoietiche» (p. 54).

Avere a disposizione questo tipo di concetto permette cioè di pensare a forme macchiniche aperte al desiderio, immerse nelle relazioni; al cyborg di Donna Haraway, a soggetti simbionti e così via. Alla macchina da guerra rivoluzionaria, così come alla macchina allopoietica del capitale. A macchine estetiche. O, all’opposto, a una macchina capace di riprodursi non soltanto attraverso una ripetizione programmata. Attraverso la rivisitazione del concetto di autopoiesi macchinica è infatti possibile pensare:

«un Essere processuale, polifonico, singolarizzabile, dalle tessiture infinitamente complessificabili, al grado delle velocità infinite che animano le sue composizioni virtuali. […] [Così come] macchine desideranti che entrano in collisione, invertendone i comandi, con i grandi equilibri organici interpersonali e sociali, giocan[d]o il gioco dell’altro nei confronti di una politica di autocentramento sull’io.» (pp. 63-64).

«L’omogenesi (homogenése) capitalista dell’equivalenza generalizzata giunge ad affermare che tutti i valori si equivalgono, a rapportare ogni territorio appropriativo alla misura economica del potere, nonché a far cadere tutte le ricchezze esistenziali in balia del valore di scambio. Alla sterile opposizione fra valore d’uso e valore di scambio è preferibile contrapporre una complessione assiologica che includa tutte le modalità macchiniche di valorizzazione: i valori del desiderio, i valori estetici, i valori ecologici, i valori economici…» (p. 67)

«È durante la fase di passaggio allo stato di diagramma, di macchina astratta disincarnata, che i supplementi d’“anima” del nucleo macchinico si vedono conferire la loro differenza rispetto ai meri agglomerati materiali. Un ammasso di pietre non è una macchina, mentre un muro è già una protomacchina statica che manifesta delle polarità virtuali: un dentro e un fuori, un alto e un basso, una destra e una sinistra… Tali virtualità diagrammatiche ci permettono l’uscita dalla caratterizzazione dell’autopoiesi macchi­nica proposta da Varela nei termini di una individuazione unitaria priva di input e output, ci orientano inoltre verso un macchinismo più collettivo, senza unità delimitate e nel quale l’autonomia si avvale di diversi supporti di alterità» (p. 56).

Un’alterità macchinica, una possibile spina nel fianco nel determinismo filogenetico della macchina capitalista. Conflitto che diviene ancora più chiaro nel momento in cui si confronta l’Occidente bianco con i socius generativi di altre forme di cultura:

«Le società arcaiche appaiono maggiormente attrezzate, rispetto alle soggettività bianche, maschie e capitalistiche, per cartografare la multivalenza dell’alterità» (p. 59).

Il caosmo.

«Le macchine di desiderio e le macchine di creazione estetica, allo stesso modo delle macchine scientifiche, ridefiniscono costantemente le nostre frontiere cosmiche. A pieno titolo dunque sono chiamate a svolgere una funzione eminente in seno a quei concatenamenti di soggettivizzazione cui è affidato il compito di sostituire le nostre ormai vecchie macchine sociali, inadeguate al proliferare di rivoluzioni macchiniche che producono una globale esplosione del nostro tempo. […] Territori di grasping caosmico, in grado di garantire il ricarico possibile della complessità processuale» (p.66).

Una presa, un appiglio una condensazione un agencement. Le cose sono infatti soltanto lo scontornamento di grumi sensibili dal continuum della nostra percezione. Un rallentamento dall’infinitezza caotica (caosmica) delle origini. Guattari cita Pascal: «Sì, ora voglio mostrarvi una cosa infinita e indivisibile. È un punto che si muove in ogni direzione a velocità infinita; perciò è ovunque e nello stesso tempo è interamente in ogni singolo luogo».[1] È questo il caosmo, quel continuum originario dove soltanto un rallentamento può dare forma e consistenza alle cose.

«Un mondo si costituisce solo a condizione di essere abitato da un punto archimedeo di decostruzione, di detotalizzazione e di deterritorializzazione a partire dal quale si incarna una posizionalità soggettiva» (p. 87).

«Questa oscillazione a velocità infinita fra uno stato di grasping caotico e il dispiegamento di complessioni ancorate alle coordinate mondane s’instaura al di qua dello spazio e del tem­po, al di qua dei processi di spazializzazione e di temporalizzazione. Le formazioni di senso e gli stati di cose si trovano in tal modo caotizzati nello stesso movimento che pone in esistenza la loro complessità. Una determinata modalità di entrata in urto caotica con la propria costitu­zione, la propria organicità, la propria funzionalità e i propri rapporti di alterità è sempre alla base di un mondo. […] L’intenzionalità oggettuale più originaria si ritaglia su un fondo di caosmosi. E il caos non è pura indifferenziazione; possiede una trama ontologica specifica. È abitato da entità virtuali e da modalità di alterità che non hanno nulla di universale» (p. 88).

«Io è un altro [Rimbaud]: una molteplicità di altri, incarnata al crocevia componenti di enunciazione parziale che eccedono da ogni parte l’identità individuale e il corpo organizzato» (p. 90).

Per Guattari c’è infatti una forma di complicità tra complessità e caos.

«Questo primo livello di immanenza del caos e della complessità non possiede alcuna chiave di stabilizzazione, di localizzazione e di ritmizzazione delle stasi e degli strati caosmici rallentati, dei “fermo immagine” della complessità, di ciò che impedisce alla complessità di invertire il proprio cammino e precipitare nel caos e di ciò che, al contrario, la spinge a generare limiti, regolarità, vincoli, leggi. Tutti compiti, in sintesi, che deve assumersi la seconda piegatura autopoietica» (p. 111).

«La caosmosi non oscilla quindi meccanicamente fra lo zero e l’infinito, fra l’essere e il nulla, fra l’ordine e il disordine: essa rimbalza e germoglia sugli stati di cose, i corpi e i fuochi autopoietici che utilizza come supporto di deterritorializzazione, è caotizzazione relativa attraverso il confronto fra gli strati eterogenei della complessità» (p. 112).

Dice Guattari, per poi proseguire:

«La potenzialità di evento-avvento di velocità limitate nel cuore delle velocità infinite, costituisce queste ultime come intensità creatrici. Le velocità infinite sono gravide di velocità finite, di conversioni del virtuale in possibile, del reversibile nell’irreversibile, della diversità nella differenza» (p. 112).

La caosmosi funziona qui come la testina di lettura di una macchina di Turing. Il nulla caotico fa scorrere la complessità, la mette in rapporto con sé stessa e con ciò che le è altro, con ciò che la altera. Questa attualizzazione della differenza opera una selezione aggregativa sulla quale si potranno innestare limiti, costanti o stati di cose. Fin da ora non siamo più nelle velocità infinite di dissoluzione.

Il passaggio da caos a materia, il processo generativo è infatti, come abbiamo visto, il rallentamento delle velocità infinite che producevano una cosa infinita e indivisibile.

Nulla potrà far sì che tale avvento-avvenimento di rallentamento primordiale e di selezione non abbia avuto luogo

Glitch, schizo.

Per Heidegger, la nostra relazione principale con gli oggetti non viene dalla loro percezione, ma neppure nel teorizzare su di essi, ma semplicemente nel farci affidamento in vista di uno scopo. L’oggetto tecnico interfacciato con l’umano vive la dimensione dell’uso. “Nell’uso, il soggetto sospende, ossia ‘mette tra parentesi’ la struttura e la connotazione epistemica di ciascun oggetto; l’oggetto diviene così un mezzo o, meglio, un ‘mezzo per’, pragmaticamente connotato dal proprio utilizzo concreto” (Heidegger, p. 100)[2].“Quando ci si accorge della non-utilizzabilità, l’utilizzabile assume il mondo dell’importunità: quanto più urgente è il bisogno di ciò che manca, quanto più esso è effettivamente sentito nella sua non-utilizzabilità, tanto più importuno diventa l’utilizzabile” (Kulesko 2020)[3]. Lo strumento rotto inadeguato e “impertinente”. L’oggetto non giace inerte, nel guasto, nell’inadeguatezza, dimostra la propria impertinenza, una interruzione del meccanismo, un’agency reattiva. È l’oggetto rotto che perdendo la sua destinazione d’uso si apre a una nuova possibilità, a una interazione libera, alla possibilità di giocarci. È lo stesso giocattolo rotto che si dà liberamente all’interazione ludica, meglio del giocattolo merce.

«È dunque in seno agli insiemi di enunciati banali, nei pregiudizi, negli stereotipi, negli stati di fatto aberranti e in una libera associazione del quotidiano che bisogna cogliere, ancora e sempre, i punti Z o Zen della caosmosi. Punti che sono rinvenibili solo “a rovescio” attraverso i lapsus, i sintomi, le aporie, gli acting out sulle scene somatiche, le teatralità familiaristiche, oppure attraverso gli ingranaggi istituzionali. Ciò pertiene al fatto, lo ripeto, che la caosmosi non è propria della psiche individuata. Siamo confrontati a essa nella vita di gruppo, nei rapporti economici, nel macchinismo, per esempio nell’informatica, e anche in seno agli Universi incorporei dell’arte o della religione» (p. 91)

È questa la potenza generativa e autopoietica della macchina, dello schizo, che abita la caosmosi, la relazionalità creatrice, e che si origina da questa.

Ecologia del virtuale.

L’ecologia del virtuale apre a processi di semiosi non orale e men che meno scritturale. Il recupero dell’orale avrebbe forse senso soltanto quando si parla di società senza scrittura e in particolare senza scrittura alfabetica.

«Per la verità, una opposizione troppo marcata fra orale e scritturale non mi pare assolutamente pertinente. L’orale più quotidiano è sovracodificato dallo scritturale; lo scritturale più sofisticato è lavorato dall’orale» (p. 94).

C’è un universo di segni che Guattari aveva già indagato nel testo “Che cosa è la filosofia?” scritto con Deleuze dove si parla della messa al lavoro di percetti e affetti che si attua nella loro surcodifica estetica che ha poi conseguenze anche di morfogenesi etica.

«Per mettere in questione le opposizioni dualiste Essere-Ente, Soggetto-Oggetto e i sistemi di valorizzazione bipolari manichei propongo il concetto di intensità ontologica. Esso implica un impegno etico-estetico del concatenamento enunciativo, sul registro sia dell’attuale sia del virtuale» (p. 46).

«Meglio partire dai blocchi di sensazioni composte dalle pratiche estetiche al di qua dell’orale, dello scritturale, del gestuale, del posturale, del plastico, che hanno la funzione di eludere le significazioni connesse alle percezioni triviali e le opinioni impregnanti il senso comune. Una simile estrazione di percetti (percepts) e affetti (affects) deterritorializzati,1 a partire dalle percezioni e dagli stati d’animo banali, ci fa transitare dalla voce del discorso interiore e della presenza a sé, in ciò che in essi vi può essere di più standardizzato, a itinerari verso forme di soggettività radicalmente mutanti. Soggettività del di fuori, soggettività dell’apertura, che lungi dal temere la finitudine e le prove della vita, del dolore, del desiderio, della morte, le accoglie come un pimento essenziale della cucina vitale» (p. 94).

Si crea una vicinanza con il processo creativo, con la poiesis stessa. Ci sbatte in faccia la visione del genere dell’essere e delle forme

«prima che queste ultime siano inghiottite dalle ridondanze dominanti, dagli stili, dalle scuole, dalle tradizioni della modernità. Una tale forma di arte implica, a mio parere, non tanto un ritorno a un’oralità originaria, quanto una fuga in avanti nelle macchinazioni e nelle vie macchiniche deterritorializzate atte a generare soggettività mutanti» (ibidem).

«Un’ecologia del virtuale è necessaria quanto le ecologie del mondo visibile. Riguardo a ciò, la poesia, la musica, le arti plastiche e il cinema, in particolare a partire dalle loro modalità performative, hanno un ruolo fondamentale da svolgere sia dal punto di vista del loro apporto specifico, sia a titolo di paradigma di referenza in seno a nuove pratiche sociali e analitiche – psicanalitiche in senso estremamente largo. Al di là dei rapporti di forza attualizzati, l’ecologia del virtuale si proporrà non solo di preservare le specie in via di estinzione della vita culturale, ma anche e soprattutto di generare le condizioni di creazione e di sviluppo di formazioni di soggettività inaudite, mai viste, mai sentite» (pp. 95-96)

Come non notare la vicinanza con gli ibridi harawayani e con gran parte del pensiero delle eco-femministe!

È a partire da qui che Guattari cerca di sistematizzare il concetto di ecosofia[4]

«I concatenamenti di desiderio estetico e gli operatori dell’ecologia del virtuale non sono entità facilmente circoscrivibili nella logica degli insiemi discorsivi. Non hanno né interno né esterno. Sono interfaccia fuori limite che secernono interiorità ed esteriorità costituendosi alla radice di ogni sistema di discorsività. Sono dei divenire, intesi come fuochi di differenziazione, dislocati sia nel cuore di ogni campo sia fra i diversi campi per accentuarne l’eterogeneità. Un divenire bambino (per esempio, nella musica di Schumann) è estratto dai ricordi dell’infanzia per incarnare un presente perpetuo che si instaura come ramificazione, come gioco di biforcazione fra divenire femmina, divenire pianta, divenire cosmo, divenire melodico…

Tali concatenamenti (agencements)

«Sono conoscibili non per rappresentazione ma per contaminazione affettiva. Iniziano a esistere in voi, malgrado voi […] Attraverso la composizione estetica, un blocco di percetti e affetti, quale che sia la loro sofisticatezza, agglomera in una stessa presa trasversale il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, il materiale e l’incorporeo, il prima e il dopo… In breve: l’affetto concerne non la rappresentazione e la discorsività, ma l’esistenza. (pp. 96- 97).

Ecco di nuovo la macchina autopoietica che:

«Non è un oggetto “dato” in conformità ad alcune coordinate estrinseche ma un concatenamento di soggettivizzazione che attribuisce valore a Territori esistenziali determinati. Il concatenamento per vivere deve lavorare, si deve processualizzare a partire dalle singolarità che lo colpiscono» (ibidem).

Il rapporto che si ha con la oggettualità estetica, con l’opera, ma anche con la sua mancanza che è egualmente un processo di messa in opera, faccio un gesto di valenza ontologica,

«attribuisco vita a una cristallizzazione ontologica complessa, a un’alterificazione dell’esserci. Intimo all’essere di esistere altrimenti e gli estorco nuove intensità. È necessario precisare come una simile produttività ontologica non sia affatto riducibile a un’alternativa essere-ente o essere-nulla? Io non è solamente un altro, ma una moltitudine di modalità di alterità. […] La soggettività informatica ci allontana a grande velocità dai vincoli della vecchia linearità scritturale» (pp. 99-100).

Ci si potrebbe chiedere il senso pratico e politico di un’ontologia del virtuale che nasca da una proliferazione di pratiche estetiche. Ma a ben pensare, dietro tutti questi ragionamenti emerge il potere destituente degli stessi. Mette in discussione tutti i processi di soggettivazione; la stessa consistenza di un soggetto che possa prendere coscienza della propria appartenenza a una soggettività plurale e antagonista. Guattari chiarisce infatti che intende parlare non di quello che Arte significa oggi ma di un paradigma che proestetico.

Si auspica una trasformazione che l’abbondanza di strumenti legati alla comunicazione potrebbe favorire se non fossero stati monopolizzati da poche figure di imprenditorialità capitalista che sono riuscite ad appropriarsene finalizzandole solo e soltanto alla produzione del profitto. Ma il risultato non è soltanto questa sottrazione ma anche un controllo pervasivo e una performatività capace di attuare forme di assoggettamento mai esperite in precedenza. Guattari ne vedeva invece le potenzialità eversive che rimangono tali. Si tratta ancora una volta di uno scontro di interessi, di “lotta di classe” dove, per adesso, ha vinto il capitale. (Vedi qui).

«La connessione di informatica, telematica e nuove tecnologie audiovisive può rappresentare un passo decisivo verso l’interattività, verso l’ingresso in un’età postmediatica, nonché, in correlazione a ciò, verso un’accelerazione del ritorno macchinico dell’oralità […] La morale dell’oralità! Nel farsi macchinica, macchina estetica e macchina molecolare di guerra – si pensi all’importanza che riveste oggi, per milioni di giovani, la cultura rap – può divenire una leva essenziale di risingolarizzazione soggettiva e generare altri modi di sentire il mondo, nuove apparenze delle cose e anche una costruzione differente degli eventi» (p. 100).

«Io non è solamente un altro, ma una moltitudine di modalità di alterità. […] L’eterogenesi delle componenti – verbali, corporee, spaziali – genera un’eterogenesi ontologica tanto più vertiginosa, quanto più, oggi, è in grado di coniugarsi sia con la proliferazione di nuovi materiali e di nuove rappresentazioni elettroniche, sia con un restringimento delle distanze e un allargamento dei punti di vista» (p. 99).

Ma Guattari non è capace soltanto di osservare nella cibersfera (che si poteva allora soltanto intravedere), una possibilità di una sua conversione eversiva, ma anche di intuire le forme di condizionamento che il capitale avrebbe potuto esercitare su di essa.

«Le materie di espressione si trovano lanciate nell’orbita della valorizzazione economica del Capitale, orbita nella quale i valori del desiderio, i valori d’uso e i valori di scambio sono trattati sulla base di un criterio di eguaglianza formale e le intensità non discorsive sono sottoposte al giogo dei rapporti binari e lineari. La soggettività si è standardizzata attraverso una comunicazione che evacua, per quanto gli è possibile, le composizioni enunciative transmodali e amodali e che tende all’affossamento progressivo della polisemia, della prosodia, del gesto, della mimica e della postura in favore di una lingua rigorosamente assoggettata alle macchine scritturali e alle loro mutazioni massmediatiche. Nelle sue forme contemporanee più estreme, una comunicazione di tal genere si riduce a uno scambio di gettoni informazionali calcolabili in quantità di bits (binary digits) e riproducibili tramite computer».

Concatenamenti territorializzati di enunciazione. Si tratta di come costumi sociali di tipo creativo e comunicativo si siano trasformate in Occidente in pratiche artistiche di esclusivo appannaggio di un gruppo ristretto di membri. I “concatenamenti territorializzati di enunciazione” sarebbero perciò il recupero di comportamenti capaci di fondare un nuovo paradigma estetico.

«La danza, la musica, l’elaborazione di forme plastiche e di segni sul corpo, sugli oggetti e sul suolo, nelle società arcaiche erano intimamente legate ai momenti rituali e alle rappresentazioni religiose. I rapporti sociali e gli scambi economici e matrimoniali erano, in maniera uguale, scarsamente discernibili dalla vita d’insieme […] Attraverso diversi modi di semiotizzazione, sistemi di rappresentazione e pratiche multireferenziate, tali concatenamenti producono la cristallizzazione di segmenti complementari di soggettività. Liberano un’alterità sociale coniugando la filiazione e l’alleanza; inducono un’ontogenesi personale attraverso il gioco delle generazioni e delle iniziazioni, in modo che ogni individuo si trova avvolto in plurime identità trasversali collettive o, se si preferisce, al crocevia di numerosi vettori di soggettivizzazione parziale […] Una simile compenetrazione fra il socius, le attività materiali e i modi di semiotizzazione lascia poco spazio alla divisione e alla specializzazione del lavoro – la stessa nozione di lavoro rimane estremamente sfumata – e ancor meno alla liberazione di una sfera estetica distinta dalla sfera economica, sociale, religiosa, politica». (p. 101).

I «Concatenamenti territorializzati di enunciazione. Essi non costituiscono, in senso proprio, una specifica tappa del corso storico. Pur essendo infatti caratteristici delle società senza scrittura e senza stato, ne troviamo sopravvivenze quando non rinascite attive nelle società capitalistiche sviluppate e possiamo senza dubbio pensare che conserveranno un peso significativo nelle società postcapitaliste. Aspetti dello stesso genere di soggettività polisemica, animista e transindividuale si ritrovano egualmente nel mondo della prima infanzia, della follia, della passione amorosa, della creazione artistica» (p. 103).

Tempo della chiesa e tempo del mercante è il titolo di un bel libro di Jacques Le Goff. La percezione del tempo è fortemente sottoposta ai condizionamenti sociali e fonda anche le forme di territorializzazione di Guattari:

«Orizzonte residuale del tempo discorsivo (il tempo scandito dagli orologi sociali), una durata eternitaria sfugge all’alternativa ricordo-oblio e abita, con un’intensità stupefacente, l’affetto della soggettività territorializzata. Il Territorio esistenziale si fa quindi, nello stesso tempo, terra natale, appartenenza all’io, attaccamento al clan, effusione cosmica. […] Strati spaziali polifonici, spesso concentrici, paiono attrarre e colonizzare ogni livello di alterità generato. In rapporto a essi, gli oggetti si instaurano in una posizione trasversale, vibratoria, che conferisce loro un’anima, un divenire ancestrale, animale, vegetale, cosmico. Simili oggettità-soggettità (objectités-subjectités) tendono a operare per proprio conto, a incarnarsi in fuochi animisti; si cavalcano l’un l’altra, si invadono reciprocamente per costituire entità collettive metà cosa e metà anima, metà uomo e metà bestia, macchina e flusso, materia e segno… L’estraneo, lo strano e l’alterità malefica sono rigettati verso un esterno minaccioso» (p. 104).

«La magia, il mistero e il demonico non emaneranno più, come un tempo, dalla medesima aura totemica».

Gli stessi territori esistenziali performati dalle variazioni del paradigma estetico si diversificano

«si eterogeneizzano. L’evento non più chiuso sul mito diviene fuoco di rilancio processuale» (p. 107).

Ecosofia

È qualcosa, un contenitore concettuale più grande di quello ecologico. Contiene

«la vita delle specie animali e vegetali e la vita delle specie incorporee come la musica, l’arte, il cinema, il rapporto con il tempo, l’amore, la compassione all’altro, il sentimento di fusione nel cosmo» (p. 119)

Presuppone la costituzione di mezzi di concertazione tra le agency presenti nel mondo e Guattari ipotizza che non sia da escludere che, a questo scopo, possano contribuire i nuovi strumenti informatici; mezzi che provengono dall’infosfera allora in costruzione. Ma bisognava tenere conto di come questi mezzi – insieme agli altri – venissero concepiti, descritti, in definitiva plasmati, nella struttura sociale. Nell’attualità politica che già da allora si poteva ipotizzare. Siamo due anni dopo la caduta del muro di Berlino. Si stava costruendo quello che Fisher ha chiamato il “Realismo Capitalista”: l’impossibilità di pensare a un mondo alternativo a quello capitalista. Sul finire di un secolo dominato, tra le altre cose, dallo sviluppo tecno-scientifico attraverso il quale lo scontro tra progresso e conservazione si era trasferito dall’ambito sociale in direzione di un progressismo solo e soltanto tecnico-produttivo al quale era imputabile il disastro ambientale già allora tangibile.

«È in nome dei Lumi, delle libertà, del progresso e, quindi, dell’emancipazione dei lavoratori che si è costituito, come una sorta di referenza di base, l’asse destra-sinistra. Oggi, la conversione delle socialdemocrazie se non al liberismo quantomeno al primato dell’economia di mercato e il crollo generalizzato del movimento comunista internazionale hanno lasciato vuoto uno dei termini della bipolarità. […] penso che una polarità progressista sia chiamata a strutturarsi secondo schemi più complessi e secondo modalità meno giacobine, più federaliste, più dissidenti, in opposizione al montare dei conservatorismi, dei centrismi, dei neofascismi. […] Le autentiche poste politiche, sociali ed economiche sfuggono sempre più alla giostra elettorale, ridotta ormai a mera disputa massmediatica» (pp.

Occorre:

«Una presa di coscienza ecologica ampliata, che oltrepassi di gran lunga l’influenza elettorale dei partiti “verdi”, dovrà in primo luogo rimettere in questione l’ideologia della produzione per la produzione, della produzione cioè polarizzata unicamente sul profitto nel contesto capitalista del sistema dei prezzi e del consumismo debilitante. L’obiettivo dev’essere non la semplice assunzione dei poteri statuali in sostituzione delle borghesie e delle burocrazie al potere, ma la determinazione puntuale di ciò cui si vuole dar vita. […]

– la ridefinizione dello stato, o piuttosto delle multiple, eterogenee e spesso contraddittorie funzioni statuali;

– la decostruzione del concetto di mercato e il ricentramento delle attività economiche sulla produzione di soggettività» (p. 121)

«Parlare di macchina anziché di pulsione, di Flussi anziché di libido, di Territori anziché di istanze dell’io e di transfert, di Universi incorporei anziché di complessi inconsci e di sublimazione, di entità caosmiche anziché di significante; inserire circolarmente le dimensioni ontologiche anziché scindere il mondo in struttura e sovrastruttura. Non si tratta di mere questioni terminologiche! Gli strumenti concettuali aprono e chiudono campi di possibile, catalizzano Universi di virtualità. […] La liberazione di opzioni etico-politiche relative sia agli aspetti microscopici della psiche e del socius, sia al destino globale della biosfera e della meccanosfera richiama una permanente rimessa in questione dei fondamenti ontologici di ogni modo di valorizzazione. […] Il tratto comune a tutte queste pratiche sembra essere l’espressione verbale. La psicosi, la coppia, la famiglia, la vita di quartiere, il rapporto con il tempo, lo spazio, la vita animale, i suoni, le forme plastiche: tutto dovrebbe essere messo nella condizione di essere parlato» (pp. 124-125).

In questo contesto la destra europea

«in forza della sua abilità a occupare la scena dei media, ma soprattutto a causa del cedimento dei Territori esistenziali della soggettività della sinistra e della perdita progressiva dei valori eterogenetici relativi all’internazionalismo, all’antirazzismo, alla solidarietà, alle pratiche sociali innovatrici… Comunque sia, gli intellettuali non dovranno più erigersi a maîtres à penser, né presentarsi come mentori morali, viceversa dovranno lavorare, fosse pure in solitudine, alla messa in circolazione di strumenti di trasversalità» (p. 127).

Si tratta ancora una volta di estrarre dal continuum caosmotico grumi di senso da pilotare in una direzione che generi instancabilmente nuove cartografie del mondo e che non cessi di lavorare a questo scopo. “Una produzione mutante di enunciazione”

«…la messa in luce di un’entropia negativa in seno alla banalità dell’ambiente. La consistenza della soggettività si mantiene infatti soltanto attraverso un costante rinnovamento, mosso da una risingolarizzazione minimale, individuale e collettiva. […] Non si tratta semplicemente di arredare il tempo libero dei disoccupati e degli “emarginati” nelle case della cultura! È infatti la produzione stessa della scienza, della tecnica e dei rapporti sociali a essere chiamata a transitare verso dei paradigmi estetici. Basti rinviare all’ultimo libro di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, nel quale troviamo evocata, per costruire una credibile concezione dell’evoluzione, la necessità dell’introduzione nella fisica di un elemento narrativo[5]» (pp. 128-129).

«Al di là delle rivendicazioni materiali e politiche, emerge l’aspirazione a una riappropriazione individuale e collettiva della produzione di soggettività. […] E, al termine di una lenta ricomposizione di concatenamenti di soggettivizzazione, le esplorazioni caosmiche di un’ecosofia che articoli fra loro le ecologie scientifiche, politiche, ambientali e mentali dovranno prendere il posto delle vecchie ideologie che, avendo settorializzato in maniera abusiva il sociale, il privato e il civile, si sono rivelate strutturalmente incapaci di stabilire confluenze trasversali fra la politica, l’etica e l’estetica» (p. 130).

Conclusione.

«La soggettività, come l’acqua e l’aria, non è un dato naturale. Come produrla, captarla, arricchirla, reinventarla continuamente in maniera da renderla compatibile con Universi di valore mutanti? Come lavorare alla sua liberazione, cioè alla sua risingolarizzazione? La psicoanalisi, l’analisi istituzionale, il cinema, la letteratura, la poesia, le pedagogie innovative, l’urbanizzazione e le architetture creatrici… Tutte le discipline debbono congiungere la loro creatività per scongiurare le prove della barbarie, dell’implosione mentale e dello spasmo caosmico che si profilano all’orizzonte. Rischi da scongiurare e da trasformare in ricchezze e gioie imprevedibili, le cui promesse sono assai tangibili» (p. 131).

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  1. Pascal, B. (1670), Pensées, Guillame Desprez, Saint Prosper; tr. it. di P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 65.
  2. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976
  3. Claudio Kulesko. Macchine compositive, in Massimo Filippi e Enrico Monacelli (a cura di), Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, ombre corte, Verona 2020.
  4. Vedi anche quella specie di testamento politico costituito dal suo ultimo saggio “Pour une refondation des pratiques sociales” pubblicato su: Le monde diplomatiques, nell’ottobre del 1992. Testo che trovi qui per la prima volta tradotto in italiano
  5. “Per l’uomo d’oggi, il Big Bang e l’evoluzione dell’universo fanno parte del mondo allo stesso titolo dei miti dell’origine in passato” Prigogine, I., Stengers, I. (1988), Entre le temps et l’éternité, Fayard, Paris; tr. it. di C. Tatasciore, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino 1989.