Come regolare i paraocchi: la trasversalità oltre Guattari

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Nel trentennale dalla morte di Félix Guattari, con il gentile permesso della casa editrice, pubblichiamo un brano tratto da: a cura di Andrea Ghelfi, Félix Guattari, Quaderni di Testalepre 2017/18, pp. 128, € 13.00. Questa l’Introduzione di Andrea Ghelfi.

Tra le mani hai un quaderno. Un quaderno autoprodotto, che vive delle energie e della passione di chi lo ha scritto, aggiustato, impaginato, rivisto e progettato. Vuole essere il primo di una serie di quaderni, i quaderni di Testalepre.

Testalepre è il nome di un poggio che si trova tra Mercatale e Panzano, nel Chianti, quasi a metà strada tra Firenze e Siena, e di un podere genuino dove si coltiva la terra e si coltivano relazioni, saperi, pratiche. Lo scorso anno, a fine settembre del 2017, qui si sono ritrovate una ventina di persone a discutere di Guattari. Da questo buon incontro nasce l’idea della raccolta dei materiali, e dunque dei quaderni. Lo stesso proveremo a fare producendo un secondo numero dei quaderni a partire dal Retreat 2018, dedicato a Donna Haraway. Abbiamo in testa di continuare di questo passo, riproponendo i retreat e i quaderni a cadenza annuale.

Oltre a una serie di materiali che provengono dalle relazioni e dalle discussioni che hanno animato il retreat, in questo numero trovate due interviste inedite in lingua italiana a Felix Guattari. Sono interviste davvero belle. Semplici, dirette, emotivamente dense. Abbiamo deciso di collocarle in apertura del volume per farvi accedere direttamente, senza mediazioni, al mondo esistenziale e politico di Guattari. Al suo modo di fare mondo e di fare del senso. A queste interviste fanno seguito una serie di contributi.

Andrea Ghelfi ci offre una breve introduzione al pensiero di Guattari a partire da alcune parole chiave del suo pensiero quali ‘68, desiderio, rivoluzione molecolare, ecosofia, scienze minori. Marco Checchi ci presenta il concetto di trasversalità, ponendo in relazione il pensiero di Guattari con importanti complici della sua avventura intellettuale e politica, come Deleuze e Foucault. Emanuele Leonardi ci invita a ‘ritornare a Guattari’ per orientarci nella crisi ambientale planetaria a noi contemporanea: si tratta di note preziose per chi pratica un intervento politico-ecologico anticapitalista. Alessio Kouliolis ci parla, a partire dalla necessità di rompere il ritornello del capitalismo cognitivo, del rapporto tra musica e soggettività in Guattari.

Ubaldo Fadini ci offre una ricca passeggiata intellettuale, nel corso della quale la qualificazione guattariana della soggettività come costitutivamente parziale – e dunque sempre aperta a combinazioni e aggregazioni variabili di singolarità – risuona con problemi e contributi provenienti da una lunga serie di autori di lingua francese, tedesca e anglosassone. Tiziana Villani ci propone una riflessione attorno all’ecologia politica nella quale il contributo di Guattari è particolarmente prezioso per mettere a fuoco un insieme di trasformazioni politiche, sociali e culturali che investono lo spazio urbano. Le città sono lette da Tiziana come punti di condensazione dei conflitti tra le ragioni del profitto e i bisogni di una buona vita. Claudio Kulesko e Francesco Demitry usano il pensiero di Gorz e Guattari come un trampolino di lancio che ci catapulta in una serie di pratiche specifiche e di avventure concettuali attorno alla categoria di eterogenesi.

Infine, eccoci ai ringraziamenti. Raffaele Nencini ha pensato, assieme a me, questo volume. Di Raffaele sono le traduzioni delle interviste a Guattari, il desiderio di cominciare questa avventura, e la passione per voler fare questi strani oggetti di carta che ci accompagnano nella nostra vita, rendendocela più dolce. Giulia Raineri, con la sua dolcezza e pazienza, ha fatto di molti fogli un libro. Martina Martignoni ci ha sfamato durante il retreat, e ha badato a quel che si stava facendo nelle fasi finali del libro. Ringrazio Claudio, Francesco, Tiziana, Lele, Ubaldo, Alessio e Marco che si sono messi a scrivere con entusiasmo e generosità. Ringrazio chi ha partecipato al Retreat Guattari, perché senza una partenza così incoraggiante mai ci sarebbe venuto in mente di fare un quaderno autoprodotto. A Felix Guattari, che ci ha radunato tra queste colline e tra queste pagine.

Andrea, Testalepre, Luglio 2018

INDICE

Introduzione

Andrea Ghelfi

Ricreare il mondo

Félix Guattari

Sono un ladro di idee

Félix Guattari

Ieri, oggi e domani

Andrea Ghelfi

Come regolare i paraocchi: la trasversalità oltre Guattari

Marco Checchi

Guattari e l’ecologia politica. Note per orientarsi, oggi, nella crisi ambientale planetaria

Emanuele Leonardi

Politicizzare il suono. Note su musica e soggettività in Guattari

Alessio Kouliolis

Una passeggiata con tratti avventurosi. Ancora un saggio sulle “necessità facoltative”

Ubaldo Fadini

Decrescita e spazi urbani. Territori dell’ecologia politica

Tiziana Villani

Zoe – Eterogenesi e autocatalisi a partire dal pensiero di Félix Guattari

Claudio Kulesko e Francesco Demitry

Questo è invece il testo di Marco Cecchi

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Marco Checchi

Come regolare i paraocchi: la trasversalità oltre Guattari

La trasversalità ci fa subito pensare a delle coordinate spaziali. Visualizziamo una serie di linee e possiamo distinguerle secondo il loro orientamento: orizzontali, verticali, trasversali. Secondo questa distinzione, dividiamole assegnando ognuna al suo gruppo di appartenenza. Che troviamo? Tutte le linee orizzontali variano per lunghezza, ma sono tutte sovrapponibili. Lo stesso succede per le verticali. L’unica cosa che invece accomuna tutte le linee trasversali è il fatto che non sono né orizzontali e né verticali. Le definiamo per difetto, non per quello che sono, ma perché si differenziano dagli altri due tipi. Però le trasversali ci sorprendono per la loro infinita varietà: infinite inclinazioni che intersecano l’orizzontale e il verticale in maniere sempre diverse. E allora perché definirle per difetto? Non sono le orizzontali e le verticali che hanno qualcosa in meno? Monotone, sempre uguali, cristallizzate.

Più tardi in questo testo incontreremo dei cavalli in un recinto con i loro paraocchi. Guattari ci dice che il grado di apertura dei paraocchi corrisponde al coefficiente di trasversalità. Questa idea del coefficiente di trasversalità può aiutarci a ribaltare le nostre definizioni iniziali. Se guardiamo a tutte le linee di prima tramite questa lente, il risultato è sorprendente: sia le linee orizzontali che le linee verticali si presentano con un coefficiente di trasversalità nullo. Linee orizzontali e linee verticali sono linee non trasversali!

Perché istintivamente avevamo definito la trasversalità per difetto? Perché l’orizzontale e il verticale sono dimensioni che danno il senso di stabilità, che ci fanno immaginare una struttura architettonica o organizzativa ben definita, ordinata. E tutto intorno a noi ci sembra spesso stabile, ordinato e immutabile: l’ordinarietà dell’ordine.

Da un problema di coordinate spaziali abbiamo sconfinato troppo in fretta in considerazioni politiche e sociali. In fretta, ma non a caso. Perché con questa irruzione in un altro campo si è evitato uno sviluppo stabile (verticale o orizzontale) del testo. Un taglio trasversale che ci mette subito in comunicazione con un pensiero inaspettato. Questo è quello che proverò a fare in questo testo. Partiamo con l’idea di trasversalità presentata da Guattari nel contesto della pratica psicanalitica nella terapia istituzionale per poi tracciare connessioni con altri autori e con altre esperienze teoriche e politiche. Più che definire la trasversalità, proverò a presentare il suo potenziale creativo e la possibilità di pensare pratiche organizzative non gerarchizzanti, non cristallizzate e sperimentalmente aperte.

Trasversalità e psicoanalisi

Il primo testo in cui Guattari introduce il concetto di trasversalità si colloca su un piano specificatamente psicoanalitico. Siamo prima del ’68, ma si può già intravedere come l’idea porti con sé un potenziale politico che Guattari non tenta affatto di mascherare. Questa traccia che collega psicoanalisi e politica non possiamo che definirla un intervento trasversale che mette in comunicazione due piani distinti per esplorare un potenziale creativo di trasformazione sia dell’istituzione psichiatrica che della società in generale. Il testo (La trasversalità)[1] è stato presentato al I Congresso Internazionale di psicodramma tenutosi a Parigi nel settembre del 1964.

Il punto di partenza è la critica del complesso edipico. Il problema non può essere vincolato all’analisi dell’individuo e del suo contesto famigliare, ma deve essere compreso nelle sue cause sociali e nei suoi effetti sulla società. Il focus puramente individuale lascia aperta una serie di interrogativi, ma soprattutto lascia aperte una serie di problematiche relative non solo a come l’individuo forma la sua soggettività ma anche a come un’organizzazione sociale emerge attraverso queste pratiche di soggettivazione. L’evoluzione dell’Io raggiunge una fase di maturità con il superamento del complesso edipico. Una volta capito che non può ottenere il suo oggetto desiderato (l’amore della madre) a causa della presenza del padre, l’individuo supera la situazione di ansia generata dalla presenza di questa competizione tramite l’accettazione della castrazione (la perdita del membro e quindi la fine dell’ansia causata dal duello con il padre). Guattari nota che: “Si trova normale far seguire alla risoluzione del complesso di Edipo una buona integrazione ad un livello sociale”.[2] Ma questa integrazione è davvero buona? Che fare di tutte le angosce che ci portiamo dietro (e che spesso aumentano!) nella fase adulta? Come spiegare la persistenza dell’angoscia anche in assenza della situazione di pericolo?

Questa è la domanda fondamentale di Guattari per cui bisogna interrompere questa continuità tra risoluzione del complesso edipico e integrazione sociale. Ed è qui che Guattari dimostra come una società fondata sul complesso edipico potrà solo essere destinata a una cieca ripetizione. Infatti, è lo stesso Freud ad avvertirci che l’angoscia che persiste come paura del Super-io è di fatto un bene per far sì che l’individuo possa vivere all’interno della società. Per Freud, la stabilità dei rapporti sociali è resa possibile soltanto da un’angoscia che forma la base del nostro senso morale. La società quindi si fonda su questa angoscia morale che diventa quindi indispensabile. Questa moralità però non si sviluppa razionalmente secondo un’etica organizzativa, secondo cioè il tipo di società che vorremmo creare o che dovremmo inventare. Si tratta di una moralità che si fonda su un bisogno inconscio di colpevolezza. Nel momento che castrazione e colpevolezza vengono posti alla base della regolazione dell’ordine sociale (l’indispensabilità dell’angoscia morale per i rapporti sociali), ci troviamo di fronte a una “moralità irrazionale in cui la punizione non troverà la sua giustificazione se non in una legge della ripetizione cieca”.[3]

Questo tipo di problematica è ciò che costituisce l’oggetto della terapia istituzionale. L’intento è quello di cambiare i dati di accettazione del Super-io (accettazione della perdita del membro che riproduce l’angoscia morale come regola sociale cieca e inconscia). La terapia istituzionale cerca di accedere all’istanza latente del gruppo, al suo desiderio per modificare i dati di accettazione del Super-io. Questi dati devono essere trasformati in modo tale da produrre un’accettazione di tipo differente, che Guattari definisce “iniziatica”[4], una pratica sperimentale. Quello che è noto e che costituisce l’orizzonte di questa esperienza è l’obiettivo: vanificare la cieca domanda sociale per una determinata specie di procedura di castrazione (quella edipica). Perché? Perché la cecità che porta a ripetere questo tipo di castrazione finisce per escludere ogni altra possibile pratica di accettare e superare la castrazione.

In questo senso la specificità dell’analisi di gruppo sta nel tentativo di sgomberare uno spazio, a creare un interstizio attraverso cui lasciar fluire e interpretare il desiderio di gruppo. I problemi che l’analisi di gruppo si pone riguardano il gruppo prima della sua cristallizzazione, prima che il suo potenziale creativo prenda la forma di una struttura gerarchizzante. Questo tipo di interpretazione, in quanto intervento simbolico, è identico al transfert. L’interpretazione però non può seguire uno schema fisso, né va attribuita a un ruolo specifico. Qua comincia a delinearsi il modo in cui Guattari si stacca nettamente dalle considerazioni tradizionali sulla psicoanalisi e sul ruolo del transfert.

L’accesso al desiderio del gruppo è sbarrato se lo psichiatra o l’infermiere instaurano un tipo di transfert che riproduce gli stereotipi e i ruoli predeterminati nella struttura dell’istituzione: “Finché lo psichiatra o l’infermiere detengono una particella di potere, devono essere tenuti responsabili di tutto ciò che cancella la possibilità di espressione della soggettività inconscia dell’istituzione”.[5] Se lo psichiatra esercita il suo ruolo come ripetizione della gerarchizzazione, il desiderio di gruppo rimane inaccessibile in quanto lo psichiatra contribuisce attivamente alla cristallizzazione del gruppo che sostituisce al desiderio collettivo e al suo potenziale creativo una corporeità e pesantezza che ne determinano il suo isolamento. Il concetto di transfert nella pratica terapeutica si è sedimentato di fatto in una struttura di potere altamente cristallizzata. Il transfert, anche se necessario nell’analisi di gruppo come intervento simbolico, corre il rischio di non mantenere fede al suo intento originario, contaminato come è da queste istanze gerarchizzanti che ne accompagnano la pratica.

Il problema ovviamente non si ferma al transfert come pratica terapeutica e alla sua cristallizzazione dovuta all’irrigidimento istituzionale manifestato dalle sue strutture di potere. Il problema si estende alla formazione e all’evoluzione del gruppo e coinvolge tutti i suoi membri indistintamente. È da questo momento che la discussione di Guattari si trasforma da una critica delle pratiche terapeutiche a una densa riflessione sul problema dell’organizzazione in generale: come si (auto-)organizza un gruppo? Quali potenzialità può avere? Quali sono i rischi che bloccano queste potenzialità?

Guattari parte da un dato maturato dall’esperienza della terapia istituzionale. La modalità in cui l’individuo si rapporta inconsciamente al gruppo “si rifiuta sistematicamente di rispettare la specificità [del] grado simbolico del fantasma di gruppo”.[6] L’individuo non è in grado di rapportarsi al desiderio di gruppo e al gruppo stesso come un qualcosa di simbolico, ma gli conferisce una materialità, una corporeità. Il collettivo fa circolare una serie di significanti presi dalla contingente esperienza del sociale che in qualche maniera tratteggiano una struttura più o meno definita e una conseguente distribuzione di ruoli all’interno del gruppo. Cominciano a circolare una serie di descrizioni formali e apparentemente razionali che si spacciano per le caratteristiche naturali di ogni gruppo: l’organizzazione gerarchica, la verticalità della struttura, l’efficienza organizzativa, la razionalizzazione dei processi, regole fisse, l’ordine. Questa operazione definisce una “corporeizzazione immaginaria” in cui la struttura, fino ad ora tratteggiata nel potenziale dei significanti messi in circolo dal collettivo, si cristallizza. Quello che sembrava naturale viene assorbito dal gruppo e sovrapposto al modo in cui il gruppo progressivamente si forma e si organizza. È ovvio che tutte queste dinamiche, per quanto fin troppo familiari anche alla nostra esperienza, hanno ben poco di naturale. E, di conseguenza, rappresentano un destino di ogni gruppo, ma non un destino ineluttabile. Per Guattari però c’è un’alternativa a questa ripetizione cieca.

A questo proposito, Guattari propone una distinzione tra due tipi di gruppo: gruppi dipendenti/assoggettati e gruppi indipendenti (o gruppi soggetto). Più che due tipologie assolutamente distinte, si tratta di due polarità opposte: ogni gruppo oscilla tra queste due posizioni. Tutto il processo per cui un individuo (indifferentemente se un paziente, infermiere o dottore) tende a cristallizzare il gruppo in una struttura formale e gerarchica riproducendo schemi consuetudinari, si colloca dal lato del gruppo assoggettato. Tale gruppo assume una soggettività “alienata a perdita d’occhio nell’alterità sociale”[7]: subisce il suo rapporto con l’esterno, ne importa la legge e le sue operazioni gerarchizzanti. Tale gruppo ovviamente non forma una soggettività autonoma, ma alienata rispetto a sé stessa che si perde in un mondo che gli impone una specifica posizione gerarchica.

Il gruppo soggetto invece è quello con una vocazione: cerca di controllare il proprio comportamento e di comprendere il suo oggetto. Definisce la sua struttura e la sua organizzazione, e opera il disimpegno da una gerarchizzazione delle strutture che gli permetterà di aprirsi al di là degli interessi del gruppo[8]. In realtà, non si oppone di per sé a una struttura gerarchica, ma si oppone a una struttura gerarchica importata dall’esterno. Guattari non rigetta del tutto l’idea di una certa verticalità (cosa che invece troviamo molto spesso accompagnata a una celebrazione dell’orizzontalità). Ma si tratta di inventare una verticalità propria del gruppo, funzionale al suo obiettivo e aperta alla sua modificazione e al mondo. Sembra definire una gerarchizzazione sperimentale che rifiuta ogni tendenza alla sua cristallizzazione, che fa dell’apertura la sua forza di cambiamento e la sua capacità creativa. Un’apertura sfrontata e sperimentale al non-senso, all’alterità radicale, alla morte del gruppo stesso. Ciò che rimane aperto è il processo di organizzazione del gruppo. Il gruppo soggetto non si presenta come organizzazione compiuta, ma prova a mantenere vivo il processo organizzativo che parte al momento della formazione del gruppo prima che ogni razionalizzazione o struttura blocchi tale processo. Alla base di ogni gruppo c’è la formazione di un desiderio collettivo che ha un potenziale creativo indefinito. Per entrare in contatto con questo potenziale creativo senza territorializzarlo in strutture già esistenti, c’è bisogno di un’interpretazione che deve avvenire negli slittamenti di senso, nelle rotture, nei momenti in cui il gruppo rivela l’instabilità delle sue regole e la possibilità della loro costante rielaborazione. Attraverso questi interstizi ci si apre al non-senso, a un’esplorazione sperimentale che non ha punti di riferimento e che è sperimentale e creativa proprio per l’assenza di punti di riferimento prestabiliti. Cos’è infatti la creatività se non quella ricerca che va al di là dei confini del famigliare, di quello che ci sembra avere senso? La creatività è entrare in rapporto con un non-ancora-esistente che potrebbe non esistere mai.

Al non senso, il gruppo assoggettato invece preferisce ripetersi i suoi clichés, le sue parole d’ordine. Si chiude in una ripetizione che lo isola da ciò che esso non rappresenta direttamente. Chiude la possibilità di dire qualcosa di reale, di articolare una parola vera che metta in connessione altri tipi di discorso – storico, scientifico, estetico, etc. Questo è lo scacco che ogni tentativo organizzativo porta con sé: chiusura, irrigidimento, cristallizzazione, blocco del potenziale creativo.

Come fare dunque ad evitare questo scacco? Come preservare e alimentare quel potenziale creativo sempre in procinto di essere cristallizzato in una struttura gerarchica rigida? Come accedere a quel desiderio di gruppo che ne rivela il potenziale creativo? Il problema dell’organizzazione (o del processo organizzativo) di un gruppo soggetto coincide con il problema di come produrre un’interpretazione che non riproduca gli schemi irrigiditi del transfert. Ed è esattamente di fronte a queste problematiche che Guattari propone l’idea della trasversalità.

Che cos’è la trasversalità? È la ricerca sperimentale di un processo organizzativo aperto. Guattari ci propone due immagini di animali: porcospini e cavalli. I porcospini sono quelli di Schopenhauer che non possono stare né troppo lontani e né troppo vicino gli uni dagli altri. Il freddo da una parte e gli aculei dall’altra definiscono le polarità della loro ricerca della giusta distanza: prima si soffre il freddo, poi ci si punge, si soffre di nuovo il freddo, ci si punge di meno, meno freddo, non ci si punge più. Piccoli tentativi, piccoli esperimenti, cambi di regole, creatività. L’immagine dei cavalli invece sembra essere elaborata da Guattari in relazione diretta con il contesto ospedaliero e il suo posizionamento all’interno di più vaste dinamiche sociali. I porcospini si organizzano autonomamente in isolamento rispetto all’ambiente circostante. I cavalli di Guattari sono invece all’interno di un processo organizzativo più ampio in cui i cavalli non sono i soli ad intervenire.

Mettete in un campo chiuso dei cavalli con dei paraocchi regolabili e diciamo che il ‘coefficiente di trasversalità’ sarà esattamente quello dato dalla posizione dei paraocchi. È probabile che nel momento in cui i cavalli saranno completamente ciechi, si produrrà un certo tipo di incontro traumatico. Man mano che si apriranno i paraocchi si può pensare che la circolazione si farà più armoniosa.[9]

Il campo chiuso in questo caso rappresenta l’istituzione psichiatrica. I cavalli non rappresentano invece solo i pazienti, ma tutte le figure che interagiscono all’interno dell’ospedale: infermieri, dottori, il primario, i pazienti, il cuoco, etc. Chi regola i paraocchi? Come era prevedibile, non basta ripercorrere tutta la scala gerarchica per arrivare, per così dire, al capo del maneggio. Nessun vertice gerarchico ha in realtà un ruolo decisivo e determinante sulla regolazione dei paraocchi. La struttura e la distribuzione del potere in ogni tipo di contesto organizzativo riflette per Guattari la struttura psichica del soggetto in cui è possibile distinguere una parte manifesta (l’Io – il potere ufficiale sia esso il capo dell’ospedale o un capo di stato) e una parte latente o inconscia. Quest’ultima si costituisce come il complesso luogo di incontro e interazioni di pulsioni, istinti, forze che sfuggono continuamente a un ordine razionale precostituito. La regolazione dei paraocchi rappresenta dunque una funzione inconscia che si sviluppa simultaneamente a livello individuale e istituzionale tramite una serie di pratiche, enunciati, ma anche di slittamenti di senso, rotture. Il coefficiente di trasversalità rappresenta il grado di apertura (o di chiusura) del paraocchi: quanto il cavallo rimane attaccato alle sue pratiche consuetudinarie e quanto invece esplora sperimentalmente il suo potenziale creativo aprendosi all’incontro più o meno armonioso con gli altri cavalli del campo. La trasversalità è un’apertura sperimentale e una partecipazione creativa al desiderio di gruppo. E Guattari assegna alla trasversalità un ruolo cruciale per ogni tipo di organizzazione. “La trasversalità nei gruppi è una dimensione contraria e complementare alle strutture che generano la gerarchizzazione piramidale ed i modi sterili di trasmissione dei messaggi”.[10] Contraria e complementare: la trasversalità è la dimensione del potenziale creativo, dell’apertura al non-senso che pone la sua priorità costitutiva rispetto alle operazioni gerarchizzanti che cristallizzano il processo organizzativo in una riproduzione cieca che fonda la sua legge nell’adattamento a ciò che è comune e famigliare. La complementarietà è il marchio della sua necessità e del suo aspetto costitutivo rispetto al gruppo. L’antagonismo invece emerge in quell’incontro con ciò che non accetta il rischio di confrontarsi con il suo potenziale creativo.

Considerazioni spaziali da Guattari a Foucault

Nella sezione precedente, ho cercato di mettere in risalto come la dimensione della trasversalità si ponga in diretta opposizione con le tendenze gerarchizzanti che portano ogni processo organizzativo verso una sua cristallizzazione che mutila il suo potenziale creativo. Se ci si ferma però all’idea della trasversalità come critica della verticalità che la gerarchizzazione rappresenta, si perde la complessità e la forza del concetto di Guattari. Cerchiamo quindi di seguire l’idea nelle sue coordinate spaziali: linee verticali, orizzontali e trasversali.

La verticalità è la dimensione della gerarchia, della distribuzione ineguale di ruoli e funzioni all’interno di un’organizzazione. Determina una struttura piramidale che regola i flussi di comunicazione in maniera univoca dall’alto verso il basso. Per quanto la verticalità costituisca l’obiettivo polemico primario della critica di Guattari, non è nemmeno la dimensione dell’orizzontalità a fornire un principio organizzativo aperto all’alterità e al non-senso. Anche l’orizzontalità sembra portare con sé una serie di rischi. Anche se non esplicitato nel testo di Guattari, la critica non sembra essere all’orizzontalità tout court, ma a un tipo specifico di orizzontalità, quella che non genera nessuna opposizione alla verticalità: “una orizzontalità come quella che si stabilisce nel cortile dell’ospedale, nel reparto degli agitati, meglio ancora in quello degli incontinenti, cioè una certa situazione di fatto in cui le persone e le cose s’arrangiano come possono”.[11] Si tratta di “una semplice orizzontalità”[12] che produce soltanto “modi sterili di trasmissione dei messaggi”.[13] Una situazione in cui ci si arrangia alla meglio, semplice, sterile. Tale dimensione esclude la verticalità al suo interno ma non la sconfigge. Nessuna gerarchia regola questi spazi, ma la gerarchia generale dell’organizzazione non subisce alcuna minaccia.

Se la critica della verticalità è nel nome di quel potenziale creativo inconscio del gruppo che viene cristallizzato e bloccato dalle strutture gerarchizzanti che ne definiscono l’ordine, tale potenziale creativo viene altrettanto bloccato quando la comunicazione è ridotta a sterile trasmissione interna di messaggi tra pari. Sterile perché non in grado di liberare quel potenziale creativo per inventare un nuovo modo di organizzarsi, per provocare un cambiamento radicale, per portare questo cambiamento al di fuori del suo confinamento. Solo la trasversalità si orienta verso un orizzonte creativo di trasformazione, ponendosi in opposizione contro entrambe le dimensioni (pura verticalità e orizzontalità semplice). Gli si oppone però tramite il loro continuo mescolamento: l’idea del coefficiente di trasversalità rappresenta proprio la variabilità del grado in cui si provano a determinare sperimentalmente quelle regole (opzionali, sempre aperte a essere cambiate) che determinano le pratiche del gruppo e prevengono la formazione di un apparato rigidamente gerarchizzato. Come per i porcospini di Schopenhauer o per i cavalli nel recinto con i loro paraocchi, la trasversalità è la ricerca esplorativa della misura contingente del rapporto tra verticalità e orizzontalità.

C’è un testo minore di Foucault che arriva a simili considerazioni spaziali su verticalità, orizzontalità e trasversalità. Si tratta di La force de fuir, breve articolo del 1973 che presenta un’esposizione del pittore Rebeyrolle. In queste poche pagine, Foucault passa in rassegna una serie di tele che rappresentano la storia di una fuga da una prigione con protagonista un cane. Le prime tele sono dedicate agli spazi angusti della cella con una verticalità immanente: il manganello della guardia, le sbarre. Ma non solo: la verticalità è l’asse su cui il potere definisce la sua azione sui corpi. Non si tratta, come in Guattari, della dimensione generale della gerarchia, ma di tutta una serie di micro-pratiche regolatorie all’interno del carcere:

Nel mondo delle prigioni, come in quello dei cani (‘a cuccia’, ‘su’), la verticale non è solo una delle dimensioni dello spazio, ma è la dimensione del potere. Domina, si innalza, minaccia e appiattisce; un’enorme piramide di palazzi, sopra e sotto; ordini abbaiati dall’alto al basso; è proibito dormire di giorno e stare in piedi di notte; in piedi davanti alle guardie, sull’attenti davanti al direttore; crollato sotto i colpi nelle celle di tortura, o legato al letto di contenzione per non aver dormito di fronte alle guardie; e alla fine, impiccato, unico modo per sfuggire la detenzione, unico modo per morire in piedi.[14]

Come per i cani, tutta la vita all’interno del carcere si articola su questo asse verticale, la dimensione del potere. Il corpo del carcerato si alza e si abbassa a comando, addomesticato a rispondere a persone diverse (la guardia, il direttore) e a situazioni temporali diverse (il giorno, la notte). Anche la morte viene negoziata su questo asse: non si può morire in piedi, a meno che non ci si impicchi con quello che la cella offre – un lenzuolo, una sbarra.

Da Guattari a Foucault, si passa quindi da una verticalità basata sui ruoli gerarchici (il padre, il Super-io, il dottore) a una verticalità come asse dove si iscrivono una serie di pratiche disciplinari che determinano e definiscono l’azione dei corpi. Le critiche della verticalità però convergono: la verticalità non è in grado di produrre nessuna forma di creatività, di trasformazione. “Nelle lotte degli uomini, nulla di importante è mai passato [tra le sbarre di] quelle finestre, ma tutto, sempre, attraverso l’abbattimento trionfante dei muri”. Le sbarre delle finestre consentono solo uno spiraglio di luce che dialoga con l’esterno, con ciò che è al di fuori della prigione, ciò che Guattari aveva chiamato il non-senso, l’alterità. Ma per afferrare quello spazio, per accedere a un’apertura reale, l’unica soluzione è la demolizione di quelle pareti: “l’abolizione delle verticali: d’ora in poi tutto fugge secondo rapide linee orizzontali”. Ma la tela di Rebeyrolle che rappresenta questa orizzontalità non costituisce la fine della storia. Non basta fuggire, non basta l’orizzontalità. Il nuovo non emerge da queste linee.

Ci vuole un’ultima tela che reca la traccia della lotta necessaria all’evasione per la creazione di uno spazio nuovo: “E la grande tela finale definisce e disperde uno spazio nuovo, finora assente in tutta la serie. È la tavola della trasversalità; è diviso a metà tra la fortezza nera del passato e le tempeste del colore futuro. Ma, su tutta la lunghezza, le tracce di una corsa – il segno dell’evaso. Sembra che la verità venga dolcemente, come una colomba. La forza lascia sulla terra i graffi della sua corsa”.[15]

La trasversalità è quest’apertura sul futuro che porta le tracce della sua fuga e quindi anche le tracce della sua prigionia passata. La trasversalità è la dimensione della forza che graffia la terra in un impeto animale. Non dimentichiamo che per Foucault ogni struttura, ogni istituzione è il risultato instabile di uno scontro antagonista tra forze. E di queste lotte ne vediamo spesso solo tracce residue. Su queste tracce però si ricostruisce sia la contingenza di un passato che poteva essere altrimenti e si dipinge la tempesta di un futuro ancora da definire.

La genealogia della trasversalità secondo Deleuze

Con Foucault abbiamo realizzato due congiunzioni trasversali: da una parte è come il concetto di Guattari ci mette inevitabilmente in contatto con altri autori; dall’altra parte con altri temi o contesti di ricerca. Abbiamo iniziato da Guattari e la psicoanalisi, Foucault e la pittura (quindi una dimensione estetica). Arriviamo ora a Deleuze che si occupa della trasversalità decisamente in modo trasversale. Prenderemo in analisi le sue lezioni all’Università Paris VIII del 1985-86.[16] Un corso dedicato a Foucault, una sorta di lungo obituario filosofico subito dopo la sua morte nel 1984. Sono una serie di lezioni molto importanti per capire l’idea di trasversalità. Deleuze, amico e collaboratore di Guattari, vede la trasversalità come un concetto centrale per capire Foucault e in particolare per capire il suo concetto di resistenza. Deleuze ci offre una prospettiva genealogica del concetto da cui Guattari è di fatto escluso. Questo è interessante soprattutto perché in una delle ultime lezioni Guattari partecipa attivamente e discute con Deleuze proprio su quest’idea. Ma ne discute in maniera trasversale: il concetto non appartiene più a nessuno, se mai qualcuno avesse voluto trovarne una paternità. Il concetto si presenta mentre lo si pensa. E allora proviamo a pensarlo insieme a loro.

Iniziamo con la parte genealogica di Deleuze. Possiamo estrarre due traiettorie di questa genealogia della trasversalità: la prima è socio-linguistica, mentre la seconda si costituisce su una serie di questioni e di eventi storico-politici. La traiettoria sociolinguistica si sviluppa a partire dall’opera di William Labov, linguista americano che tra gli anni ‘60 e ‘70 si occupa della lingua delle comunità afro-americane a New York. Scopo della ricerca è quello di analizzare come questo African-American Vernacular English possa classificarsi come un dialetto o una vera e propria lingua a sé stante. La conclusione di Labov è illuminante perché risponde a tale domanda ribaltandola. L’inglese delle comunità afro-americane è sì una lingua con regole precise e suoni determinate, ma non lo si può considerare al di fuori della sua relazione con l’inglese ufficiale. O meglio, al di là della pari dignità a livello strutturale delle due lingue (grammatica, regole, pronunce), tali lingue vanno studiate nella loro pratica, nel modo in cui vengono di fatto parlate. E questo tipo di approccio alla linguistica ci mostra come di fatto nessuna di queste due lingue possa considerarsi un sistema omogeneo. Per dimostrare questo punto, Deleuze cita l’intervista di Labov a Boot, ragazzino di Harlem che spiega le regole di un gioco:

An’ den like IF YOU MISS ONESIES? de OTHuh person to shoot to skelly; ef he miss, den you go again. An’ IF YOU GET IN, YOU SHOOT TO TWOSIES. An’ IF YOU GET IN TWOSIES, YOU GO TO threesies. An’ IF YOU MISS threesies, THEN THE PERSON THa’ miss skelly shoot THE SKELLIES an’ shoot in THE ONESIES: an’ IF HE MISS, YOU GO f’om tthreesies to foursies.[17]

Le parti maiuscole sono pronunciate in inglese ufficiale, mentre quelle minuscole seguono le regole fonetiche e grammaticali dell’African-American Vernacular English. Per Labov questo non si tratta di un passaggio tra due codici o sistemi omogenei definiti. Nella frase citata, questo passaggio tra le due lingue avviene addirittura diciotto volte senza nessuna apparente motivazione. Inoltre la maggior parte delle espressioni appartengono ad entrambi i sistemi linguistici per cui è difficile assegnarli ad uno o all’altro con certezza. Per Deleuze questa analisi ci dimostra cosa è un enunciato. In polemica con l’idea di Chomsky di una grammatica universale, Deleuze nota come la ricerca di Labov mostri un continuo slittamento tra sistemi necessariamente eterogenei al loro interno. Quello che fa Boot nel descrivere il gioco è creare una trasversale di sistemi. Ma per Deleuze questo ci rivela tanto le dinamiche del linguaggio in generale, quanto il tipo di ricerca che è appropriato per cogliere questa specificità. E la trasversalità diventa chiave in questi processi: “Cosa facciamo quando parliamo? Tracciamo continuamente trasversali tra sistemi. La linguistica non è nulla se non è pragmatica. Prendiamo un mio esempio miserabile: bene, sono stanco e allora inizio a raccontare qualcosa su delle stuoie…non è lo stesso sistema di cui parlavo prima…faccio una trasversale, una maniera di guadagnare tempo. […] Se un attimo prima sostenevo un sistema filosofico omogeneo, ecco che all’improvviso cado in un sistema di astuzie…bene… ho fatto una trasversale” (12/11/1985).

Questi slittamenti trasversali che mettono in comunicazione sistemi che di fatto non sono isolati e eterogenei rappresentano il materiale costitutivo del nostro parlare. Una lingua è un sistema eterogeneo al suo interno nel senso che prova a organizzare una moltitudine di espressioni più o meno convergenti su alcune regole grammaticali e fonetiche. Ma queste espressioni si danno nella pratica come sempre pronte a scostarsi da quelle regole. Quindi possiamo aprire il nostro parlare ad espressioni altre che ci mettono in contatto con altre lingue (come nel caso del ragazzino di Harlem) o con altri sistemi conoscitivi (come nell’esempio di Deleuze che passa da un discorso filosofico a un sistema di astuzie). Queste aperture determinano delle tracce trasversali che rivelano il potenziale creativo insito nella pratica linguistica.

La traiettoria storico-politica invece esplora un certo approccio intellettuale e politico che si sviluppa a partire dal 1950 e passa attraverso e oltre il ’68. Non si tratta di un blocco unitario o di una vera e propria tradizione o scuola. Deleuze raccoglie una serie di esperienze sia teoriche che politico-pratiche che, seppure con forti sfumature e dissonanze, convergono in qualche modo sul tema della trasversalità. Sebbene questa traiettoria riveli l’emergere del tema della trasversalità, questo non costituisce l’obiettivo di Deleuze. In questo punto delle sue lezioni, l’intento di Deleuze è quello di capire e illustrare il contesto storico-politico che porta Foucault a fondare il Gruppo di Informazione sulle Prigioni (GIP) e a elaborare la sua idea di relazioni di potere e, in particolare, la sua idea di resistenza.

Deleuze individua un momento storico preciso come l’inizio del tema della trasversalità: la rottura Jugoslava. Si tratta della prima volta in cui un paese comunista mette in discussione il centralismo. L’esperienza dell’autogestione jugoslava rappresenta il tentativo di rivendicare una certa indipendenza dalle tendenze centralistiche dell’Unione Sovietica senza però virare verso il blocco capitalista. A guidare questa transizione troviamo Milovan Djilas. Per Deleuze la rottura jugoslava rappresenta “un grande detonatore” (07/01/1986) il cui eco si sente forte anche nei paesi capitalisti. L’effetto principale è quello di liberare una serie di questioni che erano rimaste più o meno taciute fino a quel momento. Si trattava di pensare una nuova politica non centralizzata e di inventare un tipo di lotte che non si sviluppino più dall’alto (il partito, il sindacato), ma che si formino attraverso reti di connessioni trasversali.

Si sviluppano così tutta una serie di operazioni sia teoriche che politiche che si collocano su questo asse che si oppone al centralismo. In Italia, troviamo l’idea di Autonomia. Deleuze indica Mario Tronti come autore chiave di questa esperienza. Si forma una reinterpretazione del Marxismo in funzione delle condizioni italiane, un’economia a due marce con un ampio settore sommerso fatto di lavoro nero e informale di fatto quasi istituzionalizzato. Secondo Deleuze, queste condizioni sono state fondamentali per la formazione del tema dell’autonomia e per l’emergere di nuovi tipi di lotte non centralizzate, trasversali.

Sia la rottura Jugoslava che l’Autonomia ispirano e fanno circolare una serie di problematiche nuove. Fino a quel momento, ci si era concentrati su questioni quantitative rispetto al lavoro: durata della giornata lavorativa, salario. Le nuove lotte invece portano avanti rivendicazioni qualitative: non quanto lavoro, ma quale lavoro, in che condizioni. Lotte che ovviamente si estendono alla qualità della vita in generale e che puntano a un orizzonte creativo che reinventa e rinnova le soggettività: “Che significa essere soggetti? Ci si può sganciare dalla centralizzazione senza essere soggetti in un modo nuovo, senza che si arrivi ad uno stile nuovo di soggettività? Tronti porta avanti la reintroduzione di una soggettività nuova all’interno del Marxismo”. Per Deleuze, questa problematica di una nuova soggettività non centralizzata o che sfugge alla centralizzazione mette Tronti in relazione sia con le tematiche della Scuola di Francoforte e con tutta una serie di istanze che animano il pensiero critico francese verso e oltre il ’68. La guerra d’Algeria è un catalizzatore in questo senso. Non sono più i sindacati ad organizzare la lotta contro la guerra. Bisogna quindi organizzare l’opposizione in maniera nuova attraverso saperi in rete. In particolare, attorno a Sartre si sviluppa un gruppo focalizzato su come realizzare una rete in supporto al Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Sempre in Francia troviamo poi l’esperienza di altri gruppi come: Socialisme ou Barbarie, che viene da una rottura con il trotskismo; il gruppo Situationnisme; La voie communiste, gruppo di cui faceva parte anche Guattari e nato in opposizione al centralismo del partito comunista francese. Tutti questi gruppi, seppur ovviamente con le loro differenze, convergono secondo Deleuze su due questioni: “la produzione di una nuova soggettività […] e la costituzione di nuovi rapporti strategici, vale a dire l’emergere di nuove forme di lotta”. Queste due questioni definiscono le coordinate di quello che Deleuze chiama gauchisme, un approccio sia teorico che pratico-politico opposto sia all’ordine borghese che al modello centralizzante sovietico. Ma ovviamente nella ricerca di nuove forme di lotte, lo sguardo si volge al passato, a possibili precursori:

Non a caso, è in questo momento che il gauchisme va a cercare i suoi grandi precursori e li trova senza dubbio nella Rivoluzione russa, prima che i soviet e i consigli operai venissero schiacciati. Perché i soviet rifiutano esattamente la centralizzazione e promuovono i rapporti trasversali da un consiglio locale a un altro consiglio locale.

Le traiettorie tracciate da Deleuze determinano una genealogia che tiene conto sia delle lotte sociali nei loro specifici contesti storici e sia di quei saperi mobilitati in relazione e in supporto a queste lotte. Ci mostra quanto la trasversalità emerga non tanto quanto un concetto, ma come una tematica che mette in relazioni diverse problematizzazioni in un preciso contesto storico che va dal 1950 al ’68 e oltre. È una tematica aperta che circola in maniera diffusa attraverso vari saperi che spaziano dalla psicanalisi alla linguistica, dall’arte alla filosofia, pur mantenendo sempre un orizzonte politico radicale. Ad ogni modo, le traiettorie tracciate da Deleuze ci invitano a guardare anche oltre questo periodo storico specifico. Il modo in cui discute la Rivoluzione russa è emblematico: è come se la trasversalità si staccasse dalle sue coordinate storiche e geografiche diventando un’idea con cui interpretare e interrogare il passato. Ma ovviamente questo tentativo di concettualizzare la trasversalità ci fornisce un elemento in più per interrogare anche il nostro presente e, soprattutto, per intervenire e reinventare le lotte di oggi.

Trasversalità e centralizzazione

Abbiamo visto come si possano trovare dei precursori che ci fanno estendere la possibilità di usare l’idea di trasversalità per capire o interpretare un qualsiasi momento storico. Questo punto sicuramente mette in crisi il problema della novità delle lotte trasversali: se le troviamo anche nel passato, in che senso le lotte trasversali sono nuove? La novità non sta tanto nel fatto che non avevamo lotte trasversali prima di un certo momento storico, ma nel fatto che diventino più frequenti o più visibili in una certa epoca. Prima della rottura Jugoslava, non abbiamo una forte diffusione di lotte trasversali. Abbiamo lotte che si caratterizzano per la loro omogeneità interna. Nel senso che le lotte tradizionalmente si sono sviluppate attorno a un gruppo definito, unitario e centralizzante: tutti gli operai, tutti i lavoratori. C’è quindi una coesistenza tra questi due tipi di lotte: centralizzate e trasversali. Che tipo di coesistenza? Si tratta di una coesistenza antagonistica su più livelli. Da una parte c’è un’opposizione tra lotte centralizzanti e lotte trasversali. Ma più in generale abbiamo visto che la trasversalità come lotta si oppone a ogni tipo di istanza centralizzante. In fondo cos’è una lotta se non un tipo di organizzazione impegnato in un rapporto strategico sia al suo interno che al suo esterno? Non si tratta solo di opporre due tipi di lotte, ma due modalità organizzative.

La centralizzazione consiste nel definire un sistema omogeno composto al suo interno da una serie di agenti accomunati da un’appartenenza comune. Si struttura su una base gerarchica e piramidale e soprattutto mostra una “tendenza all’omogeneizzazione globale”. Questa modalità organizzativa tende a sussumere al suo interno ciò che cerca di sfuggirgli, assimilandolo e quindi rinforzando la stabilità dell’organizzazione. Ovviamente questa stabilità rappresenta di fatto una chiusura che blocca il potenziale creativo dell’organizzazione e la sua possibilità di trasformazione.

La trasversalità invece determina relazioni che mettono in comunicazione agenti eterogenei e funzioni eterogenee. Questo punto viene affrontato da Deleuze proprio insieme a Guattari che partecipa a una delle lezioni conclusive del corso su Foucault. Guattari aggiunge una parte fondamentale a questa definizione di trasversalità. Non basta l’eterogeneità tra membri di un gruppo o di un’organizzazione. Di fatto una certa eterogeneità di base è data prima che subentrino determinazioni omogeneizzanti. Ciò che distingue le relazioni trasversali è la predisposizione a lavorare su quell’eterogeneità, a difenderla da tendenze centralizzanti. Per Guattari si tratta di una “eterogeneità processuale”, nel senso che permane durante tutto il processo dell’organizzazione o, meglio ancora, nel senso che concepisce ogni organizzazione come un processo aperto, come un continuo (ri-)organizzare.

Il problema è che mentre cerchiamo di definire queste due modalità organizzative e la loro relazione, finiamo progressivamente per astrarre dalla specificità dei contesti storici in cui queste modalità si contrappongono. Questo è ovviamente lo scacco di ogni operazione concettuale, ma in questo caso la questione si fa ancora più rilevante perché produce un certo modo di interpretare e concepire la storia in generale. È lo stesso Deleuze a sollevare questo dubbio:

ma la storia non è costantemente fatta da lotte trasversali? Non è la storia un tessuto, una rete di lotte trasversali prima che esse vengano centralizzate? […] Non avviene ogni volta che il centralismo arriva a ricoprire con la sua piramide e a seppellire tutto ciò che di ricco si era creato sotto una forma trasversale?

Avevamo fatto prima l’esempio dell’esperienza dei soviet e dei consigli operai centralizzati durante la rivoluzione russa. Qui Deleuze aggiunge il surrealismo e, citando Foucault, la Riforma protestante. Anche in questi casi, vediamo come gli eventi si susseguano secondo uno schema preciso. Prima abbiamo una serie di lotte e di esperienze con istanze eterogenee, con problemi differenti, con un certo grado di dispersione. Queste esperienze si connettono in una rete che li mette in comunicazione senza determinare inizialmente una forma gerarchica precisa. A mano a mano, il potenziale creativo che ognuna di queste istanze porta con sé si perde dentro un processo di centralizzazione che le rende omogenee. Per esempio, Deleuze contrappone il dadaismo, con le sue relazioni trasversali, al surrealismo, con una struttura che progressivamente prende la forma di un tribunale con tanto di scomuniche. Allo stesso modo, Lutero opera una centralizzazione di tutto un fermento di rivolta sociale agitato in realtà da problematiche assolutamente diverse tra loro.

Bisogna cedere alla tentazione di credere a un modello che attraversa tutta la storia e che vede la centralizzazione usurpare e tradire continuamente la creatività che ogni istanza di cambiamento sociale porta con sé? Ma l’elaborazione di un modello di questo tipo, non sarebbe nient’altro che un’operazione centralizzante. Si rischierebbe di ricadere in una risposta definita una volta per tutte, che non lascia spazio a pensare la storia altrimenti, ad immaginare e creare un presente diverso. L’unico rimedio per Deleuze è cercare di porsi in maniera radicalmente diversa questi interrogativi sulla trasversalità e la centralizzazione, sulla resistenza e il potere. Bisogna rapportarsi a queste domande esorcizzando il rischio della centralizzazione e cioè orientando queste questioni verso un orizzonte aperto e creativo, trasversale. Ogni responso sarà quindi rivolto a contrastare le tendenze centralizzanti e gerarchiche, ancorato a pratiche organizzative creative e resistenti: “non si può che arrivare a un responso trasversale che incrina il potere in una molteplicità di punti”.

Siamo partiti da un’idea che si propone di intervenire nel dibattito della terapia istituzionale in ambito psicoanalitico e, come prevedibile, siamo finiti con delle incursioni nei campi più disparati, dall’estetica alla linguistica, dalla filosofia alle lotte sociali. Ho cercato di tracciare delle linee che ci hanno permesso di esplorare una parte del pensiero di Guattari in relazione prima a Foucault e poi a Deleuze. Ma queste linee ci hanno portato verso un sostrato fatto di pratiche e elaborazioni concettuali in cui le individualità degli autori perdono di senso. Spero che questo sia stato un modo adeguato per rendere quell’idea di trasversalità che ho provato a presentare. Lo scacco della centralizzazione rimane, ma proverei a pararlo cercando di capire cosa fare oggi di questa idea. Seguendo il monito di Deleuze, l’orizzonte deve essere quello delle pratiche in cui ci muoviamo, delle nostre lotte, della nostra resistenza. Pensare la trasversalità significa liberare il potenziale creativo delle nostre soggettività e di come si rapportano. Si tratta di alimentare e proteggere una certa “eterogeneità processuale”: organizzare in maniera aperta, riscrivendo continuamente le regole, esplorando assetti diverse, pratiche nuove, modi nuovi di soggettivazione collettiva. Ma questo organizzare aperto non può che essere una pratica che implica continua sperimentazione. Mai una verticalità rigida, ma nemmeno un’orizzontalità sterile: bisogna sempre essere pronti a ri-regolare i paraocchi.

Marco Checchi

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  1. In F. Guattari, Una tomba per Edipo, cit.
  2. Ivi, p. 98.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 99.
  5. Ivi, p. 104.
  6. Ivi, p. 102.
  7. Ivi, p. 101.
  8. Ivi, p. 100.
  9. Ivi, p. 105.
  10. Ivi, p. 110.
  11. Ivi, p. 105.
  12. Ivi, p. 106.
  13. Ivi, p. 107.
  14. M. Foucault, “La force de fuir”, in Dits et écrits, Vol. II, Gallimard, Paris 1994, pp. 401–5. (TdA)
  15. Ibidem.
  16. Tutte le citazioni che seguono sono state tradotte dall’autore. Le trascrizioni delle lezioni in lingua originale sono disponibili su http://www2.univ-paris8.fr/deleuze/
  17. W. Labov, Sociolinguistic patterns, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1972, p.189.
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