Che cos’è l’ecosofia? intervista e a Felix Guattari

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Il testo è tratto da due interviste realizzate da Emmanuel Videcoq e Jean-Yves Sparel per la rivista Terminal (nn. 54, luglio-agosto 1991, e 56, novembre-dicembre 1991). La seconda è stata ripubblicata su Chimères, e poi ripresa nel volume Qu’est-ce que l’écosophie, (pp. 71-79) che raccoglie i testi ecosofici di Félix Guattari (a cura di Stéphane Nadaud, ed. Ligne 2013, ried. Le Collectif et associés, 2018).

La traduzione in italiano è di Ubaldo Fadini che ce l’ha gentilmente fornita, e fu stato pubblicato in “Millepiani”, n.36, 2010 (ora esaurito).

Félix Guattari

Che cos’è l’ecosofia?

E. V.: Ernst Haeckel definisce l’ecologia come “la scienza delle relazioni degli organismi con il mondo esterno e le loro condizioni di esistenza”. Come definisci l’“ecosofia”?

F. G.: Il concetto di ecologia è eclettico. Esso comprende realtà assai eterogenee, cosa che del resto ci rende la sua ricchezza. Innanzitutto è una scienza , la scienza degli eco-sistemi di qualsiasi natura. Essa non ha contorni rigidamente definiti, in quanto annovera tanto gli eco-sistemi sociali, urbani, familiari quanto quelli della biosfera. Inoltre l’ecologia è diventata un fenomeno d’opinione, poiché essa contiene sensibilità molto diverse: dei conservatori, perfino dei reazionari, che auspicano un ritorno ai valori degli avi, fino a quella di coloro che aspirano ad una rifondazione di una polarità progressiva, che subentri alla vecchia polarità destra-sinistra.

Io aspiro ad un collegamento concettuale di tutte queste dimensioni. Così nasce l’idea della ecosofia, che esprime queste tre ecologie: quella dell’ambiente, quella sociale e quella mentale. Inoltre tento di introdurre, nel mio sistema di modellizzazione, il concetto di un oggetto ecosofico che vada al di là di quello di oggetto eco-sistemico. Concepisco l’oggetto ecosofico lungo l’articolazione di quattro linee: quelle del flusso, della macchina, del valore e dell’ambito esistenziale.

  1. Quella del flusso è evidente: poiché proprio negli eco-sistemi c’è sempre l’articolazione di flussi. Gli uni in rapporto con gli altri; detto precisamente: di flussi eterogenei.
  2. Quella della macchina; si tratta qui di una dimensione di retroazione cibernetica, dell’autopoiesi, cioè dell’autoaffermazione ontologica, senza cadere nel mito animistico o vitalistico, come ad esempio nell’ipotesi Gaia di J. Lovelock e L. Margulis; si tratta perciò di realizzare il collegamento tra le macchine dei flussi materiali degli eco-sistemi e dei flussi semiotici degli eco-sistemi. Tento cioè di ampliare il concetto dell’autopoiesi senza riservarlo, come in Varela, soltanto al sistema del vivente e ritengo che ci sia una proto-autopoiesi in tutti gli altri sistemi: in quelli etnologici, sociali e così via.
  3. Questo oggetto ecosofico non è soltanto autopoietico, bensì anche portatore di valori, di segni e prospettive di valorizzazione. Ciò è importante per pensare la problematica del valore, compreso il valore economico, e per combinare il valore capitalistico, il valore di scambio, in senso marxista, con gli altri sistemi di valorizzazione, quelli che vengono prodotti dai sistemi auto poietici: sistemi sociali, gruppi, individui, sensibilità artistiche, sensibilità religiose; per combinarli tra loro senza che il valore economico sia ricoperto di piombo e tutto venga cancellato.
  4. La quarta dimensione è quella della finitezza esistenziale, che definisce più precisamente l’oggetto ecosofico: ciò che definisco anche come ambito esistenziale e che non rappresenta nessuna entità eterna, bensì si fonda sulle coordinate della determinazione estrinseca, indipendente. Nel suo sistema di valore, l’oggetto ecosofico ha un inizio e una fine; è in rapporto con una diversità macchinina, con un phylum macchinino. Di fatto quel sistema possiede egualmente una causa sistemica e un avvenire. Senza autonomia universale, esso è connesso con il processo della storicità. Questa finitezza rappresenta così anche una dimensione dell’estraniazione e della “incarnazione” e insieme un arricchimento processuale: poiché grazie ad esso c’è sempre la possibilità di un ricaricamento derivante dal caos e di una rifondazione di una complessità. Dato che c’è l’individuazione eco-sistemica come finitezza, allora sussiste la possibilità che i sistemi si concatenino tra loro e che si sviluppi un grande phylum evolutivo.

E. V.: Parli dell’oggetto ecosofico come di un “sistema di modellizzazione”. Ti rivolgi agli oggetti concreti o ad un sistema di descrizione?

F. G.: Per me non c’è differenza: tutti gli oggetti sono oggetti della modellizzazione. Il concetto – nel suo carattere creativo di condensazione di componenti eterogenee e insieme di unità auto poietiche – è l’oggetto. L’oggetto ecosofico è un oggetto della meta-modellizzazione, nel senso che esso pretende di comprendere le diverse modellizzazioni, che ci sono sollecitate: di tipo marxista, animista, estetico. Così si può meglio vedere come i sistemi di valore si combinino, invece di contrapporre, in modo manicheo, l’uno con gli altri.

J.-V. S.: Quali sono le conseguenze da trarre, rispetto a questo genere di analisi, per il movimento ecologista?

F. G.: Che non c’è, a mio parere, alcuna opposizione tra le ecologie: ecologia politica, ecologia ambientale ed ecologia mentale. Ogni visione preoccupata di un problema ambientale postula lo sviluppo di universi di valore e di conseguenza un impegno etico-politico. Esso richiede la “incarnazione” di un sistema di modellizzazione per sostenere questi sistemi di valore, cioè di pratiche sociali in riferimento a luoghi e di pratiche di analisi, se si tratta della produzione di soggettività.

E. V.: Non si tratta dunque di sistemi totalizzanti?

F. G.: E’ vero. Nei fatti c’è il grande pericolo di porre, al posto del mito della classe lavoratrice come portatrice del futuro dei valori, quello di una difesa dell’ambiente, di una protezione della biosfera, che può avere un carattere ugualmente totalizzante, totalitario. Sono da progettare dei processi di valorizzazione dell’affermazione di sé che rispettino la loro eterogeneità e singolarità. Io respingo i giudizi trascendenti.

Due esempi: nel grembo dei movimenti ecologisti, il movimento di sinistra rifiuta coloro che si definiscono i “Khmer verdi”. Ma costoro rappresentano qualcosa di assolutamente autentico nella soggettività ecologista e nei rapporti di forza. Anche perché esistono, tra il 15% e il 20% degli elettori si dichiarano disposti a votare in rapporto con l’ecologia. Realizziamo con loro una relazione di dissenso; polemizziamo, ma rispettiamoli, altrimenti cadiamo in un conflitto ideologico senza fine, mortale. La stessa cosa con il “lepenismo”: comprendiamo perché parti significative della popolazione, proprio quelle lavoratrici, scivolano in questa ideologia. Consideriamole dall’interno, senza irrigidire i valori, mentre diciamo: questo è reazionario, “fascio”, estremista di destra ecc. Altrimenti si perde quella possibilità dell’articolazione pragmatica, per influenzare tali parti, di “rizomatizzare”.

E. V.: Cosa intendi per assiomatizzazione pragmatica? Per i “Khmer verdi” li si esorcizza ponendoli nel campo ideologico dei Maurras, dei Pétain; li si etichetta?

F. G.: In questo modo li si rende dei folli, si vuole farli diventare dei matti. Per me non si tratta di entrare così nella polemica, ad esempio con un malato delirante. Egli può avere delle crisi psicotiche, ch qualche volta sono accompagnate da deliri razzisti, di odio verso la differenza, per l’estraneo. Si deve tentare di comprendere come questo concatenamento soggettivo scaturisca da una modellizzazione completamente diversa dalla mia ed entri in rapporto con una produzione semiotica – e come con ciò sorga, in tale tipo di vicolo cieco, uno sviluppo processuale evolutivo. Abbandoniamo le politiche con sensualistiche, accettiamo la diversità dell’altro, la sua differenza; da questo movimento etico dell’accettazione dell’altro può derivare qualcosa di originale.

E. V.: Quale traduzione si deve dare dell’orientamento ecosofico nel caso di responsabilità di governo da parte dei movimenti ecologisti?

F. G. : La questione riguarda le responsabilità locali, regionali. Si tratta di progettare pratiche di intervento sociale, incluse quelle politiche, governamentali, che sono coerenti con le pratiche sociali “locali”, con le pratiche di dissenso, culturali, analitiche, individuali e collettive, così come con quelle estetiche, e perciò di sviluppare una politica e dei mezzi, dispositivi, che consentano tale carattere di dissenso. Penso che si debbano lasciare del tutto alle spalle le nostre tradizionali posizioni tra movimenti, partiti, associazioni, e trovare una nuova forma che consenta di combinarle, di stabilire una relazione polimorfa tra le diverse mete pragmatiche. Non sono avverso ad una armatura politica, comprensiva dei leader attivi nei media attivi e dei ministri – perché anche no? – quando ci sono non soltanto dei fenomeni di “controllo della base”, ma anche fenomeni di soggettivazione, così che divenga una assolutamente relativa; che gli individui delegati o coloro che si dedicano a questo servizio politico siano accettati, perché ciò è un traguardo di valore, così importante, non è poi fondamentale. Essi possono essere dei leader politici, ma non devono essere dei Fuehrer affettivi, dei Fuehrer immaginari! Ciò significa concretamente che appare altrettanto importante, di uguale valore e legittimità, nel movimento ecologista, di occuparsi di gruppi di quartiere, della vita ecc. così come di parlare in “politichese” nei rapporti di forza politici e organizzativi. C’è una intera ecologia sociale del movimento stesso che deve trovare la sua regolamentazione.

E. V.: A prescindere dal tema dell’ambiente, il movimento ecologista in Francia sembra essere un movimento d’opinione, della soggettività, piuttosto che di pratiche sociali.

F. G.: Innanzitutto il fenomeno francese è eccezionale. Negli altri Stati non c’è niente di simile, come sostegno, al movimento ecologista: si parla del 15, 20%, ma in effetti c’è una considerevole quantità di atteggiamenti favorevoli. Si potrebbe dire precisamente la stessa cosa per il movimento di Le Pen, che però fermenta in un più ampio movimento d’opinione. Questa è una situazione precaria. Gli ecologisti non si devono fare illusioni. Essa può cambiare improvvisamente come un alito di vento. In secondo luogo è certamente a condizione che ci sia un intervento d’altro tipo, di combattere, di fare politica – esprimere la considerazione immediata, quotidiana, tanto al livello dell’ambiente quanto a quello della vita sociale, rispetto a ciò che avviene nel quartiere, negli ospedali e così via – che si può operare un consolidamento di tale opinione. Altrimenti raccoglieremo ancora una volta delusioni e l’opinione si attorciglierà su non so che cosa, forse su nulla o su una passività che genererà cose molto negative.

J.-Y. S.: Che dire allora?

F. G.: Esprimere il problema! C’è un problema della ridefinizione delle pratiche sociali, della invenzione di modi di condivisione, di organizzazione, di rapporti con i media ecc. E ciò diventa politico: sapere cosa si vuol fare. Si vuole concretamente cambiare in maniera radicale i sistemi di valorizzazione? In questo caso li si deve prendere nella loro globalità, nella loro totalità. Se si intende cambiare ciò soltanto settorialmente, di creare una piccola forza di difesa, una piccola lobby di resistenza ambientale, allora penso che si abbia già perso in partenza; perché ciò diventa molto scivoloso: l’industria non desidera nient’altro che di utilizzare il movimento ecologista, così come ha utilizzato il movimento dei lavoratori per la sua strutturazione del campo sociale. Si verrebbe molto velocemente assimilati dall’industria, dallo Stato, dalle forze dominanti. C’è bisogno di un altro livello di rivendicazione. Propongo questo concetto di ecosofia per indicare il raggio d’azione della problematica dei valori.

La passione delle macchine

J.-Y. S.: Da dove deriva il tuo interesse per le macchine?

F. G.: E’ una passione dell’infanzia ed è da sempre una passione animistica. In effetti la descrizione dei fenomeni biologici, sociali, economici ecc. in concetti strutturati mi appare insufficiente. Al di là dei concetti sistemici ho voluto fabbricare una entità concettuale che non corrispondesse soltanto alle relazioni auto-riproduttive della struttura del sistema, bensì tenesse anche conto delle relazioni che si sviluppano con l’esterno. Poiché la macchina è sempre in dialogo con una diversità – che si situa nel tempo. Inoltre la macchina stabilisce con la diversità anche la finitezza: essa nascerà, finirà, si romperà, morirà. Per questo motivo ampliamo il concetto di macchina al di là della macchina tecnica, fino a quella biologica, sociale, alle macchine urbane, quelle linguistiche, alle megamacchine teoretiche – e lo stesso vale per le macchine del desiderio. Questo concetto si rivolge quindi alla possibilità della macchina di rimuovere se stessa.

E. V.: Nel tuo testo sulla “eterogenesi macchinica” metti l’accento sulla seguente idea: “La macchina è sempre dipendente da elementi interni per poter esistere come tale”. Quali relazioni ci sono tra gli elementi della “struttura”, della “riproducibilità” e della “diversità”?

F. G.: Per comprenderle, introduco il carattere processuale della macchina nella articolazione. L’essenza della macchina non discenda da una continuità infinita, essa sta nella mutazione. Perciò deve intervenire un fenomeno di rottura, di taglio, come per gli individui compresi in senso alla loro specie e come per le specie colte nei loro phyla evolutivi. Ci sono vita e morte delle macchine tecnologiche, teoretiche ecc. L’esistenza di un difetto tra la grande complessità e la sua risoluzione è possibile. Definisco ciò come “caosmosi”: si può essere diversamente relazionati al mondo, all’ambiente e così via, ma si può anche non essere e sparire, ci si può dissolvere nel caos. Questa mediazione tra i due elementi consente l’evoluzione, la produzione creativa. Così come si impone una ripetizione nel caos per arricchire nuovamente la complessità; così come il caos stesso viene messo virtualmente alla prova dalla complessità e poi rovesciato.

E. V.: Tu postuli anche che “la macchina precede la tecnica”. Sottolinei inoltre che per Leroi-Gourhan le macchine non esistono al di fuori degli “insiemi tecnici, ai quali appartengono”. Non c’è una contraddizione tra queste due idee?

F. G.: No, poiché la posizione di Leroi-Gourhan è soltanto un livello. Egli mette in collegamento l’utensile, la macchina, con il suo ambiente sociale, umano, corporeo, con la gestualità macchinica e le relazioni culturali che tutto ciò veicola. Questa problematica dell’autopoiesi macchinica si distingue dal modo in cui l’autopoiesi di Varela e Maturana viene concepita negli ambiti della biologia. Con la simbiosi tra le macchine, l’utensile e il campo sociale e umano, così come tra il sorgere delle macchine empiriche, diagrammatiche e concettuali, in collegamento tra loro, si realizza un decentramento dell’essenza del macchinico dalla sua parte visibile alla sua parte incorporea. Si può dunque abbandonare la logica di oggetti dati, differenti su un livello, con paradigmi estrinseci e pre-dati per comprenderli, descriverli, trasmetterli ecc., per giungere ad altri tipi di oggetti, alle macchine astratte, che hanno in se stesse i loro propri sistemi auto poietici di valore. Esse permettono di comprendere il collegamento tra i diversi piani macchinici, sociali, biologici, neurologici, ecologici e così via.

J.-Y. S.: Qual è per te, forte di questa definizione dell’essenza della macchina, la parte dell’umano e quella del non-umano nelle macchine?

F. G.: Vorrei dire piuttosto: qual è la parte del divenire-macchina nell’uomo e nel non-umano? Poiché il divenire-macchina costituisce le forme dell’umano, ma contiene anche altri processi di divenire: animale, vegetale, musicale, matematico ecc. Presuppone qualcosa di virtuale, universi contigui e incorporei, referenza senza preferenza. Ciò deriva da paradigmi preesistenti. Porta con sé una vitalità, una proliferazione, una incarnazione parziale, esistenziale, che definisco come ambito esistenziale. L’intuizione di questo concetto di macchina mira ad evadere dalla logica dell’oggetto discorsivo, del flusso manifesto, per integrare le entità non discorsive, incorporee, contingenti, come quelle dell’esistenza.

E. V.: Come si distingue questa “essenza macchinica” dal Fondamento heideggeriano o dal Significante di Lacan?

F. G.: Queste categorie pongono e subordinano un certo tratto della discorsività ad un linguaggio fondamentale dell’essere o del significante, delle casseforti del codice. Rifiuto che tutto sia già in un “grande Altro” o in un “fondamento”, in una relazione con l’essere già fortemente impressa dalle posizioni filosofiche greche. Ci sono tanto referenze del “grande Altro” quanto mutamenti degli universi di referenza. Così la musica polifonica è una creazione sui generis, senza quel fondamento che potrebbe anche essere la linea di filiazione alla quale la si può ricondurre: nascita del pensiero matematico o di quello filosofico. Non vedo, in questa assoluta creatività, alcunché di premesso, nessuna catena significante o un primato dell’essere. C’è eterogenesi, ciò che costituisce un garante dell’attività umana.

E. V.: Puoi chiarire la formulazione: “il movimento della storia si singolarizza all’incrocio degli universi macchinici eterogenei”?

F. G.: La storia è in ogni caso un racconto: epico, con connotazioni religiose, marxiste, macchiniche e così via. Però queste hanno valore, perché così si dà consistenza alla durata. La mia affermazione non è scientificamente più forte di altre. Ma la differenza rispetto alla spiegazione delle relazioni sociali e culturali mediante l’universalità dei rapporti di produzione consiste in questo, che la spiegazione macchinica evita radicalmente ogni idea di relazione tra una sovrastruttura e una struttura fondamentale. Così si danno determinate svolte storiche sulla base di una mutazione tecnologica. Ad esempio, il venire a galla delle armi da fuoco smascherava i regni asiatici che sussistevano da millenni. Potrebbe anche essere derivata, per così dire, una mutazione a partire dai registri per la rilevazione delle macchine da guerra, dell’organizzazione del militare, dunque a partire dall’ordine della scrittura. Potrebbero anche essersi concretizzate delle trasformazioni giuridiche in un rapporto di produzione (l’unità monetaria), nella scienza, nei trasporti (scoperte marittime) e così via. Una causalità ferrea non si afferma di conseguenza. Al contrario, si deve cercare come le diverse trasformazioni macchiniche si contaminino, si influenzino, si condizionino; come si creano gli ambiti (foyer) della soggettivazione parziale e si crea un plusvalore creativo, una affermazione autopoietica, come si intraprende il controllo. Ad esempio, c’è, nel periodo delle grandi Città-Stato descritto da Braudel, una entità urbano-capitalista che predomina e passa dalle grandi città italiane ad Amsterdam, Londra ecc. Questo dislocamento non è puramente economico, bensì culturale, socio-politico, religioso e così via e piuttosto tutto ciò va assieme. Ogni volta la storia è, nel suo stadio iniziale, un cristallizzazione, un singolarità.

E. V.: Il mondo tecnico e macchinico, nei cui terminali si costituisce l’attuale umanità, è, a tuo avviso, “barricato di orizzonti della costanza e della delimitazione delle velocità del caos”. Ma proprio questo mondo della coazione viene duplicato da altri mondi, che lo attraversano e pretendono soltanto di partecipare e produrre nuovi ambiti di possibilità”. Quali sono questi altri mondi e per che cosa gli ambiti di possibilità?

F. G.: Ne vorrei indicare un paio, tra gli altri: il mondo della filosofia, che in una certa maniera fabbrica completamente i suoi oggetti in una relazione di velocità infinita, di infinita rottura con le categorie riferibili al mondo. Esso si situa a prima vista in una creatività dei concetti, che rielabora l’infinito fino all’esaurimento. E poi c’è il registro del mondo estetico, che riproduce, ricostituisce, al contrario di una filosofia derivante dalla materia sensibile, campi di infinita scoperta. Qui c’è una via assolutamente tortuosa sul lavoro della materia.

E. V. : Quali ambiti di possibilità allora?

F. G.: Creativi. C’è un po’ questa connessione possibile tra i fattori della creatività della scienza, della filosofia, dell’arte e anche dei campi economici, ecologici, che sono ancora sempre stratificati e tanto più ripiegati su se stessi quanto più si sentono minacciati da tali fattori della deterritorializzazione macchinina. Si può definire questa opposizione dualistica come irresistibile e definire il destino dell’umanità come uno strappo, un pulsare contraddittorio in direzione di territori di referenza oppure come un compito della dromotica (come direbbe Paul Virilio).

Per me l’idea della meccano sfera presuppone che non sia impossibile che i dispositivi vengano riportati al mondo, ch consentano di sperimentare questa connessione; senza esercitare la scienza, l’arte o la filosofia in rapporto con il sociale, bensì producendo sistemi di valutazione molteplici, eterogenei, che conferiscono il gusto della singolarità, della finitezza, dell’esser-qui. Naturalmente al di fuori dei miti della redenzione, delle funzioni della rappresentanza estraniata! Si deve lasciare alle spalle questo carattere di generalità indebita, che contrassegna la sfera mediale, riconducendo conseguentemente al niente il segno del valore del progresso, e che non aggancia il desiderio al campo sociale. Là ci sarebbe un decentramento pieno, che aprirebbe una pratica che ho definito ecosofia, una disciplina che avrebbe a che fare con la politica, l’ecologia, l’arte, la scienza ecc., un disciplina però specifica, che sarebbe un tipo di saggezza non contemplativa.

Quali spazi di valorizzazione?

E. V.: Puoi sviluppare questa frase rimarchevole del tuo libro Le tre ecologie? “E’ sempre meno legittimo che le retribuzioni finanziarie e di prestigio delle attività umane socialmente riconosciute siano regolate soltanto da un mercato fondato sul profitto”. Si parla invece della universalità del mercato.

F. G.: L’ideologia neoliberale giustifica la sovranità del mercato attraverso la libertà di commercio. Essa postula l’esistenza di un mercato astratto, che super-codifica e regola l’insieme delle sfere economiche. Ciò è un abbaglio colossale. Il mercato non esiste. Al contrario esistono tutti i mercati possibili. Esempi: il mercato delle armi tenuto dalle potenze statuali, i mercati locali, regionali, ma anche i mercati paralleli delle droghe, della mafia o anche il mercato dell’arte. Ad un livello micro-sociologico esistono i mercatini “domestici”, come anche quelli delle pratiche di scambio nei paesi sottosviluppati. Ci sono le costellazioni di potere che si pongono e si danno come gli ambiti equivalenti del valore. Il gioco tra i mercati diventa un gioco tra questi mercati di potere. Alcuni vengono svalorizzati, altri sono sovrastimati. Non c’è di conseguenza nessuna categoria unitaria, trascendente, di mercato mondiale. Ci sono sistemi di valorizzazione che vengono posti come ambiti esistenziali di un certo numero di costellazioni e concatenamenti di potere. Così gli USA conducono, in rapporto con il mercato dei “petrodollari”, in riferimento alla guerra del Golfo, una puntuale azione geopolitica, un atto di violenza.

E. V.: Chi può attribuire un valore non commerciale? Lo Stato? Esprimi un presupposto fortemente antropologico quando affermi che per ogni attività umana esiste un segmento di valorizzazione?

F. G.: Al di fuori dello Stato si presentano tutti i mercati del desiderio come vettori della valorizzazione. Così la musica rock è macchina desiderante, da una parte, e mercato capitalistico, dall’altra. C’è anche una stretta relazione tra desiderio e desiderabilità. Non c’è soltanto il mercato di Stato ad attribuire valori non commerciali.

In una prospettiva postmoderna, si possono accettare le formazioni odierne di potere e dire che quelle che esistono sul mercato sono necessarie e inevitabili. Si può invece anche avere una prospettiva assiologia e concepire diversamente le formazioni di potere, sia per risolverle come mercato del potere fallocratico, sia per creare un mercato di potere differente, ad esempio l’arte e con ciò i collezionisti, i musei e infine tutto quello che l’arte disarticola sul mercato mondiale.

E. V.: Non esiste piuttosto una gerarchia di sistemi produttivi e formazioni di potere?

F. G.: Sì, c’è essenzialmente una gerarchia capitalistica. Si può invece presentare una multicentricità, una disposizione rizomatica delle formazioni di potere, con cui si effettua la regolamentazione nei termini di una logica del caos attraverso attrattori che determinano zone di potere deterritorializzate come quelle delle lobbies.

E. V.: Non resti così all’interno del paradigma del mercato? Cosa potrebbero essere i nuovi spazi di valorizzazione?

F. G.: Con i dispositivi della comunicazione telematica si danno nuovi concatenamenti di sintonizzazione. Nuove entità soggettive con carattere transnazionale, transetnico, transculturale ecc. appaiono, vengono a galla. Al contrario, si conservano potenze di mercato statuali, che si estendono mondialmente e tutto quello che non viene investito viene spazzato via. Già adesso l’urgenza consiste nel situare le logiche del mercato – quelle dello Stato, quelle dei poteri – nelle loro attuali funzioni, per sfuggire al mito della legittimazione piena dell’uso del diritto capitalista, di un nuovo tipo di religione neoliberale, che oggi domina quasi dappertutto. Questo decentramento assiologico mostra infine che ci sono altre possibilità pratiche; arretramento del mercato capitalista, spazi di libertà, spazi creativi per l’invenzione e la riconferma, anche per il mercato attuale.

J.-Y. S.: Non sottovaluti l’aspetto del consolidamento mediante l’equivalente monetario?

F. G.: E’ certo che l’equivalente monetario giochi il ruolo di un oggetto di fascinazione. Esso presenta le linee di deterritorializzazione più intense. E’ una involuzione ossessiva della soggettività in un oggetto di desiderio, che polverizza gli altri modi di valorizzazione. E’ la più astratta arma universale. Le nuove forme di valorizzazione devono lasciarsi alle spalle proprio questa “omogenesi” dei valori capitalistici e si devono risingolarizzare attraverso un processo che definisco “etero genetico” e che conferisce loro lo specifico livello ontologico. Per me il valore è una polarizzazione in seno all’ambito del desiderio, un ambito di potere, un ambito esistenziale, che può assumere una dimensione completamente deterritorializzata. Questa è un dimensione assiologia, che s’inscrive bene tanto nell’ambito economico quanto nell’ambito della percezione o in quello delle relazioni con l’altro, del modo di situarsi.

E. V.: Come?

F. G.: Ci sono già delle conquiste, dei livelli molecolari certi. Porto un solo esempio: il movimento di emancipazione delle donne (nonostante i rischi, i riflussi). Concretamente evoco un nuovo modo di porre ambiti di vita, di affermare resistenze civili, di sostenere minoranze, anche quando possono implodere in altre forme di superamento/conservazione. Si tratta quindi nuovamente di introdurle nelle relazioni tra le forze, tra i poteri esistenti, invece di irrigidirle nella pura utopia, come negli anni ’60; è di conseguenza necessario mediarle con quelle forze che sono inserite nel Parlamento o nel sindacato. Altrimenti queste pratiche molecolari, queste battaglie del desiderio, ricadrebbero inevitabilmente nel tempo libero, nella marginalizzazione, nel ridicolo. All’opposto di una logica della divisione in bianco e nero, che implica un’assoluta coerenza assiomatica, che non vi sia nessun punto di differenza, automaticamente progressivo.

Mediare al meglio tra loro l’ecologia sociale e l’ecologia mentale; a tutte le specifiche pratiche sociali, a queste rivoluzioni molecolari, dare una prospettiva storica; questo è ciò che resta da fare per formare nuovi spazi di valorizzazione.

Queste osservazioni sono state raccolte nel dicembre del 1991

(tr. di Ubaldo Fadini)

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