Sbarchi e respingimenti: due o tre cose da sapere

Quando i frequentatori del sito leggeranno questo articolo, gli echi della tragedia di Cutro (il naufragio in cui sono morte decine di persone, tra cui numerosi bambini) si saranno probabilmente spenti. L’informazione, si sa, funziona secondo la logica dell’emergenza: le notizie nuove “divorano” quelle vecchie in pochi giorni, e il flusso incessante di novità non lascia il tempo per pensare, capire, approfondire.

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Migranti

E però, se vogliamo evitare il ripetersi di tragedie di questo tipo, dobbiamo fermarci un attimo e porci qualche domanda: il naufragio di Cutro è stato solo il frutto di una fatalità, o quelle vite si potevano salvare? Cosa non ci è stato ancora raccontato, di quella vicenda e di tante altre analoghe che si sono verificate nel corso degli anni? E cosa possiamo fare noi, semplici cittadini e cittadine, per fermare la strage silenziosa che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero d’acqua?

Il caso degli albanesi

Chi ha qualche capello bianco in testa ricorderà che, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, i naufragi avvenivano soprattutto nel Canale di Otranto, in quel piccolo braccio di mare che separa l’Albania dalle coste della Puglia: erano gli albanesi che cercavano di arrivare in Italia a bordo di imbarcazioni precarie e fragili. E proprio per i migranti del Paese delle Aquile furono coniate le espressioni che ancora oggi fanno parte del lessico giornalistico sulle migrazioni: “carrette del mare”, “disperati”, “clandestini”, “scafisti”, “trafficanti”, ecc.

Secondo una stima del giornalista Gabriele Del Grande, tra il 1991 e il 2010 ben 696 tra uomini, donne e bambini persero la vita nel tentativo di attraversare il Canale di Otranto. Poi, improvvisamente, nessuno ha più parlato dell’Albania: le stragi in mare – purtroppo – non sono cessate, ma sono avvenute per lo più al largo della Sicilia, e hanno coinvolto i migranti che partivano dal Nord Africa. E gli albanesi, che fine hanno fatto?

La risposta è semplice, e – come vedremo tra un attimo – molto istruttiva: il 24 Novembre 2010 l’Unione Europea ha emanato il Regolamento n. 1091, che ha disposto l’abrogazione dei “visti di breve durata” per due Paesi balcanici, la Bosnia-Erzegovina e l’Albania. Da quel momento, tutti gli albanesi sono stati autorizzati a entrare in territorio Ue (e dunque anche in Italia) senza richiedere un visto all’Ambasciata, e dunque senza doversi sottoporre ai complicatissimi meccanismi amministrativi che caratterizzano la procedura di rilascio di un visto. In Italia, come in tutta Europa, la legge garantisce alle rappresentanze diplomatiche un’ampia discrezionalità in materia: il che significa che ottenere un semplice visto turistico è spesso impossibile. Grazie al nuovo Regolamento Ue, gli albanesi sono stati “liberati” da questi ingranaggi burocratici, e hanno potuto venire in Italia a bordo di normalissimi traghetti di linea, senza più rischiare la vita in mare.

Ciò non significa – beninteso – che le frontiere siano state completamente aperte: la normativa Ue si è limitata a liberalizzare gli ingressi “di breve durata”, quelli dei turisti e dei visitatori occasionali; gli albanesi che intendono arrivare per lavoro, o che comunque vogliono trasferirsi nel nostro paese, sono ancora sottoposti al regime restrittivo dei visti. E infatti molti entrano in Italia per turismo, e poi rimangono da irregolari (perché la legge non consente il rilascio di un permesso di soggiorno a chi è entrato “per breve durata”). Intanto, però, sono cessati i naufragi: ed è già un risultato importante.

È davvero impossibile aprire le frontiere?

Ci si potrebbe chiedere allora perché non aprire le frontiere anche ai migranti che provengono dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana, come si è fatto per gli albanesi. Quando si pone questa domanda, arriva quasi sempre il profluvio di obiezioni di senso comune: «sono poveri, se li lasciamo entrare verranno qui in massa», «non abbiamo le risorse per accoglierli tutti», «ci sarà un’invasione», e così via. Ma le cose stanno davvero così?

Anche l’Albania è un paese povero: il reddito medio lordo si aggira sui 500 euro al mese, più di 600mila persone (quasi un quarto dell’intera popolazione) sono sotto la soglia di povertà, il 35% dei cittadini vive in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Se davvero l’immigrazione fosse il prodotto meccanico delle difficoltà economiche e dell’indigenza, l’apertura delle frontiere con il piccolo paese balcanico avrebbe dovuto provocare una “marea” di nuovi arrivi. E invece il numero di immigrati albanesi residenti in Italia è addirittura diminuito: dai 480mila del 2010 ai 390mila del 2021 [fonti: Idos, Dossier Immigrazione 2011, pag. 93; Dossier 2022, pag. 107]. Anche i (pochissimi) dati sull’immigrazione irregolare smentiscono le obiezioni “allarmistiche”: gli albanesi “sans papier” espulsi dall’Italia sono poco più di un migliaio l’anno, una cifra irrisoria.

Insomma, aprire le frontiere non provoca alcuna “invasione”. Questo ci dicono i dati.

La questione dell’asilo

La vicenda di Cutro chiama poi in causa la questione del diritto di asilo. Come noto, l’Italia garantisce un permesso di soggiorno a chiunque abbia un «fondato timore di persecuzione» (come recita la Convenzione di Ginevra) o a chi fugga da guerre, dittature e situazioni di emergenza umanitaria. Da sempre gli esponenti della destra al governo ripetono che il diritto di asilo è sacro inviolabile; e tuttavia, a questa frasetta rituale non mancano mai di aggiungere il classico «ma», come nel noto adagio «io non sono razzista, ma…»: «ma» i migranti che sbarcano in Sicilia non sono veri rifugiati, «ma» non fuggono davvero dalle guerre, «ma» non sono realmente perseguitati, e così via.

Potremmo discutere a lungo di cosa sia un “vero” rifugiato, e delle procedure con cui in Italia le autorità competenti riconoscono (e spesso rifiutano) il diritto di asilo: è un ragionamento che ci porterebbe lontano, e non abbiamo il tempo di dilungarci.

Ci interessa qui evidenziare un punto decisivo, di cui poco si è parlato nel dibattito di questi giorni. Secondo la legge italiana (decreto legislativo 25/2008, art. 3 comma 2), le uniche autorità competenti a ricevere una domanda di asilo sono la polizia di frontiera e la Questura. E qui bisogna fare attenzione, perché il diavolo si nasconde nei dettagli: la legge menziona la polizia di frontiera e la Questura, cioè due entità che si trovano solo ed esclusivamente sul suolo italiano. Significa che, per chiedere asilo, lo straniero perseguitato deve trovarsi già in Italia. E se si trova già in Italia vuol dire che ha già varcato il confine: dovrebbe cioè essere entrato con uno di quei famosi “visti” che, come abbiamo visto, sono spesso impossibili da ottenere.

Ecco allora l’inghippo. Un potenziale rifugiato che voglia chiedere protezione al nostro paese non può far altro che varcare illegalmente la frontiera: la legge italiana lo costringe a entrare da “clandestino”, per poi regolarizzarsi come richiedente asilo. Per questo tanti cittadini stranieri in fuga dai loro paesi intraprendono viaggi pericolosi, e qualche volta mortali.

La soluzione sarebbe semplice: basterebbe garantire la possibilità di presentare la domanda di asilo all’Ambasciata italiana nel paese di origine; l’Ambasciata dovrebbe poi rilasciare un visto, con il quale lo straniero potrebbe entrare regolarmente in Italia. E in fondo anche questa è una storia antica: nel 1973, dopo il golpe di Pinochet, tanti dissidenti e attivisti democratici riuscirono a salvarsi chiedendo asilo all’Ambasciata del nostro paese a Santiago.

Si tratta insomma di introdurre un visto specifico, che consenta un ingresso finalizzato alla presentazione di una domanda di asilo. Non dobbiamo inventare nulla, perché una simile procedura è già contemplata dall’articolo 25 del Codice Europeo dei Visti. Nel linguaggio tecnico-giuridico, la possibilità di richiedere protezione rivolgendosi all’Ambasciata si chiama «corridoio umanitario».
Come si vede, la tragedia di Cutro poteva, certo, essere evitata. Non solo accelerando i soccorsi, che invece sono arrivati drammaticamente (e forse colpevolmente) in ritardo: ma anche introducendo un minimo di razionalità e di umanità nel nostro diritto dell’immigrazione.