Un Dario poco referendario. Ostacolati i due referendum contro gli studentati di lusso

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A Firenze, l’amministrazione comunale neutralizza i due referendum consultivi popolari promossi contro il proliferare degli studentati di lusso e del turismo di rapina. Ciò avviene con un inaudito atto di auto-emendamento al piano urbanistico adottato. Sorge il dubbio che il Partito Dominante abbia timore degli effetti di un appuntamento referendario che si svolgerebbe in prossimità della campagna elettorale.

Firenze è da almeno quindici anni decisamente indirizzata alla monocoltura turistica. Hotel di lusso si insediano in ex edifici pubblici svenduti alle grandi società alberghiere, nuovi studentati privati accolgono studenti facoltosi e abitanti short term, favorendo in tal modo il ricambio di residenti, foriero, secondo alcuni amministratori, di progressismo e di innovazione sociale. Intanto gli studenti universitari, quelli normali (magari meridionali, magari poveri), sono costretti a cercare casa nei comuni limitrofi o a rinunciare agli studi.

In questo clima da fortino assediato (dalle holding), l’amministrazione comunale preferisce silenziare la partecipazione popolare anziché aggredire il problema della rendita e quello del caro affitti che inficia un pieno godimento del diritto alla casa.

I referendum consultivi sono elaborati e promossi dal soggetto collettivo “Salviamo Firenze” che costruisce due quesiti di natura tecnico-urbanistica sui seguenti temi:

a) depennamento dei tre mesi di uso turistico non-studentesco nel periodo estivo, che il Comune concede agli studentati privati (tipo: The Social Hub, Camplus etc.) in aggiunta al 49% di attività alberghiera già previsto secondo normativa nazionale;

b) abolizione della norma urbanistica che consente il passaggio automatico da direzionale pubblico a direzione privato (destinazione d’uso che comprende: studentati, centri benessere etc.).

Presentati nel gennaio 2023, i due quesiti sono stati sottoposti al Comitato di esperti che ne ha verificato l’ammissibilità il 28 maggio scorso. Per indire la consultazione popolare nonché la preliminare raccolta delle 10.000 firme necessarie, il sindaco Nardella ha tempo fino al 2 giugno.

Niente da fare. Il 30 maggio, tre giorni prima della scadenza, Nardella annuncia alla stampa che la giunta accetta –  parzialmente – le proposte dei quesiti, con due “auto-osservazioni” al Piano Operativo, che è per l’appunto in fase di accoglimento delle osservazioni (fino al 26 giugno). Resta poi da capire come, e se, le due auto-osservazioni saranno effettivamente recepite e accolte nel PO approvato.

Cerchiamo di capire: i governanti sono a conoscenza dei quesiti, poiché passati in Consiglio comunale. Scrivono tuttavia il PO senza accoglierli. Allorquando i referendum vengono ritenuti ammissibili, gli stessi governanti cambiano opinione e cominciano ad apprezzare i due quesiti. Un atteggiamento che, indicativo della portata di problemi riconosciuti dopo nove anni di governo, porta il Comune ad auto-emendarsi e a presentare osservazioni al PO come cittadini qualsiasi. O meglio: ad annunciare alla stampa che le auto-osservazioni si faranno, senza tuttavia, per ora, emanare atti ufficiali.

Palazzo Vecchio assume una posizione strumentale, utile ad impedire che in città si apra un dibattito ampio sul modello cittadino, sulla turistificazione asfissiante, sul diritto alla casa negato, sulle ingiustizie urbane. Una consultazione referendaria, soprattutto nella fase della raccolta delle firme, può essere infatti un momento di informazione, di confronto aperto, di partecipazione popolare. Proprio ciò che si teme.

Sono decenni che, in città, la partecipazione popolare alle decisioni sullo spazio urbano è tradita. Invalidata dalla forza dei poteri economici nel disegno della città; superflua a fronte della sostituzione del piano con una sommatoria di progetti flessibili (le famose AT, aree di trasformazione), di opere infrastrutturali, di slogan. La fine della pianificazione ha trasformato dunque la partecipazione in un rito sterile, in un processo di costruzione di consenso, di addomesticazione del conflitto.

A conferma, si ricordano almeno: Sant’Orsola, oggi in concessione alla privata Artea; il Panificio militare, divenuto supermercato (in costruzione); San Salvi, con la previsione di un’arteria di scorrimento trasversale.

Insomma, un rito inutile. Inutile al popolo. Utile, viceversa, a ratificare ciò che già sta nelle intenzioni dei governanti, o delle forze economiche cui essi rispondono. Quando la partecipazione non si è dimostrata completamente fallimentare, ciò è avvenuto perché l’iter si è concentrato su aree marginali, su arredo e pavimentazioni (l’urbanistica tattica), in condizione di libertà vigilata.

Ma non sono queste le condizioni per dar vita alla partecipazione popolare. La partecipazione non deve limitarsi ad esercizi di rigenerazione di una democrazia rappresentativa in piena crisi. Essa è viceversa pratica di liberazione dalle prescrizioni del capitalismo, e strumento di autodeterminazione nella costruzione di modi di vita, di politiche trasformative sui territori, nelle forme di produzione e di riproduzione.

 

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

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