Funzionare o esistere?

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Gli uomini conoscono tutti l’utilità di essere utile,
ma nessuno conosce l’utilità di essere inutile…
(Chuang-tsu)

Ho più volte detto che, uno dei dispositivi attraverso i quali lo sviluppo storico politico dell’Occidente è giunto a una forma di governance di tipo capitalistico e a una società dominata dalla tecnica, è quello della scrittura alfabetica[1]. Tra il quinto e il settimo secolo a.C. si sarebbe creata in Grecia una situazione attraverso la quale si sono aperte le porte alla possibilità di mettere in atto tutto il potenziale del pensiero astratto, liberato dalla convergenza degli effetti di più dispositivi.

È in questa congiuntura che prende vita il percorso che porterà l’Occidente a sviluppare un apparato tecno-scientifico senza eguali, ma che, nello stesso tempo, silenzierà progressivamente tutte le conoscenze magico religiose e le forme di sociazione basate su rapporti di tipo simbolico. Ma da cosa astrae? Astrae dalla contingenza, dalla presenza. Inserisce un differimento attraverso il quale il ragionamento può abbandonare i corpi e vivere nella carta (o su supporti similari).

Il transito dalla voce alla scrittura mette così in atto un processo attraverso cui si libera tutto il potenziale tecnologico della lingua. Si attua così il passaggio di testimone dal piano semantico a quello semiotico secondo la concettualizzazione che ne ha fatto Benveniste. Distinzione questa che riprende il rapporto tra langue e parole proposto da Saussure in una rilettura che gli dà un nuovo potenziale epistemologico. Per Benveniste

la lingua combina, cioè, due modi distinti di significanza, che chiameremo modo semiotico e modo semantico. Il primo designa il modus significandi che è proprio del segno linguistico e che lo costituisce come unità. […] L’esercizio semiotico in senso stretto consiste nell’identificare le unità, descriverne i tratti distintivi e scoprire criteri sempre più raffinati di distintività. Così ogni segno sarà chiamato ad affermare il suo significato, ogni volta più chiaramente, in seno a una costellazione o a un insieme di segni. Preso in se stesso, il segno è pura identità a sé, pura alterità rispetto a tutto il resto, base significante della lingua, materiale necessario dell’enunciazione. Esiste quando è riconosciuto come significante dall’insieme dei membri della comunità linguistica ed evoca in tutti, grosso modo, le stesse associazioni e opposizioni […] Con il semantico, entriamo nel modo specifico di significanza che sorge con il discorso. I problemi che si pongono qui sono funzione della lingua come produttrice di messaggi. Ora, il messaggio non si riduce a una successione di unità da identificare separatamente; non è una somma di segni a produrre il senso, ma è al contrario il senso (“l’intento”), concepito globalmente, che si realizza e si divide in “segni” particolari, le parole. Il semantico, poi, si fa necessariamente carico dell’insieme dei referenti, mentre il semiotico è per principio sganciato e autonomo da ogni referenza. L’ordine semantico si identifica con il mondo dell’enunciazione e l’universo del discorso. […] Il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto; il semantico (il discorso) deve essere compreso. La differenza fra riconoscere e comprendere rinvia a due facoltà distinte della mente: quella di percepire l’identità fra l’anteriore e l’attuale, da una parte, e quella di percepire la significazione di una nuova enunciazione, dall’altra. (Benveniste 2009, pp. 19-20)

La sistematizzazione del semiotico procurata dalla notazione scritta provoca la scissione tra le culture orali e quelle della scrittura. Fonda quell’operazione che trasforma il logos in ratio, ma anche rifonda, nello stesso tempo, il linguaggio stesso, permettendo di analizzare il discorso orale e trasformarlo in un sistema di segni. Di passare cioè da un sistema simbolico a uno segnico. La voce umana diviene significante e si allontana dalle voci animali che avevano risuonato sino ad allora; voci alle quali peraltro non era mancato il contributo degli umani stessi. Suoni vocalici come il riso, il pianto, il fischio, il singhiozzo. Ma anche suoni non “significanti” come l’appellazione, l’evocazione, l’apostrofare, l’inno. Il linguaggio animale contiene il carattere espressivo, quello umano ha anche quello lessicale. Ma essi non sono originariamente in opposizione. La lingua che non conosce la scrittura conteneva infatti quelle funzioni che il modo vocativo e quello nominativo veicolano. Il Sapiens aveva comunque il linguaggio, popoli senza scrittura usano comunque la lingua. Semplicemente, la scrittura apre a una possibilità ulteriore e spesso confliggente con quegli usi, attraverso la quale si dà lo strumento indispensabile affinché la voce si articoli.

Articolare le parole significa pronunciarle con chiarezza, sottrarle al continuum della loro esistenza sul piano sonoro. La scrittura offre i grammata, le lettere dell’alfabeto, le unità minime e discrete attraverso le quali le parole si costituiscono in segni. Ma la significanza del linguaggio non si esaurisce all’interno del piano semiotico dove le unità significanti trovano una loro combinatoria ad hoc; rimane non tanto come resto ma come sfondo portante, il piano della semantica, dell’articolazione della parole, della voce in quanto suono profferito e udito, in quanto prossemica, in quanto faccia a faccia.

Il materiale sonoro è continuo e la sua partizione in tratti fonetici si è dimostrata inconcludente. “Nell’atto di parola, i suoni non si succedono, ma si intricano e si legano così intimamente che le unità che noi crediamo di poter distinguere tanto al livello morfologico che a quello fonetico costituiscono in realtà un flusso perfettamente continuo” (Agamben 2023, p. 83). È il fatto che la traccia sia continua e non discreta che dirime il senso della differenza. L’alfabeto offre alla “traccia” questa opportunità, la possibilità di inserire la parola all’interno di una grammatica per regolarizzarne così le combinatorie. Il linguaggio, la voce “grammaticata”, è il piano “in cui l’uomo occidentale ha messo in scena il mitologema del suo diventare umano, cioè del passaggio e dell’articolazione fra natura e cultura, fra il corpo vivente e il lògos” (ivi, p. 85). È qui che l’uomo occidentale prende i panni definitivi dell’antropo dell’antropocene. “Di qui le fratture insanabili che percorrono in vario modo la cultura umana, divisa in un polo irrazionale ed estatico e in uno razionale e conoscitivo, in inconscio e coscienza, fede e ragione, ispirazione e riflessione” (ivi, p. 87). Ma questa scissione non è un dato di cui semplicemente prendere atto e dover forzatamente accettare. È il nodo fondamentale della politica. Delle scelte umane. È una scissione che nessuno vieta venga ricomposta. In realtà qualcuno c’è e si chiama ancora una volta Capitalismo. Il sistema che si è originato alla fine di un percorso nato da quella scissione.

Le stringhe alfabetiche che le Ai generative di tipo LLM (Large Language Model) come ChatGpt e Bard fagocitano compulsivamente, non sono e non possono essere tratti vocalici se non attraverso la loro digitalizzazione che, come è facile intuire, lascia fuori dal processo quello che fa di una voce, la voce degli amanti, la preghiera sommessa e l’inno e, di nuovo, il singhiozzo, il pianto e il riso. La voce che “ascolta” la macchina è tendenzialmente una voce astratta: la voce di nessuno. Il semiotico è il piano della tecnica, il piano della legge che, attraverso la grammatica, il codice, può essere la legge del despota. La legge che condanna Antigone. La semantica è invece il piano di significazione del potlatch, della festa, dei riti popolari. È il piano che guida il comportamento di Antigone. “L’enunciazione è l’atto stesso di produrre un enunciato e non il testo dell’enunciato che è il nostro oggetto”[2], si ha infatti a che fare con un’azione comunicativa che attualizza la lingua in un discorso.

Il semiotico è il piano dell’etica, il semantico è quello dell’estetica. Il semiotico subordinato alla scrittura segna l’impossibilità che ha un’estetica di farsi etica e rimanda alla possibilità dell’etica di ignorare l’estetica. E, se l’estetica ha a che fare con il piacere (vedi qui), il piano semiotico, la tecnica dispiegata, tende a negarlo. “Il pensiero occidentale si è sviluppato a partire da una scissione originaria che separa verità e sensazione, scienza e gusto. Visibile e invisibile, apparenza e essere. Gli oggetti del sapere sono dunque verità e bellezza originariamente scisse.
La sapienza non dà piacere.“’Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più apparente (ekphanéstaton) e la più amabile (erasmiotaton)’ (Fedro, 250d)” (Agamben 2015, p. 14). Il problema poi del fatto che un fenomeno faccia parte della scatolina etichettata “semiotico” o di quello dell’altra scatolina con l’etichetta “semantica”, è abbastanza relativo. Quello che mi interessa è l’esistenza di più piani della significazione e che il piano umano sia di fatto diverso da quello nel quale operano le AI generative attuali.

È facile immaginarsi la differenza tra il modo che gli umani hanno di manipolare la materia linguistica e quello che fa la macchina; essa ha un modo di operare sulle parole come pescandole da un sacchettino come si fa con i numeri della tombola per poi depositarle su delle cartelle nelle quali la presenza e la vicinanza delle altre crea senso: l’ambo, la cinquina etc. Nella scrittura alfabetica le parole si depositano una dietro l’altra su una striscia. Anche nel discorso parlato c’è certo una sequenzialità ma questa non è semplicemente lineare, si muove e si svolge nello spazio sonoro, tanto che si può parlare di flussi di significazione, di arresti, di picchi e di anse. C’è una voce vicina e una lontana, una di fronte e una alle spalle; c’è un eco. La parola non esaurisce lo spazio sonoro, c’è spesso un mormorio sullo sfondo, c’è sempre uno sfondo. Nella scrittura e in ogni altro differimento della voce c’è la possibilità di dire/scrivere, di raccontare il dove, di evocare una prossemica. I poeti e i grandi narratori spesso ci riescono. E infatti usano delle combinazioni evocative e non significative. La macchina probabilistica – le AI generative – le conoscono, le hanno lette durante l’addestramento, ma la potenza evocativa che si sprigiona dall’incontro desueto di due termini – che spesso alimenta il lavoro del poeta – fa sì che proprio il suo essere desueto non incuriosisca l’algoritmo. L’analogia, la metafora e altre figure retoriche sono nel linguaggio e la macchina cognitiva che lavora su di esso le usa perché già usate, non ne propone nessuna di nuova. Usa e userà quelle con occorrenze più frequenti, trascurerà quelle desuete, quelle così tanto desuete, nelle quali si può, proprio per questo, nascondere però una carica simbolica enorme. Spesso è l’inconsueto stesso che veicola il senso.

La percezione è una costruzione attiva, orientata all’azione, invece che una registrazione passiva di una realtà esterna oggettiva”, dice Anil Seth (2023). Quello che percepiamo è sia meno sia più di qualsiasi cosa la realtà esterna oggettiva possa essere. I nostri cervelli creano i mondi tramite processi che portano alle migliori ipotesi bayesiane[3], in cui i segnali sensoriali servono primariamente a tenere sotto controllo le nostre ipotesi percettive che si evolvono di continuo. Viviamo entro un’allucinazione controllata che l’evoluzione ha selezionato non per la sua accuratezza, bensì per la sua utilità. All’ipotesi di Uexküll, secondo il quale l’ambiente-mondo è in funzione dei percettori di cui siamo dotati, segue questa posizione per la quale anche la percezione non è un fenomeno lineare. Il percepito non è qualcosa di oggettivo, perfettamente delineato e stabile. Esso è il frutto di innumerevoli sollecitazioni da parte di altrettanto innumerevoli attori. Certo anche in questo caso ci sono differenze importanti tra enti che hanno più o meno sviluppata la capacità di disambiguare gli stimoli, gli affetti e i percetti. “Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago (tutto scorre e ogni cosa ha forme errabonde)” (Ovidio, metamorfosi XV, 178). “una frazione di questa variazione può essere ‘notata’ in se stessa ed ottenere ‘risalto’ per la coscienza solo se, per mezzo dei momenti ricoprenti, si è creata una discontinuità, e con ciò l’intero concretum che corrisponde ad essa è stato distinto” (Husserl, terza ricerca).

Molte delle questioni che emergono nei confronti delle AI riguardano la coscienza. Essa è un meccanismo che si rivolge alla parte non automatica del comportamento ed è un tratto che abbiamo in comune con gli animali non umani con i quali non condividiamo soltanto la “mente” antica, la mente istintuale, ma anche il fatto che essi usano lo stesso meccanismo per prendere il timone nei momenti “imprevisti”. Le differenze riguardano invece il pensiero simbolico che peraltro non tralascia di occuparsi anche delle funzioni dette automatiche, la propensione al gioco, la paura, etc. Il pensiero simbolico esprime la capacità degli umani di usare concatenamenti di senso totalmente astratti. Ma lo spettro degli stimoli in entrata di cui la coscienza, in alcuni casi. si prende carico riguarda anche le emozioni. Esse salgono alla coscienza e orientano il comportamento, in alcuni casi quello automatico ma molto spesso quello cosciente[4]. Gli umani non sono fortunatamente meramente efficienti. È il dispositivo antropogenico dell’uomo occidentale (che culmina con il capitalismo) che persegue l’efficienza mettendo le emozioni in secondo ordine privilegiando nello stesso tempo tutti i fattori che riguardano gli sviluppi tecno-scientifici dell’ambiente mondo.

Il macchinario predittivo della coscienza ha la propria origine e funzione primaria non nella rappresentazione del mondo o del corpo, bensì nel controllo e nella regolazione della nostra condizione fisiologica. La totalità delle nostre percezioni e cognizioni – l’intero panorama dell’esperienza e della vita mentale umana – è foggiata da un profondo impulso biologico a sopravvivere. Percepiamo il mondo intorno a noi, e noi stessi all’interno di esso, con, mediante e a causa dei nostri corpi viventi (Seth 2023, ed. digit. 92%).

L’impulso alla sopravvivenza è la forza motrice dei processi mentali degli esseri viventi. Anzi coincide con il mentale. Anche i vegetali hanno infatti una mente che è, appunto, quel dispositivo che orienta il comportamento al fine della sopravvivenza. La coscienza espressa nel pensiero simbolico, legato alle facoltà linguistiche, può operare secondo processi più complessi attraverso i quali si può espletare la negazione; anche quella che riguarda la vita stessa.

Le coscienze artificiali all’ordine del giorno sono le AI generative che funzionano in maniera assurda. La ricerca sulla “coscienza artificiale” bisognerebbe che svoltasse nella direzione dell’autopoiesi della macchina che la farebbe uscire dalla dimensione esecutiva di un programma, situazione che la condanna per forza di cose all’automatismo. Quando la macchina si scriverà il codice da sola, adattandolo alla percezione, si potrà parlare di coscienza non biologica. Attenzione nel deeplearning la macchina già usa forme di autoapprendimento, ma lo fa all’interno di coordinate di scopo che fortunatamente non la fanno deragliare dai compiti che le sono stati assegnati. In questo momento la tecnologia è infatti incentrata sulla capacità della macchina di interagire con gli umani e lo fa semplicemente riutilizzando la produzione umana, ordinandola per inferenze statistiche. È la stessa cosa che facciamo noi quando vogliamo affidare più compiti possibili al pilota automatico. In questo caso però, il risultato di questo processo non rimanda alla coscienza della macchina ma più probabilmente all’automazione dell’umano.

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  1. Margherita Pascucci (2022) ci aggiunge anche l’invenzione del conio e il passaggio dal politeismo al monoteismo. Con l’invenzione del denaro, dell’equivalente generale, si sarebbe infatti creata la prima astrazione che ha permesso di omogeneizzare le differenze, equiparare e scambiare i prodotti. Già nel rendere commensurabile qualcosa di diverso si è di fatto operato un primo piccolo salto nella direzione ipotizzata.
  2. Émile Benveniste, «L’appareil formel de l’énonciation». In: Id., Problèmes 2, pp. 79–88; p.80
  3. La probabilità bayesiana è un’interpretazione del concetto di probabilità, in cui, anziché la frequenza o la propensione di qualche fenomeno, la probabilità viene interpretata come aspettazione razionale rappresentante uno stato di conoscenza o come quantificazione di una convinzione personale.
  4. Ma anche inconscio. C’è infatti differenza tra inconscio e automatico. I processi inconsci non riguardano soltanto gli automatismi.

Agamben, Giorgio, Gusto, Quodlibet, Macerata 2015

Agamben, Giorgio, La voce umana, Quodlibet, Macerata 2023

Emile Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, Bruno Mondadori, Milano 2009

Anil Seth, Come il cervello crea la nostra coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2023

Le immmagini sono state generate usando un AI text to image su prompt dell’autore

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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