*Per un’ecologia anticapitalista del digitale – parte #13.1
La smaterializzazione della realtà non coincide con la realtà virtuale. Quest’ultima ne è il surrogato. Non è il metaverso, ma una serie di fenomeni diffusi che cambiano il nostro rapporto con le cose e fanno affievolire i contorni della realtà. Per Heidegger il nostro rapporto con le cose è un rapporto utilitario, riguarda la loro manipolabilità, la tecnica è allora una messa a disposizione delle cose che nell’uso svelano e manifestano la loro esistenza. Ma la cosalità della cosa non si esaurisce in questo rapporto, c’è qual-cosa che sfugge a questa presa ed è l’attrezzo rotto, «la semplice-presenza del non adoperabile non è completamente priva di utilizzabilità, e il mezzo che è così presente non è ancora una cosa qualsiasi» (Heidegger, p. 100) è qual-cosa di importuno. L’esistenza delle cose, la loro realtà oscilla tra il loro essere a portata di mano, il loro modo di essere utilizzate e la loro impertinenza nel momento che non si adattano allo scopo. Le cose, strappate al loro classico contesto funzionale, possono infatti condurre una vita propria.
L’insegnamento di von Uexküll ci dice che l’ambiente intorno a noi si determina a partire dai recettori e effettori (li chiama marcatori) di cui siamo a disposizione. Un carattere della specie umana è quello di poter disporre “naturalmente” di recettori e effettori artificiali, attrezzi e protesi. Esperire il mondo, avere un ambiente è allora anche in funzione degli strumenti, che segnano perciò una apertura o una chiusura al mondo in relazione al loro uso. La tecnica modella la realtà non soltanto nei termini della sua manipolazione fisica, non soltanto in termini ingegneristici, ma anche come percezione, come via/vie di accesso. L’ambiente mondo degli umani è in funzione delle pertinenze dei mezzi tecnici messi in campo. C’è perciò la possibilità di un’apertura utilitaria e un’altra ludica. Una che prende corpo dalla pertinenza dell’attrezzo e l’altra dalla sua impertinenza che apre al mondo di un ulteriore possibile, al mondo del “fare finta che” per il quale una scopa, anche se ormai in-utilizzabile, si può cavalcare. La pertinenza e l’impertinenza digitali sono un’altra cosa, anche se egualmente decidono l’apertura o la chiusura all’ambiente mondo. La pertinenza digitale è di tipo correlazionale. Non è una specializzazione, un modo di essere a portata di mano, formata materialmente in funzione dell’uso. Qualcosa che fuori di quell’uso ci stia semplicemente tra i piedi o che trovi una sua vitalità altra (il riferimento è al racconto di Kafka imperniato sulla figura di Odradek – se non lo avete presente leggetelo, è una paginetta). La cosa digitale è informale, non è foriera di causazione. Non contiene il suo destino e non è capace di opporglisi. La cosa digitale è pura pertinenza, è totalmente asservita allo scopo. Nel guasto svanisce. Nel guasto non emerge nessuna massa inerziale, quella cosalità impertinente che ti sta tra i piedi. Nel guasto, non si apre a nessun nuovo uso. Ma c’è di più: essendo pura specializzazione, orfana volontaria dell’apporto manipolatorio umano, la cosa digitale è una cosa oscura. Il modo di fare della macchina digitale, dell’algoritmo effettuale ci è infatti sconosciuto, estraneo. In questo consiste la sua immaterialità più ancora del fatto di essere pura informazione, pura significanza senza referente. Invece di potenziare l’umano, di aprirlo a un ambiente espanso da questo nuovo marcatore (recettore/attuatore), lo sposta di lato. La macchina che autoapprende attraverso processi di deep learning è in sé la macchina che spodesta l’umano.
La magia dell’automazione va presa alla lettera […] un meccanismo con un fine non perseguirà necessariamente i nostri fini, a meno che non lo progettiamo così, e se nel progetto non prevediamo ogni passo del processo che realizza quel fine […] Il prezzo da pagare per gli errori di previsione, per quanto sia già grande ora, sarà sempre più grande quando l’automazione verrà usata in tutto il suo potenziale. (Norbert Wiener, God and Golem, Inc.)[1]
Con il fenomeno delle bolle – della chiusura in cerchie di riferimento, intrinseco al bisogno di profilazioni degli utenti e funzionale ai fini pubblicitari e a un ritorno profittevole dell’investimento nelle tecnologie della rete – il mondo e la realtà si restringono. La normalizzazione del mondo, equivale a una chiusura. Si costringono le
capacità manipolatorie. La duttilità e la elasticità dello strumento digitale vengono così castrati, impedendo alla fantasia, che lo strumento digitale espande, di reincantare il mondo, osteggiata dall’algoritmo di scopo che sovraintende al funzionamento di tutto lo stack operazionale, alla macchina digitale implementata dal capitale.
Oggi molta della nostra realtà la percepiamo tramite schermi. Molta di essa è archiviata e resa disponibile nello stesso momento nella quale si mostra. Il mondo appare in diretta sui nostri schermi, così come in diretta avviene la sua trasduzione digitale e la sua archiviazione in supporti a portata della nostra mano o stoccati nel cloud. La realtà e la vita sono in diretta.
La storia ha a che fare con la memoria. Gli umani hanno forme di ritenzione plurali. C’è una memoria automatica che presiede le funzioni involontarie che è un misto tra memoria genetica, un carattere specifico (della specie) e memorie automatiche acquisite, per esempio come si fa a camminare. C’è poi una memoria esterna ed è quella degli oggetti tecnici, delle tecnologie mnestiche che cambiano il paradigma dei saperi umani in maniera incisiva.
Il tempo storico è sempre un tempo differito. Tra l’evento e la sua archiviazione c’è sempre una distanza temporale. L’evento precede la memoria. Ma con le tecnologie digitali la trasmissione in diretta comprime e condensa nell’attimo, nell’hic et nunc, con un qui ubiquo dovuto alla potenza della rete. Lo spazio dell’evento si smaterializza e il tempo viene occultato perché non si ha più accesso alla selezione. Il concetto di memoria implica infatti lo scarto di quello che non si mette in memoria, implica la selezione. Si ha soltanto il semplice svolgersi degli eventi che si manifestano senza nessun filtro. Il divenire non è un evento; l’evento è una forma di discretizzazione del reale; è la selezione nascosta che fa sì che la memoria trovi il suo oggetto. Il mezzo digitale è un pharmakon mnestico più potente della scrittura, La scrittura dilata la distanza tra l’esperienza, la coscienza e la possibilità di condividere l’evento. La scrittura alfabetica, la lettura silenziosa, la stampa sono tre tappe fondamentali del predominio di una tecnologia della memoria su supporto esterno che hanno condizionato il modo di pensare degli umani. Hanno trasformato la magia in scienza, hanno messo a tacere la voce dialogante trasformando il logos in ratio. Sono alla base di una forma di disincanto che segna l’Occidente. Sono una messa in cammino verso la tecnica, verso il dominio della tecnoscienza.
La scrittura è uno spostamento e un assestamento. La scrittura dà perentorietà alla voce. Univocizza il pensiero. La conservazione analogica della voce permette una distanza, permette di lavorare diacronicamente sul senso. La conservazione digitale opera non solo sulla voce, sul discorso, sul logos, ma anche sulla vista, sul gesto, sull’immediatezza dell’immagine che scavalca la fase della rimembranza (ritenzione secondaria, per attenersi al vocabolario di Husserl/Stiegler)[2], perché l’immagine si presenta senza intermediazione. Veicola più ripetizioni che differenze. È più immediata che mediata. L’immagine è meno dia-logica dell’accoppiata voce-scrittura. Gli umani digitali sono così meno razionali di quelli analogici, di quelli della lettura. Questo non significa che siano più creativi, più immaginifici, semmai più introversi, più riflessivi in termini narcisistici, meno propensi al dialogo, a quel tipo di relazione capace di creare narrazioni che sappiano sedimentarsi nel sentire/sapere collettivo. Questo non significa che possano recuperare le voci delle culture orali, i collegamenti magici, i legami della stirpe.
Con la scrittura la temporalità del racconto storico si mostrava in tre momenti. Il tempo dell’evento precedeva il tempo del racconto, della rimemorazione, del mnestico come atto mentale, del richiamo alla coscienza. Poi, per ultimo, sopravveniva il tempo della lettura. Questa temporalità caratterizzava l’evento nelle culture alfabetiche. La dilazione temporale dell’evento, la sua manifestazione in tre tempi, lo poneva sotto lo sguardo critico dello storico e del lettore. Nella diretta in tempo reale si elimina questa temporalità che era anche tempo a disposizione per un giudizio critico, per una decodifica del messaggio che apriva alla possibilità della sua messa in discussione. Di fronte all’avvenimento in tempo reale, lo spettatore è molto più disarmato e inerme del lettore di fronte all’evento storico (cfr. Stiegler, p. 153). La decodifica dell’evento che la memoria in forma di scrittura contiene, fa parte di quell’apprendimento che porta il soggetto a saper leggere e scrivere. Saper leggere e scrivere proviene da un percorso, lungo il quale si impara la pertinenza del linguaggio, il significato di ogni sintagma e la relazione che ogni sintagma ha con tutti gli altri. La codifica e la decodifica sono in qualche modo anche un approccio critico o, perlomeno, dei momenti nei quali questo approccio può essere messo in campo, anche perché in possesso degli strumenti critici per poterlo fare. La non temporalità della diretta, la mancanza di uno sforzo mnemonico consistente nel riaffioramento e nella sua rappresentazione, la mancanza degli strumenti tecnici per l’analisi critica della rappresentazione diretta dell’evento, portano lo spettatore a subire l’evento. “L’atteggiamento di fronte alla memoria esterna che custodisce l’evento è dunque radicalmente cambiato. Tutto è delegato: la capacità di codifica, la capacità di decodifica e, infine, la possibilità stessa di una critica” (Feyles, p. 74).
Si ha un passaggio inverso da quello che era il rapporto tra vista e tatto. Quella complicità ben espressa dall’aggettivo aptico. Il sistema prossemico e quello aptico sono dei sistemi di con-tatto; il primo concerne la percezione e l’uso dello spazio e della distanza nei confronti degli altri, il secondo fa riferimento all’insieme di azioni di contatto corporeo con l’altro. Percezione aptica e prossemica sono allora la compromissione tra vista e tatto, di quando l’occhio tasta il mondo.
Ma in quell’alba senza sotterfugi vedeva con i propri occhi il mondo, senza intermediari, senza le lenti di non-contatto. La continuità della sua carne e della carne del mondo, il toccare, dunque, era l’amore, e li era il miracolo, la donazione. Ah! Non sapeva ancora, il giorno prima, che gli occhi sono mani miracolose, non aveva mai goduto del tatto delicato della cornea, delle ciglia, le mani più potenti, quelle mani che toccano imponderabilmente i qui prossimi e lontani. Non sapeva che gli occhi sono le labbra sulle labbra di Dio. Aveva appena toccato il mondo con l’occhio, e pensò: “Sono io a vedere”. Io sarebbe dunque i miei occhi? Io sarebbe l’incontro, il punto d’incontro tra la mia anima vedente e te? Violenta dolcezza, brusca apparizione, solleva le palpebre e: il mondo le e dato nelle mani degli occhi. E ciò che le fu dato in quel primo giorno fu il dono stesso, la dazione. (Helene Cixous Jacques Derrida, Veli, Alinea, Firenze, 2004, p. 14).
Tutto il contrario di ciò che è possibile su uno schermo touch. Il touch esonera il tatto e si inchina alla potenza della vista, alla rappresentazione che qui coincide con l’esperienza. La memoria, la registrazione è sincrona all’esperienza. È una ritenzione primaria che coincide con l’evento, è priva di storia, di elaborazione, di sistematizzazione e di giudizio. Manca di presa di coscienza. È perentoria e indiscutibile. La mano manipola le cose, il dito sceglie su un menu precostituito, sceglie senza coscienza. “Nell’antichità, libertà voleva dire non essere schiavi. Nell’epoca moderna la libertà viene interiorizzata quale autonomia del soggetto. È libertà di azione. Oggi tale libertà di azione sprofonda nella libertà di scegliere e consumare” (Han, p. 17). O, meglio di scegliere soltanto cosa consumare.
L’informazione è una branca del linguaggio, ma l’informazione digitale è nemica della narrazione. Le informazioni sono additive, non narrative (Han, p. 9). L’informazione digitale non fa riferimento a un continuum, ma si presenta in forma discreta: a pacchetti. La loro attualità è discutibile; il loro fluire in diretta, li fa apparire e defluire senza la capacità di lasciare traccia, di attualizzarsi, di organizzarsi in una sequenza. La time line è un insieme di spezzoni scollegati. Più che frammenti di vita, una vita frammentata. “L’entropia informativa con la sua rapidissima crescita, vale a dire il caos informativo, ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso” (Han, p. 11). L’informazione misura le ricorrenze e le corrispondenze senza rapporto con le referenze, senza nessun rapporto con la realtà. Lavora sui segni, sui significanti, al di là dei significati. Non c’è strutturalmente differenza tra verità e fake e siccome è difficile usare la verità in termini sensazionalistici, non sempre la realtà si presta, allora meglio le fake news. La verità si distingue per il fatto che non è aleatoria. È tanto più vera, tanto è più solida. L’informazione è invece liquida. Non che non sia digitalmente possibile veicolare la verità, ma una verità liquida non è qualcosa alla quale possiamo aggrapparci. “Tutto ciò che stabilizza la vita umana è impegnativo” (ivi, p. 13). Deve essere una struttura solida, con una certa permanenza. Che ci si possa indugiare. Indugiare presso di sé è abitare. Indugiare presso le cose è contemplativo. Espande il senso delle cose. Permette alle cose di avere un’aura. È una forma di “realtà aumentata” che emana dalle cose e non dall’informazione che assegniamo alle cose. Che proviene dal nostro apparato sensorio che così inscrive le cose al nostro ambiente mondo (ricordate von Uexkull). Che presuppone un mondo. Il mondo digitale crea cose senza ricordi. Le relazioni tra le cose sono statistiche, non sono esperienziali.
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- Citato in: Yuk Hui, p. 35 ↑
- Le ritenzioni primarie sono percezioni sensoriali, le ritenzioni secondarie sono ricordi, le ritenzioni terziarie sono media o cultura (cioè mnemonici culturali o ciò che a volte viene chiamato memoria culturale); Stiegler adottato da Husserl
Indicazioni bibliografiche
Bernard Stiegler, La technique et le temp, vol. 2 : La désorentation, Galilée, Paris 1996
Martino Feyles, Ipomnesi. La memoria e l’archivio, Rubbettino, Catanzaro 2013
Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022
Yuk Hui, Pensare la contingenza. La rinascita della filosofia dopo la cibernetica, Castelvecchi. Roma 2022 ↑
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(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale” uscito a puntate proprio su questo spazio e poi raccolto nel libro “Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale” per “ombre corte”. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.
Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sesta, Qui la 7.1, Qui la 7.2, Qui la 8.1 Qui la 8.2, Qui la 9, Qui la 10.1, Qui la 10.2, Qui la 10.3, Qui la 11 Qui la 12
Gilberto Pierazzuoli
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