La toponomastica come riflesso della cultura patriarcale: il caso della Manifattura Tabacchi di Firenze

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QUANDO IL CAPITALISMO SI APPROPRIA DELLE LOTTE PER I DIRITTI CIVILI E SOCIALI  

Alla Manifattura Tabacchi vie e piazze al femminile”, recita un recente articolo di una nota testata locale.

L’idea andrebbe, giustamente, nella direzione di un riconoscimento di dignità storico-culturale a grandi figure femminili del passato considerando che in Italia – dati alla mano – sono soltanto circa il 7% vie e piazze intitolate a donne, statistica che scende ancor di più se prendiamo in esame soltanto le figure laiche.

Il dato è perciò effettivamente disarmante ed è una delle tante facce della fondamenta patriarcali sulle quali la nostra società moderna ha costruito la propria cultura.

In Europa le cose non vanno molto meglio: secondo “Mapping Diversity” le strade intitolate a donne nelle principali città europee sono soltanto il 9%. Anche questo dato scende vertiginosamente prendendo in esame solamente i toponimi riguardanti le donne laiche.

Molte di queste persone inoltre sono figure contemporanee, il che rimarca come il tema della parità di genere stia influenzando, lentamente, tutti gli aspetti della nostra società.

Purtroppo – sottolineiamo – secoli e secoli di cultura profondamente patriarcale non possono essere eradicati con qualche decennio di lotta.

La strada, metaforicamente, è ancora molto lunga.

PINK-RAINBOW-GREEN-SOCIAL WASHING: LE RIVENDICAZIONI SOCIALI COME MARKETING

Tornando a Firenze (al 2023 con circa il 5% di vie e piazze intitolate a figure femminili) e all’incipit di questo articolo, vorremmo fare un excursus ancor più ampio sul tema del pinkwashing.

Tralasciando la questione dell’importanza e della visibilità che possono avere delle strade simili all’interno di una struttura (la Manifattura Tabacchi) con molti spazi privati, ricettivi, commerciali e legati ad una visione gentrificata e comunque non di totale accessibilità; vorremmo fare una riflessione di come il sistema del consumo, conscio delle potenzialità di una sempre più rapida, immediata e superficiale comunicazione, si sia inserito a pieno nelle dinamiche di rivendicazione dei legittimi diritti delle persone, portando il livello della lotta dalla piazza al salotto, dal megafono allo smartphone, approfittando di un illusorio e generalizzato benessere per abbassare ancor di più la soglia delle briciole, spacciate per pagnotte.

Per capire di cosa stiamo parlando, il termine pinkwashing indica l’appropriazione dei temi e dei valori del transfemminismo in un’ottica di consumo e marketing commerciale, nella visione di un interesse che non si riflette nel tema in sé ma nel guadagno.

L’obiettivo di queste aziende quindi non è quello di perseguire il valore, ma farlo soltanto in virtù del raggiungimento di determinate fasce di persone che possono essere “clienti” dell’oggetto del marketing stesso.

Non è un caso che in molte casistiche di questo tipo, a fronte di un pubblico interesse verso un tema, le aziende perpetrino sfruttamento verso l3 lavorator3, stipendi bassi, insufficienti tutele di fronte a diritti sul lavoro, orari indecenti, sfruttamento del territorio etc. sciacquandosi la bocca e riempendosi il portafoglio con le nostre lotte, che certamente non sono le loro.

Ovviamente questo concetto è ampiamente applicabile ad altre istanze sociali come quelle delle persone queer, razzializzate, dell’ambiente, degli animali, dei diritti delle persone disabili ecc.

UN RAPIDO SGUARDO SU ESEMPI DI WASHING

Possiamo fare svariati esempi più o meno gravi e più o meno calzanti: dall’organizzazione di eventi per persone queer in studentati di lusso, spacciati per inclusivi e accessibili, ma ovviamente rivolti ad una certa fetta di comunità benestante, borghese, con un tetto sopra la testa, a marchi di fast fashion che portano avanti campagne per i diritti civili, responsabili però di una sovrapproduzione e uno sfruttamento in parti del mondo distanti da noi (e quindi invisibili alla massa di consumator3).

Ci sono poi grandi multinazionali che lucrano sullo sfruttamento nei paesi poveri che finanziano i Pride, che diventano quindi passerelle di loghi commerciali e non piazze di lotta e resistenza.

Potremmo andare avanti con esempi per pagine intere, Eni con Plenitude – effettivamente è come sparare sulla Croce Rossa – i colossi del food delivery, pionieri di un lavoro precario e sottopagato ma sempre pronti a colorarsi per “celebrare la diversità” in occasione di ricorrenze come 8 marzo o Pride, grandi multinazionali responsabili di campagne per pace e diritti, che invece finanziano guerre.

Sono ovviamente esempi, ambiti e gradi di gravità profondamente differenti, ma tutti figli di una stessa logica.

E LA MANIFATTURA?

Lo spazio della Manifattura Tabacchi, purtroppo, si colloca all’interno di un contesto del tutto sovrapponibile: spacciato per ambiente di riqualificazione, è in realtà l’ennesimo caso di luogo gentrificato a Firenze, meno evidente perché non nel centro cittadino, ma lontano dal restituire ambienti sociali alla città se non in maniera esclusiva e classista.

L’intitolazione di vie a importanti figure femminili del passato all’interno di uno spazio dove il prezzo medio di un appartamento è 8000 euro al mq, si inserisce perciò nella logica di cui sopra e nel traslare delle lotte sociali in merchandising.

Pertanto, per quanto possa essere un gesto di per sé giusto e condivisibile, è altrettanto simbolo del washing dilagante di chi costruisce profitto tramite la appropriazione di rivendicazioni politiche e sociali che dovrebbero stare fuori dal contesto del marketing, poiché riguardanti tutte le soggettività e non soltanto quelle che possono rappresentare una “clientela”.

UN CAMBIO DI OTTICA “STORICO”, LE COMUNITA’ SOCIALI COME COMUNITA’ COMMERCIALI

Dopo aver disegnato per decenni le donne e le persone razzializzate come oggetto, aver ignorato l’esistenza e l’autodeterminazione delle persone queer, dopo aver minimizzato completamente il tema ambientale e aver enfatizzato tossicamente i ruoli di genere, il capitalismo è passato ad una nuova frontiera: in questa era social perciò, dove tutto è accessibile a tutt3, dove chi ha anche il minimo potere di acquisto lo può esercitare in un battito di ciglia, ha capito che la fidelizzazione di fasce di clientela sensibili a determinati temi, almeno superficialmente, è la nuova strada per aumentare il profitto in maniera rapida e trasversale nei paesi dove il potere di acquisto è alto.

Approfittando della presenza di comunità sociali quindi, è possibile trasformarle in comunità commerciali, aprendo nuove frontiere della comunicazione commerciale “friendly”.

Poco importa se ciò è fatto a discapito di altre minoranze, in paesi poco industrializzati che quindi non garantiscono il profitto se non nello sfruttamento.

E sempre stato così e sempre sarà così: il profitto di poch3 a discapito di molt3. Le briciole all3 altr3, dicendo che sono pagnotte.

Iniziamo dalla consapevolezza di questo.

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Marco Filippini

Nato e cresciuto a Firenze, dopo aver terminato gli studi classici si interessa di politica e attivismo. Ormai da anni si occupa di diritti civili e sociali, in particolare di tematiche queer e transfemministe, dal 2021 è presidente e fondatore di Love My Way. Nel tempo libero si dedica alla musica, al canto, al teatro e al calcio, in una poliedricità di interessi e tematiche che si riflette anche nella sua azione di attivismo politico e sociale.

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