Le conseguenze della rivoluzione industriale hanno approfondito il solco fra città e campagna. Ciò è accaduto in Italia così come in tutti quegli Stati in cui tale epocale cambio di produzione manifatturiera si è realizzato pienamente a partire dal tardo settecento. Due i pesanti ‘aratri’, procedenti quasi in parallelo, che hanno tracciato tale solco: la conquista delle aree dedicate ai sempre più grandi complessi produttivi e quella delle aree dedicate allo stoccaggio ed alla commercializzazione dei prodotti industriali, pure di dimensioni sempre crescenti. Entrambe le tipologie di aree, con la rete infrastrutturale necessaria alle loro connessioni, hanno sottratto territori spesso di pregio alle produzioni agricole, che del resto per intensità di capitale e di manodopera impiegati e per dinamica di redditività non potevano rivaleggiare con l’industria ed i commerci connessi.
I ‘capitani d’industria’ d’ogni calibro hanno da sempre inteso il paesaggio rurale come luogo da cui estrarre le materie prime e l’energia utili ai nuovi processi produttivi avviati, ma anche come luogo in cui individuare le superfici di più facile accesso su cui impiantare le loro sempre più ingombranti attività. Che non è sbagliato definire ‘paesaggivore’ per il modo quasi sempre violento – ma del tutto auto-assolutorio, grazie ai soliti pretesti economici ed occupazionali ‘modernisti’ – con cui hanno inteso connotare ampie porzioni del Pianeta in un modo ‘nuovo’, visivamente e ambientalmente dirompente rispetto agli assetti pre-industriali.
E’ risaputo peraltro che le complesse e ricche relazioni della comunità insediata, preesistenti sia all’interno della stessa che verso l’intorno ambientale, hanno invece avuto un ruolo del tutto secondario nel definirsi di questa nuova manifattura, che le ha viste al più come ulteriore risorsa da snaturare (anche tramite il ri-posizionamento fisico degli attori) o meglio ‘modernizzare’. Ciò è avvenuto tramite la corrosione dei vincoli sociali originari e la loro graduale sostituzione con stili di vita individualisti e competitivi e perciò del tutto funzionali agli interessi del nuovo produttivismo.
Per lunghi periodi del ‘900, in Italia, a fasi di espansione incontrollata di tale produttivismo, col suo pesante portato fisico e sociale, sono seguite fasi di faticosi e non omogenei tentativi di arginamento della sua ‘fame di territorio’ grazie a complessi strumenti ordinatori pubblici quali la pianificazione urbanistica e paesaggistica. Tali fasi sono risultate strettamente legate agli esiti della dialettica, talvolta molto conflittuale, fra le classi più coinvolte e contrapposte nel processo produttivo industriale: ceto imprenditoriale, classe operaia.
Ma occorre dire con chiarezza che tale dialettica industriale ha riguardato, per la gran parte della seconda metà del ‘900, il miglioramento delle condizioni lavorative ed i diritti dei lavoratori. Mentre non è quasi esistita riguardo al ‘baratto lavoro/ambiente’, generalmente accettato dalle parti in gioco per tradizione, miopia, supponenza e/o per mancanza di attenzione e sensibilità verso le limitate ‘capacità di carico’ dell’ambiente naturale con prassi e sostanze dannose per esso. Quindi la migliore urbanistica e la scienza del paesaggio, interpreti di valori sociali progressivi intellettualmente e tecnicamente mediati, hanno cercato come potevano di imbrigliare e indirizzare, anche ‘nobilitandolo’, il consumo di suolo per usi industriali, resistendo con molto alterne fortune alla richieste di operare in assoluta libertà che venivano dai potentati privati con forti rappresentanze politiche.
In tale deriva storica , e dato l’affermarsi odierno di un capitalismo finanziarizzato e globalizzato che in quanto tale è poco strettamente radicato nei territori ed ha pure labili rapporti di dipendenza dalla forza lavoro in essi insediata, pare ormai che la sana gestione del paesaggio e delle sue risorse sia un problema scomodo o desueto, o solo ‘tecnico’. Quindi di appannaggio esclusivo degli organismi tecnici pubblici che però – e qui sta il problema – sono ‘a trazione istituzionale’ e di conseguenza parecchio impermeabili alle istanze della comunità insediata, peraltro spesso espresse con notevole ritardo ed in modo impreciso.
Di conseguenza la pianificazione urbanistica e quella paesaggistica, in quanto strumenti di gestione verticistica e non partecipata del nostro ambiente di vita, non sono all’altezza della situazione attuale, nonostante l’ormai grande affinamento delle loro capacità di analisi delle dinamiche sia fisico-ambientali che umane. Ciò probabilmente perché esse sono sostenute da istanze politiche che hanno smarrito una coerente e plausibile visione del futuro locale. E/o perché questo futuro sembra approssimarsi da tante direzioni e con velocità tali da richiedere strumenti analitico-previsionali nuovi ed efficaci, ritenuti fuori dalla portata di moltissime Amministrazioni Pubbliche (Ipotesi oziosa la prima, che rimanda ad un maggiore attivismo e stimolo da parte delle comunità locali verso i loro rappresentanti? Alibi di comodo la seconda, invocabile da parte di una P.A. ormai depotenziata e demotivata? Chissà…)
La situazione attuale richiede comunque massima attenzione ed impegno da parte di tutte le componenti attive e progressiste della società. Il pesante lascito dell’era della prima industrializzazione – quella che come già accennato si localizzava prevalentemente in dipendenza da specificità geo-morfologiche, da economie di scala, da regimi di aiuto economico-finanziario – consiste in centinaia di migliaia di ettari di territorio ricoperti da strutture edilizie fuori e sotto terra e da pavimentazioni di vario tipo. Quante di queste aree sono ancora in uso, e non sotto-utilizzate o abbandonate? Quante di queste aree stanno in quel limbo di durata indefinita che le considera non più come vere opportunità produttive ma solo come aree appetibili per altro utilizzo, in specie speculativo-immobiliare? Quante rappresentano, col loro passato uso industriale senza più alcun futuro, solo un immobilizzo finanziario – anche di garanzia per altre attività – destinato a durare per chissà quanto?
Si dice sul sito WEB di Italia Domani, in base a dati ISTAT alquanto vecchi ma significativi, che “La superficie totale delle aree industriali in Italia, nel 2011, era di circa 9.000 km2: quasi quanto l’Umbria”. Potremmo partire da questo dato, ovviamente attualizzandolo ed analizzandolo opportunamente per individuare al suo interno le diverse tipologie di aree e di utilizzi, per avere un quadro quali-quantitativo attendibile dello ‘spreco di suolo’ attuale (concetto questo che a mio modesto avviso va oltre quello già noto di ‘consumo di suolo’, poiché esprime una ulteriore decisa critica verso la persistente negazione di possibili ed auspicabili evoluzioni positive dell’uso del suolo fin qui legato a visioni desuete, se non addirittura dannose, delle attività umane).
Per farsi una propria idea sull’argomento, che non sia preconfezionata dallo scrivente, potrà essere utile la WEBliografia che segue questo scritto, che contiene diversi strumenti di conoscenza e analisi.
Giova comunque notare che la suddetta fonte istituzionale già indica per le aree industriali attuali solo un possibile utilizzo, ovviamente complementare a quello principale: quello energetico… Quindi nessun riferimento conoscitivo e nessuna ipotesi di valorizzazione riguardanti lo stock edilizio-immobiliare industriale inutilizzato o sottoutilizzato. Ciò del resto in perfetta coerenza con gli stentati e poco fantasiosi input governativi, ma ancor più in continuità con la mancanza di sensibilità ambientale ampia che dura da tanti governi a questa parte, oltre che in ossequio all’atavica mancanza di attenzione a quanto si fa di meglio sull’argomento, da decenni, in altre nazioni.
Evidentemente si vuole ignorare o sottacere l’ampiezza e la gravità dei problemi legati a territori sfigurati da decenni di attività troppo spesso vetero o pseudo-industriali (per non parlare di quelle che definirei ‘conati – o aborti – d’industria’…). Un sistema statuale organizzato e serio, specie se impegnato davvero nell’amministrare un “Bel Paese”, avrebbe già da tempo dato luogo ad un’anagrafe accurata e costantemente aggiornata riguardante lo spreco di suolo industriale/commerciale, utile a convertire tale spreco in risorsa attuale e futura.
I famosi ‘incroci’ dei dati istituzionali di fonte varia, funzionali alla costruzione di tale anagrafe, sono da tempo possibili. La pubblicazione delle interpretazioni di tali incroci sotto forma di carte tematiche informatizzate di facile consultazione, è altresì ormai quasi banale, considerando p. es. quanti Sistemi Informativi Geografici comunali sono presenti attualmente nel WEB, e qui offrono servizi importanti alla cittadinanza.
Quindi cosa si teme, in sede governativa ed istituzionale? La conoscenza precisa, approfondita e condivisa della realtà territoriale e delle sue dinamiche passate, presenti e di quelle ipotizzabili in futuro? L’innescarsi di una ‘intelligenza diffusa’ e abbastanza libera da condizionamenti, che faccia luce sulle manovre oscure del settore finanziario ed immobiliare che si appresta a cannibalizzare quello industriale in perdurante crisi? Il formarsi tempestivo di linee di difesa efficaci nei confronti di veri attacchi alla società – ed anche alle istituzioni ! – come quello che sta investendo da tre anni la GKN a Campi Bisenzio?
Le domande sono del tutto retoriche.
Ma la conclamata scarsezza di risorse in cui versa almeno l’Europa (e ancor più l’Italia) dovrebbe spingere ad un uso e ri-uso attentissimi di quanto abbiamo sul nostro territorio, individuando in ogni parte dello stesso le migliori opportunità di vita, lavoro e svago, ma anche di ‘non attività umana’ (in funzione del mantenimento e della connessione dei residui habitat ecologici di pregio) o addirittura di ‘rinaturalizzazione’, restituendo cioè alla natura porzioni della stessa sottratte in passato.
Torna ancora la GKN, come esempio. Si può considerare il caso di questa enorme fabbrica come simbolo di un ormai inevitabile cambio di mentalità imprenditoriale ed istituzionale, che prefigura nuovi scenari sociali, produttivi, ambientali. In tal senso si sta muovendo il Collettivo di Fabbrica, con le sue valide proposte di riassetto produttivo della struttura grazie al nuovo Piano Industriale. Ma si pensi se in aggiunta a quanto proposto, gli enti pubblici del territorio, per una volta concretamente e tempestivamente collaboranti con tante vite e famiglie messe in crisi, avessero ulteriormente arricchito le proposte con alcune delle più moderne istanze culturali e operative, dando esempio di lungimiranza e vera cura della società. Potrebbero esser nate nuove ipotesi di lavoro, fra cui:
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far divenire una parte della grande area della fabbrica un laboratorio per lo studio dei migliori sistemi di bonifica per i siti inquinati d’Italia e d’Europa, in collaborazione con i più accreditati centri di ricerca del settore. Qui sperimentando le tecniche più ambientalmente ed economicamente sostenibili per sottrarre all’abbandono forzato, e talvolta interessato, le sempre crescenti parti del Pianeta che sono state interessate da attività industriali (di produzione, estrazione e trasformazione) variamente inquinanti;
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far divenire una parte della GKN un sito per lo smaltimento, ricondizionamento, riciclo di batterie tradizionali e di nuova generazione, destinate a veicoli ma non solo. Da recenti indagini risulta che l’Italia è quasi del tutto sprovvista di imprese che lavorano in questo settore molto specifico e delicato nonché strategico, data la tendenza assunta – non senza difficoltà e tentennamenti – dai principali produttori automobilistici mondiali riguardo al futuro dell’autotrazione. La struttura da inserire nella GKN potrebbe ulteriormente qualificarsi nello studiare processi produttivi a basso o nullo impatto ambientale e paesaggistico, ed ovviamente nel pieno rispetto della dignità e della salute di lavoratori e popolazione circostante. Ciò darebbe un valore sociale aggiuntivo al progetto di reindustrializzazione della GKN, che quindi verrebbe ad ospitare anche un’attività che si oppone allo ‘spensierato’ (ma cinico!) modo di comportarsi del cosiddetto ‘occidente industrializzato’ verso le restanti parti del Pianeta, delegando a queste il ruolo di pattumiera ovvero di ‘digestore’ degli scarti delle proprie produzioni e/o degli oggetti a fine vita.
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applicare all’insieme delle attività che vanno a formarsi e/o insediarsi nell’area GKN ri-considerata come hub produttivo, i protocolli operativi e metodologici delle aree APEA (Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate) che la Regione Toscana implementò quasi dalla loro istituzione fino al 2017, per poi rapidamente ed immotivatamente abbandonarli. Tali protocolli intendevano creare zone produttive in cui – in estrema sintesi – da un lato la Pubblica Amministrazione (d’accordo con i privati) favoriva condizioni di insediamento rispettose dell’ambiente, e dall’altro le imprese insediabili dovevano curare con attenzione le proprie performances ambientali. Riprendere la tematica APEA, validissima tuttora, significherebbe riprendere una prassi consolidata (magari migliorata e snellita) che ha già diversi buoni casi applicativi in Toscana ed in altre regioni. Inoltre le imprese ammesse in questo ipotetico ‘hub sostenibile GKN’ potrebbero avvalersi da subito della qualità sociale ed ambientale che ciò attesterebbe.
Non vogliamo essere così naif da scordare che le oltraggiose scelte della proprietà e l’imbarazzante silenzio delle istituzioni locali sul futuro dell’ex fabbrica non dipendono certo dalla mancanza di capacità progettuali della ‘parte non operaia’, ma da un suo preciso e grave disegno di dismissione aziendale proprio sotto gli occhi acquiescenti del potere politico e di molta parte della cittadinanza della Piana Fiorentina, intenta a parlar d’altro..
Ma intanto il reale preme, con le sue nuove dinamiche impetuose ed i suoi nuovi e meno nuovi potentati finanziari. Diverse entità produttive, commerciali e di servizi (anche del settore ITC) ma stavolta ‘a-territoriali’ e spesso impersonali (fondi d’investimento) fanno sentire il loro grande peso, comunque politico, verso territori e comunità che con i loro organi di governo continuano a non saperne/volerne gestirne l’impatto. Ciò a causa delle solite reboanti promesse (pseudo-occupazionali, pseudo-attrattive di altri investimenti, pseudo-modernizzatorie tout-court) sventolate da tali entità e dai loro interessati fan, esattamente come visto durante l’affermarsi della prima ondata industrializzatrice. Per esempio, l’affacciarsi relativamente recente e l’enorme rinforzarsi attuale del “capitalismo delle piattaforme (WEB)” rende oscura a molti la ragione insediativa dei grandi e medi centri produttivi e logistici correlati, mentre sconvolge gli assetti territoriali tradizionali poiché tende ad escludere o a de-potenziare, fra l’altro, i luoghi fisici di intermediazione commerciale di minore scala (grossisti, dettaglianti).
Insomma, i guasti territoriali di questa nuova ondata di attività si sommeranno in modo pesante a quelli della precedente ancora non affrontati e sanati? Sapremo trovare una via d’uscita positiva e duratura da questa situazione?
Webliografia
- https://www.consumosuolo.it/stato
- https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/suolo-e-territorio/suolo/il-consumo-di-suolo
- https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/suolo-e-territorio/suolo/il-consumo-di-suolo/i-dati-sul-consumo-di-suolo
- https://sinacloud.isprambiente.it/portal/apps/storymaps/stories/49db95690dea440b9ad42e1429c58922
- https://groupware.sinanet.isprambiente.it/uso-copertura-e-consumo-di-suolo/library
- https://www.snpambiente.it/wpcontent/uploads/2022/07/Rapporto_consumo_di_suolo_2022.pdf
- https://www.certifico.com/ambiente/documenti-ambiente/257-documenti-riservati-ambiente/18126-il-consumo-di-suolo-note
- https://www.isprambiente.gov.it/it/progetti/cartella-progetti-in-corso/biodiversita-1/reti-ecologiche-e-pianificazione-territoriale/reti-ecologiche-a-scala-locale-apat-2003/come-gestire-una-rete-ecologica/recuperi-di-cave-aree-degradate-ex-discarice-e-aree-industriali-dismesse
- https://www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/stato-ambiente/ambiente-urbano/7_Attivit_industriali_in_ambito_urbano.pdf
- https://www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/stato-ambiente/ambiente-urbano/2_SuoloeTerritorio.pdf
- https://www.openpolis.it/consumo-di-suolo-e-urbanizzazione/
- https://www.istat.it/it/archivio/150320
- https://www.istat.it/storage/ASI/2022/capitoli/C22.pdf
- https://www.istat.it/it/files/2023/11/REPORTCensimprese.pdf
- https://altreconomia.it/consumo-di-suolo-il-prezzo-pagato-alla-logistica/
- https://www.fuorimercato.com/pratiche/300-una-societa-grande-quanto-un-supermercato.html
- https://www.federdistribuzione.it/la-mappa-distributiva/
- https://www.gdonews.it/2024/02/05/andamento-gdo-in-italia-i-risultati-dellintero-2023-e-lanalisi-di-dicembre-secondo-le-rilevazioni-di-nielseniq/
- https://www.areeindustriali.it/it-IT/Home
- https://www.areeindustriali.it/it-IT/nuovi-insediamenti-produttivi.aspx
- https://ambiente.regione.emilia-romagna.it/it/sviluppo-sostenibile/temi-1/sviluppo-sostenibile/gestione-e-sostenibilita-aree-industriali/materiale-per-approfondire-1/rapporto%20APEA_2010.pdf
- https://www.regione.toscana.it/-/webgis-imprese-in-toscana?inheritRedirect=true&redirect=%2Fsearch%3FinheritRedirect%3Dtrue%26q%3Dcensimento%2Btoscana%26orderBy%3Dhits%26sortBy%3Ddesc%26type%3Dcom.liferay.journal.model.JournalArticle
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- https://www.regione.toscana.it/documents/10180/12479892/distretti+industirali+Istat+in+Toscana+indicatori+2001-2016.pdf/3ee31a54-e722-4b09-ae99-d938332b6928
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- https://www.confcommercio.it/-/demografia-impresa-citta-italiane
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- https://www.perunaltracitta.org/homepage/2024/04/29/la-dissociazione-ecologica-di-eugenio-giani-pileri-deluso-dalla-toscana-del-cemento-facile/
- https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/33/il-consumo-di-suolo-agricolo-italia-una-valutazione-delle-politiche
- https://www.italiadomani.gov.it/content/sogei-ng/it/it/Interventi/investimenti/produzione-in-aree-industriali-dismesse.html#:~:text=La%20superficie%20totale%20delle%20aree,%3A%20quasi%20quanto%20l’Umbria “Dettagli aggiuntivi: La superficie totale delle aree industriali in Italia, nel 2011, era di circa 9.000 km2: quasi quanto l’Umbria. La maggior parte si trova in una posizione strategica per contribuire a costruire una rete diffusa di produzione e distribuzione di idrogeno alle vicine PMI. Strumenti e apparecchiature per la produzione di idrogeno grazie a FER (Fonti di Energia Rinnovabile) verranno installate soprattutto nelle aree dismesse ma già collegate alla rete elettrica. In una prima fase, il trasporto dell’idrogeno alle industrie locali avverrà su camion o su condotte esistenti in miscela con gas metano. Nella seconda fase, verranno realizzati impianti di produzione con una capacità media da 1,5 a 10 MW ciascuno.”
- https://www.industry4business.it/industry-40-library/aree-industriali-italiane-il-ruolo-delle-comunita-energetiche/
- https://economiacircolare.com/rigenerazione-industriale-aree-industriali-dismesse-fabbriche-beni-comuni-musei-parchi/
- https://wwhttps://www.infobuild.it/approfondimenti/rigenerazione-ex-aree-industriali-dismesse-vuoto-urbano/#Strategie-per-rigenerare-le-aree-
- https://www.confcommercio.it/-/demografia-impresa-citta-italiane
- https://www.confcommercio.it/documents/20126/4428533/Demografia+d%E2%80%99impresa+nelle+citta%CC%80+italiane.pdf/f4187d13-3d21-c606-8564-8cf3b033cae1
Antonino Prizzi
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