Il pensiero di Henri Lefebvre come postura da adottare nelle insidie urbane

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Se il capitalismo è stato concepito dalla maggior parte delle interpretazioni della filosofia di Karl Marx come modalità di produzione, il contributo di Henri Lefebvre (1901-1991) rappresenta un aiuto prezioso per rapportarsi al capitalismo come civiltà. Lefebvre è stato però sottovalutato: non nel senso che il suo pensiero sia stato valutato meno di quel che in realtà vale; piuttosto, nel senso secondo cui la sua produzione è stata frammentata e segmentata a tal punto da determinare una sottostima della sua sistematicità. Come se Lefebvre fosse solamente quel sociologo urbano che ha avuto il merito di teorizzare il concetto di “diritto alla città”.

Comprendere la reale profondità delle declinazioni degli studi lefebvriani è impresa ardua in assenza di un fil rouge che leghi argomenti di filosofia (la sua formazione) a tesi di sociologia, geografia, architettura e urbanistica (la sua ricerca). Se è vero che Lefebvre è uno dei più originali esponenti del pensiero marxista in virtù del ruolo di primo piano conferito alla dimensione spaziale dei fenomeni sociali, è altrettanto vero che parlarne sprovvisti di una visione d’insieme capace di riflettere buona parte dei suoi interessi – il mondo rurale, il rapporto problematico di Marx con la sovranità statale, la teoria critica della vita quotidiana, l’opposizione al marxismo strutturale, la Comune di Parigi del 1871 (e le sue analogie con il Movimento del Sessantotto) – implica un impoverimento sostanziale dell’orizzonte che si delinea oltre le riflessioni sullo spazio urbano. Considerando che il 2024 è l’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’importante testo La production de l’espace (1974), e che tendenzialmente oggigiorno si è sempre più inclini a semplificare i concetti, anziché faticare per mantener traccia della loro complessità, l’occasione mi sembra calzante per sottolineare che un pensiero così strutturato come quello di Henri Lefebvre sia assolutamente indicato per scegliere una postura da assumere di fronte alle sfide che riguardano gli spazi urbani.

È un fatto piuttosto assodato quello secondo cui il suo nome si sia diffuso in Italia grazie alle traduzioni in lingua di alcune opere di David Harvey: si pensi a Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio e Il capitalismo contro il diritto alla città. Il debito al saggio La production de l’espace e all’ancor più celebre Droit à la ville (1968) è evidente. Il problema, se così si può definire, è che l’interpretazione di Harvey della nozione lefebvriana di “diritto alla città” ne trasla la categorizzazione; per il sociologo e geografo inglese, infatti, il diritto alla città è un significante vuoto, una forma generale a cui chiunque possa attribuire un contenuto a seconda dei propri fini socio-politici. Lo sforzo di David Harvey è stato (in parte) quello di rintracciare le strumentalizzazioni del diritto alla città dal punto di vista di chi ha detenuto il potere, promulgato costituzioni o redatto carte dei diritti. L’obiettivo? Sollecitare una nuova significazione partecipativa del diritto alla città capace di tener conto del legame contemporaneo instauratosi tra economia finanziaria e svendita dello spazio urbano.

Diversamente da quel che sostiene Harvey, per Henri Lefebvre il diritto alla città è un significante pieno. Ed è lui stesso a dircelo: «Non si tratta di un diritto nel senso giuridico del termine. Questi diritti, come il diritto alla città, non sono mai letteralmente realizzati, ma vi si fa continuamente riferimento per definire la situazione di una società. Il diritto alla città infatti si annuncia come appello, come esigenza». In altre parole, il diritto alla città lefebvriano disvela una questione prettamente filosofica, in quanto strumento da consegnare all’agire politico per sovvertire il tempo e lo spazio del capitalismo fordista. Strumento da consegnare all’agire politico di chi? Lefebvre è chiaro: il diritto alla città è un concetto pensato per i gruppi sociali più deboli, per chi vive nelle periferie, relegato ad una vita misera ben distante dal centro urbano, il cuore della cosiddetta “società dello spettacolo” – facendo riferimento a La Société du Spectacle (1967) del filosofo e sociologo situazionista Guy Debord.

Nel bel mezzo dell’esplosione del fordismo, Lefebvre mette in luce un metodo sociologico-filosofico: osservare e analizzare le città dal punto di vista dei suoi margini, di chi è escluso dalla società dello spettacolo e di chi ne subisce l’oppressione. Riprendendo alcune riflessioni di Debord, è opportuno evidenziare l’ambivalenza degli effetti prodotti sulle città dalla società dei consumi che egli tratteggia nel suo saggio: se da un lato i centri urbani riescono a creare situazioni attraenti grazie al culto feticistico delle merci, producendo luoghi dove la società dello spettacolo ha la pressoché totale libertà di riprodursi e sviluppare lo stile di vita a cui ambire, dall’altro le periferie divengono lo spazio della marginalità urbana, dove la miseria è l’unico prodotto tangibile.

È opportuno riavvolgere il nastro degli studi lefebvriani per apprezzarne la complessa intelaiatura; l’interesse di Lefebvre per lo spazio urbano, difatti, trova origine nelle ricerche svolte a proposito del mondo rurale presso il Musée National des Arts et Traditions Populaires che, tra il 1943 e il 1954, commissionò al filosofo francese alcune indagini sociali di carattere empirico riguardo alle campagne dei Pirenei. (Il suddetto museo nacque grazie all’impulso del Front Populaire, la coalizione di partiti politici di sinistra al governo tra il 1936 e il ’38, per contrastare la dilagante demistificazione fascista delle arti e culture popolari in chiave nazionalista). Nonostante un’interruzione della ricerca dovuta alla militanza tra le fila della Resistenza partigiana, Lefebvre riprenderà e concluderà gli studi rurali, dai quali emergerà uno dei suoi atteggiamenti intellettuali più distintitivi: il rinnovamento delle categorie filosofiche marxiane rispetto alle problematiche poste in essere dalla società contemporanea.

Per mezzo di un metodo assimilabile a quelli propri della sociologia storica, Lefebvre ricostruì l’evoluzione delle campagne dei Pirenei francesi evidenziando come la cornice di quel sistema rurale continuasse a poggiare le proprie fondamenta sui dispositivi che Marx aveva rintracciato nella teoria della rendita fondiaria del capitale. L’innesto della tecnologia capitalista, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale, determinò così un processo di trasformazione dei terreni agricoli in vere e proprie fabbriche di grano. Ma non solo: Lefebvre notò come il mondo urbano tendesse ad espandersi sempre di più, e come la sua obesità provocasse l’anoressia della campagna; a tal proposito, in un’intervista dichiarò di essere stato impressionato dall’edificazione  ex novo della città di Lacq-Mourenx in corrispondenza di ricchi depositi naturali di gas, nei Pirenei atlantici. In questo caso l’erosione urbana del rurale non comportò la creazione di un nuovo centro cittadino, ma implicò la determinazione di una strana intersezione fra campagna e periferia ciò che Lefebvre indicava con l’espressione “tessuto urbano”. In Espace et politique. Le droit à la ville II (1972) il filosofo francese scrive: «Questa espansione della città si accompagna ad una degradazione dell’architettura e del quadro urbanistico. La gente è costretta alla dispersione, soprattutto i lavoratori, allontanati dai centri urbani. Ciò che ha dominato il processo di espansione delle città è la segregazione economica, sociale, culturale. L’urbanizzazione della società si accompagna ad un deterioramento della vita urbana. È pensando a questi abitanti delle periferie, alla loro segregazione, al loro isolamento, che parlo in un libro di diritto alla città».

Il diritto alla città lefebvriano tenta di porsi in continuità con l’eredità marxiana attraverso il rinnovamento dell’attore principale delle teorie di Marx e Friedrich Engels: il proletariato industriale ottocentesco. L’intenzione di attualizzare questo soggetto spinse Lefebvre ad ampliarne l’analisi, portandolo ad osservare che nel mondo urbano della seconda metà del Novecento, oltre ad essere ancora contraddistinto da una precarietà delle condizioni lavorative, il proletariato era caratterizzato dalla precarietà della propria quotidianità, sempre più relegata verso la periferia della città.

A dimostrazione delle contraddizioni dello sviluppo capitalista dal punto di vista spaziale, Lefebvre si soffermò sulle condizioni abitative nella società urbana del ventesimo secolo, giungendo alla distinzione del concetto di habitat dalla nozione di stampo heideggeriano legata all’abitare; se l’abitare sottende un modello relazionale che conferisce valore all’essere in comune degli uomini, d’altro canto, l’habitat si riferisce al prodotto di un ambiente standardizzato frutto del modello funzionalista ideato da Le Corbusier, il quale, secondo le critiche di Lefebvre, progettando le cosiddette «macchine per abitare», riproduceva gli effetti della dottrina taylorista dell’efficientamento della produzione industriale su altri aspetti della vita dell’uomo. È vero che Le Corbusier pensava all’estensione del diritto basilare alla casa, sognando di poter fornire un’abitazione a tutti, ma quel che ottenne furono i gran ensembles, grandi palazzi (o “conigliere”, come Lefebvre chiamò gli edifici che sorsero a Lacq-Mourenx) che nei fatti predisponevano la classe operaia francese a vivere in città-dormitori prive di servizi. All’abitare standardizzato secondo canoni e modelli funzionali di matrice fordista-taylorista, Henri Lefebvre contrapponeva l’idea di “abitare poeticamente”. Riprendendo i termini del discorso del fenomenologo francese Gaston Bachelard (1884-1962), Lefebvre scriveva di un abitare in grado di garantire lo spazio delle pratiche relazionali, il che significava abitare un luogo costruito a partire dalla mediazione politica dei propri bisogni e desideri individuali con quelli della collettività.

Quando il filosofo e sociologo francese si riferiva alla produzione dello spazio, dunque, non tematizzava solo la critica della produzione dello spazio capitalista in quanto dinamica nociva per gli uomini, ma si proponeva di contribuire alla progettazione di uno spazio urbano a misura d’uomo. Lefebvre comprese che una società fordista con mire socialiste non poteva accettare il radicamento dell’urbanizzazione capitalista e che, di conseguenza, fosse assolutamente necessario opporre una teoria spaziale socialista all’egemonia dello spazio capitalistico; a questo proposito, egli ritenne fondamentale la traslazione dei concetti marxiani di valore d’uso e valore di scambio – la cui dicotomia è oggetto di studio in Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie (1867) – da un ambito prettamente economico ad un contesto spaziale. Lefebvre sosteneva che l’economia politica non fosse più esclusivamente vincolata alla produzione e alla circolazione delle merci, ma riteneva che avesse investito anche lo spazio urbano, visto come nuovo terreno di conquista per il capitale e frontiera proficuamente  inedita per la valorizzazione capitalista. Secondo questa innovativa teoria economica dello spazio, lo spazio urbano aveva perso il proprio valore d’uso (un luogo da abitare poeticamente) in favore del valore di scambio (un habitat anti-umano da cui trarre profitto); politicamente parlando, quindi, il filosofo francese ambiva ad una riappropriazione degli spazi nel senso di una rivoluzione urbana che sovvertisse i rapporti tra valore d’uso e valore di scambio registrati nelle città nella seconda metà del ventesimo secolo. In altri termini: alla rivoluzione urbana del capitale che aveva reso tutto quanto lo spazio urbano valore di scambio, Lefebvre contrappose una rivoluzione urbana del proletariato, ovvero un intervento da parte del popolo marginalizzato nel solco dell’assioma secondo cui la produzione dello spazio spetta esclusivamente a chi lo abita.

In conclusione, è doveroso sottolineare che negli scritti lefebvriani si parla di “intervento”. Mai di partecipazione. Esattamente come in un articolo del 1978 pubblicato su La nouvelle revue socialiste: «Non mi piace la parola “partecipazione”. Preferisco parlare di “intervento”, vale a dire dell’irruzione diretta e autonoma – violenta se necessario – di persone al di fuori della scena tradizionale della cosiddetta democrazia, per regolare i propri affari». Se proprio si volesse parlare di partecipazione à-la Lefebvre, lo si dovrebbe fare seguendo le tesi a proposito dei movimenti operai nascenti elaborate da Lenin (1870-1924): trasformare un moto spontaneo in una forza cosciente e organizzata. La partecipazione illude (soprattutto nelle città neoliberiste del presente) a causa della sua latente tendenza riformista, principale responsabile della repressione della spontaneità che è la prima modalità di intervento delle masse che si mobilitano. Sarebbe opportuno specificare il riferimento al Marx critico del riformismo, o quantomeno puntualizzare la “spontaneità” (e la sopraccitata “violenza”) nella cornice delle vicende della Comune di Parigi ma, per non gravare sull’attenzione di chi sta leggendo, preferisco concludere con una citazione tratta da La production de l’espace per fugare qualsiasi appropriazione indebita delle teorie lefebvriane: «Se non sono gli interessati, le parti in causa, gli utenti a parlare, chi può farlo in vece loro? Nessun esperto, nessuno specialista, nessuna competenza può o ha il diritto di farlo. In quale veste? Con quali concetti? Con quale linguaggio? In che modo il suo intervento può differenziarsi da quello degli architetti, dei “promotori” o dei politici? Ammettere un simile ruolo, una tale funzione, significherebbe accettare il feticismo della comunicazione, dello scambio sostituito all’uso!».

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Lorenzo Robin Frosini

Lorenzo Robin Frosini nasce a Pistoia e vive a Prato. Laureato in Logica, Filosofia e Storia della Scienza presso l'Università degli Studi di Firenze, aspira ad essere un musicista e un giornalista.

3 commenti su “Il pensiero di Henri Lefebvre come postura da adottare nelle insidie urbane”

  1. Paolo Degli Antoni

    Mi piace immaginare la frase “la produzione dello spazio spetta esclusivamente a chi lo abita” in chiave biocentrica; spazi (peri)urbani inutilizzati per decenni vengono riconquistati da ecosistemi, spesso di pregio. La cittadinanza attiva può dar voce alla biodivesità, sentendosene parte

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