Firenze, nella sola area Unesco, ci sono oltre 400 locali tra bar, ristoranti, gelaterie e pub. In quei 5 chilometri quadrati di città ogni giorno si muovono e lavorano 20mila addetti del settore. Praticamente una grande fabbrica a cielo aperto, dove al posto dei reparti ci sono tante piccole attività, apparentemente scollegate tra loro, tanto che difficilmente si riesce a sviluppare una coscienza di classe. È così che la ricerca di condizioni migliori di lavoro si limita a cambiare ristorante e l’unica integrazione al reddito è la solidarietà.
“È lo sviluppo naturale del capitalismo nel contesto della città storica – ci spiega Cosimo Barbagli, autore della ricerca ‘Un’Industria senza fabbrica? Indagine sul lavoro nella ristorazione nel centro storico di Firenze’. I monumenti non si possono spostare, di conseguenza i turisti si trovano qui e i clienti sono tendenzialmente infiniti. È in questo contesto che questo tipo di capitalismo trova un suo sistema di auto- riproduzione”.
Cosimo Barbagli, sei cresciuto a San Frediano e immaginiamo abbia visto il tuo quartiere cambiare. È nata da questo l’idea di una ricerca sul mangificio?
Per me, che sono nato e cresciuto in piazza Tasso, uno degli aspetti più impattanti è stata proprio la concentrazione di ristoranti e locali per bere. Spesso si parla delle conseguenze della città turistica sui residenti, ma questi sono sempre meno, sempre più anziani e sempre più ricchi. Allora ho iniziato a chiedermi come vivono il quartiere le lavoratrici di questi ristoranti, perché se vogliamo tentare una redistribuzione della ricchezza del turismo, dobbiamo ascoltare loro.
Per la tua ricerca hai intervistato 295 lavoratori e lavoratrici in 237 locali dell’area Unesco di Firenze. Quali sono i principali aspetti che sono emersi?
Alcuni erano già molto conosciuti, come quello delle condizioni di sfruttamento e di lavoro nero che ci sono in questi locali. Altri invece sono meno noti, a partire proprio dalla differenza di prospettiva tra lavoratrici del centro e residenti. Noi lamentiamo la frammentazione del tessuto sociale, mentre chi ci lavora ha la prospettiva di un luogo di socialità, di relazione. Ed è proprio la concentrazione in un’area così piccola che permette la nascita di legami di solidarietà tra loro.
Quindi è una cosa positiva?
Non proprio. Perché queste relazioni di solidarietà, in mancanza di una rivendicazione collettiva, portano ad accettare condizioni di lavoro pessime. In pratica, la solidarietà di- venta un’integrazione al reddito. Senza che peraltro loro se ne rendano conto.
Puoi farci un esempio?
Prendiamo il caso del pasto a fine turno. Se te lo dà il tuo capo, è facile capire che è un’integrazione al reddito e quindi pretendere che sia invece monetizzato. Ma se la cena o la bevuta te la offre il padrone del pub accanto, o magari te la dà a prezzo scontato, perché si è instaurato un legame con i lavoratori di quel locale, allora è più difficile passare dalla solidarietà alla rivendicazione. Però intanto il tuo padrone offre la cena a quelli del bar accanto. E così via.
Ventimila lavoratori invisibili nel centro di Firenze, come è possibile?
Le realtà invisibilizzate dalla patina luccicante di città vetrina sono tante: il lavoro sfruttato, il lavoro migrante, il volume di soldi che gira. Sono quasi tutte piccole imprese, ma se sommate muovono milioni di euro. un’industria di grandi dimensioni. Del resto, in inglese si chiama catering industry, perché il rapporto di lavoro è quello: un padrone che fornisce mezzi di produzione e degli operai che li mettono in moto. Lo stesso vale per l’alienazione, chi lavora con i turisti serve ogni giorno persone che non rivedrà mai più, con le quali non stabilisce nessuna relazione. Un turista è solo uno scontrino da battere o un piatto da portare.
È come se fossero a catena?
Sì, la città è come una fabbrica e come una fabbrica ha bisogno di operai e di poterli riprodurre.
Sembra un sistema ben architettato. Ma non è neanche questo. È l’evoluzione naturale del capitalismo nella città storica. Ci si aspetterebbe che tanti ristoranti vicini si facessero concorrenza, e ovviamente è così, però nel momento in cui i clienti sono infiniti, questo diventa secondario. D’altro canto, questa concentrazione crea una dinamica di comunità tra le lavoratrici, che però è quel- la che permette di ridurre il costo del lavoro e quindi il perpetuarsi di questo sistema di sfruttamento. Il mangificio è un sistema che si regge su se stesso.
Impossibile da combattere?
Io credo che a un certo punto non reggerà più. Succederà nel momento in cui i lavoratori pretenderanno di essere pagati equamente, di avere un contratto full time, di poter andare in ferie o assentarsi quando sono malati. Per mettere in critica questo sistema, dobbiamo partire dalla concentrazione dei locali in un’a- rea così ridotta, perché questo è il pilastro su cui si regge.
Articolo originale su Fuori Binario

Valentina Baronti

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