Animale di periferia, in centro storico. Intervista a Gilberto Pierazzuoli

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L’inchiesta sul centro storico di Firenze che stiamo conducendo come gruppo di ricerca indipendente affiliato alla Città invisibile, ci ha portato a intervistare Gilberto Pierazzuoli.

Le nostre domande partono da lontano per affondare infine nelle criticità urbane odierne: estrattivismo turistico, selezione sociale, colonizzazione culturale, mercificazione dello spazio pubblico. Le risposte portano alla nostra attenzione il periodo delle lotte politiche che innervavano le esistenze, e del risveglio culturale della Firenze anni ’70 con vita di piazza e concerti, immaginazione e contestazione. Un posto particolare è riservato all’esperienza di un antesignano wine bar.

L’intervista, effettuata per iscritto – Gilberto era afono, a causa di una lunga malattia –, risale al febbraio 2022.

Ilaria Agostini: Abiti in centro a Firenze: ci sei nato?

Gilberto Pierazzuoli: Abito in centro storico da soli 4 anni. Siamo in affitto, in balìa – di questi tempi – della bontà d’animo di chi ci concede un appartamento in affitto a prezzi umani. In realtà sono un animale della periferia, un boomer che dalla provincia si trasferisce nel capoluogo andando a popolare un quartiere in espansione, affittando un appartamento in uno dei palazzoni costruiti alla fine degli anni ‘50, su una strada senza illuminazione e non ancora asfaltata, circondata ancora da campi incolti. Vengo da una famiglia povera che in quegli anni accedeva a un minimo di benessere che il boom economico – e le sue dinamiche di classe – riusciva ancora a distribuire. Già a quei tempi il centro era una chimera, non che non ci fosse una presenza popolare, anzi, alcuni quartieri come Santa Croce e l’Oltrarno erano prevalentemente popolari, ma ai nuovi arrivati toccava la periferia, quella a nord ovest della città, quella che aveva aree adatte all’espansione della città, a rispondere al boom demografico e alla tendenza all’inurbamento che caratterizzavano quei tempi. C’era un fatto però positivo, quella periferia tendeva ad avere una prospettiva di crescita dei servizi e non all’abbandono e al degrado e la mancanza ancora di un inserimento nel tessuto urbano portava anche a dei vantaggi, I ragazzi potevano giocare fuori casa nei campi incolti, costruire fortini rubando il materiale edilizio ai cantieri che pezzo pezzo mangiavano il territorio, permettendo anche alle donne di andare al lavoro. Mia madre infatti andava a servizio mentre io e i miei fratelli andavamo a scuola da soli e subito dopo aver mangiato potevamo uscire per andare a giocare con tutti i ragazzi che il boom anche demografico aveva partorito. Ci si guardava un con l’altro con i più grandicelli che accudivano quelli più piccoli: si giocava alle bambole con giocattoli in carne e ossa. Ma già a sei anni eravamo totalmente indipendenti.

IA: A voi ragazzi di periferia capitava di andare in centro? 

GB: In centro ci andavo raramente, la nostra era una periferia che riproduceva la vita di un piccolo paese. I negozi di vicinato coprivano la quasi totalità dei bisogni, facevano credito alle famiglie segnando i consumi in un librettino che poi venivano pagati a fine mese quando arrivava la busta paga. Il bar con la televisione e il jukebox era il nostro centro. C’era la chiesa e due case del popolo. Iniziai a frequentare il centro della città quando mi iscrissi all’università. Allora tutte le facoltà erano in centro. Le scuole superiori invece le feci anch’esse nel quartiere. C’era un istituto tecnico, un professionale e, poco distante, il liceo scientifico. I licei classici invece erano tutti in centro, ma non erano roba per noi, almeno non ancora. Allora andare in centro era l’obiettivo di qualche escursione esplorativa, una visita a un altro paese con altri abitanti: il nostro centro non prevedeva i quartieri popolari. Si andava in centro dopo il sessantotto con i cortei che si formavano a scuola e che convogliavano dalle periferie in una piazza del centro, quasi sempre San Marco.

IA: La tua generazione ha vissuto una città molto diversa da quella attuale: quella piazza San Marco che citi, oggi sterilizzata ma allora vissuta intensamente dagli studenti; la Firenze notturna della musica d’avanguardia, quella postmoderna descritta da Tondelli. Ce ne puoi parlare?

GB:  Sì. Con gli studi universitari e con la politica la mia vita si trasferì in centro, In periferia ci dormivo e basta. Una vita passata tra la facoltà e la piazza, con il muretto della loggia dell’accademia in San Marco prima e Santa Croce dopo. C’era la mensa in Santa Apollonia, oppure si mangiava e si viveva nelle case degli studenti fuori sede. Non era facile trovare un appartamento per studenti ma alla lunga lo si trovava. La gente non affittava volentieri agli studenti ma non ci speculava, se trovavi casa l’affitto era quello per le famiglie. In quelle case le riunioni politiche continuavano, la politica era un tempo non separabile dalla vita. Ci si trovava tutti i giorni a casa di qualcuno o in sede e le sedi dei gruppi extraparlamentari erano tutte in centro. La nostra era in San Zanobi. Oltre alla politica c’era la musica o, forse, per noi, erano quasi la stessa cosa. La musica della nostra generazione, la musica del movimento. Ma non pensate che fosse soltanto quella di Ivan Della Mea, anzi a me e ai compagni del mio giro quella roba non piaceva, era roba nazional popolare, per chi invece di fare della propria vita un modo per fare politica, faceva politica smettendo di vivere la propria vita. Certo cantavamo Contessa e La locomotiva di Guccini, era un modo di stare insieme, c’era infatti sempre qualcuno che suonava la chitarra. Per noi era più politico e più rivoluzionario Jimi Hendrix o i gruppi della West Coast, i Jefferson per primi. Poi c’erano i concerti e i templi locali del Rock come lo Space Electronic in via Palazzuolo dove debuttarono artisti Fiorentini come Flavio Cucchi.

“Alla fine del 1969 ospitò Dario Fo con Mistero Buffo, Julian Beck e Judith Malina (Living Theatre) con due spettacoli: Paradise Now e Antigone di Sofocle e poi musicisti come Van Der Graaf Generator [con David jackson che suonava due sassofoni contemporaneamente, NdA], Rory Gallagher, Canned Heat, Atomic Rooster, Area di Demetrio Stratos, Léo Ferré, Premiata Forneria Marconi, Formula 3, Equipe 84, The Rokes, Sopworth Camel” (da: Wikipedia).

Il Living Theatre sarebbe tornato a Firenze anche qualche anno dopo per uno spettacolo memorabile al Rondò di Bacco, teatro dove debuttarono Federico Tiezzi e Carlo Lombardi con la loro compagnia che allora si chiamava Carrozzone (poi Magazzini Criminali) con il loro Presagio del vampiro. Sempre al Rondò ricordo uno spettacolo di Memè Perlini, con: Cavalcata sul lago di Costanza di Peter Handke, del 1979. I tre anni prima, sotto la direzione di Neumann e Pier’Alli ci furono:

“il Living Theatre con Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, Peter Shumann e i Bread and Puppet con Our domestic resurrection spectacle e con i quali Neumann aveva organizzato a Firenze anche la mostra Masaccio presso l’Istituto d’Arte, Robert Wilson con lo spettacolo Dialogue network, Tadeusz Kantor con la prima italiana de La classe morta. Fra gli spettacoli allestiti dagli italiani alla rassegna di teatro sperimentale al Rondò, si ricordano, ad esempio, Morte della Geometria di Pier’Alli (su testo poetico di Giuliano Scabia), Sacco di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, Presagio del vampiro de Il Carrozzone, Avita murì di Leo de Berardinis e Perla Peragallo, La terra del rimorso di Angelo Savelli e Proust di Giuliano Vasilicò” (vedi qui).

Ma la musica era ovunque. Carlo Puglielli suonava la chitarra la sera sul ponte Vecchio riunendo capannelli di giovani di tutto il mondo. Era un posto, al centro del ponte, lontano dalle abitazioni e nella parte senza botteghe, sotto il Corridoio Vasariano in caso di pioggia. Oppure sotto la Loggia dei Lanzi dove spesso gruppetti di giovani cantavamo pezzi accompagnati dalla chitarra di Giuliano Bolognesi. I concerti, tutti i concerti, erano attraversati nel bene e nel male dalla politica. Sul finire degli anni settanta ogni concerto era un luogo di scontro tra il movimento e la polizia: gli spettatori cercavano di sfondare il cordone a guardia degli ingressi perché la musica era considerata una cosa di tutti, un’espressione del movimento e doveva essere messa gratuitamente a disposizione. La strategia di contenimento era quella di trattenere per un po’di tempo i contestatori per fare entrare un numero sufficiente di paganti e per poi lasciare la strada libera agli altri, se la capienza lo permetteva. Ma questa è una storia italiana, non soltanto fiorentina. Di fiorentino c’è però un evento dalle dimensioni incredibili Il concerto di Patty Smith allo stadio del 1979 di 80.000 persone.

“Se da una parte si trattava di una prima volta per l’Italia, lo stesso valeva anche per Smith e compagni che non avevano mai suonato di fronte ad un pubblico così ampio. Non tutto filò liscio: quando la band attacca Star Spangled Banner, innalzando la bandiera americana (un omaggio a Jimi Hendrix), qualcuno non la prese bene e tentò di arrampicarsi sul palco per rimuovere il vessillo a stelle strisce […]. Il concerto si chiuse invece con My Generation e il pubblico che, in materia determinata ma pacifica, si impossessò della scena”, racconta David Agazzi su “Rolling Stone”.

IA: Con Barbara Zattoni avete fondato, e poi gestito per anni, un ristorante “particolare” rispetto al contesto del centro di Firenze. Ci puoi dire come è nato, e perché in centro? Quali erano le vostre ambizioni e come sono state accolte?

Immagine elaborata da AI Text To Image su indicazioni testuali di G. Pierazzuoli

GP: Alla fine del 1979 successe l’enoteca Pane e Vino forse il primo – involontario – wine bar di Italia. E anche qui il rapporto con la città nasce in periferia. A Gavinana, sulla sinistra dell’Arno. Non fu un processo volontario, appunto, successe. Un’amica con i pochi soldi di un’eredità comprò una vecchia osteria di quelle dove si andava a giocare a carte e a bere principalmente del vino sfuso. Era prima della deregolamentazione del comparto. La ricetta era atipica come erano ormai atipiche quelle tipologie di locali. Permetteva di preparare in loco crostini e uova sode ma non di preparare piatti espressi. La denominazione commerciale era “buffet freddo”. Giocando sulle interpretazioni del regolamento commerciale, si potevano somministrare salumi, formaggi, qualche torta salata e insalate a piacere. Mescolando i generi e scaldando anche i formaggi, venne fuori una proposta sui generis, una alternativa alla pizzeria e un approccio meno impegnativo alla ristorazione di quello di ristoranti e trattorie. Visto che stavamo provando a fare qualcosa che ci piacesse fare, puntammo sui vini di qualità proprio nel momento in cui il mercato si stava spostando in questa direzione. Complice la scolarizzazione di massa che aveva permesso ai figli di contadini in possesso di piccole porzioni di vigne di studiare enologia, dalle regioni in cui predominavano i coltivatori diretti, si stavano affacciando sul mercato prodotti competitivi qualitativamente con i grandi nomi dell’enologia mondiale. A questi demmo spazio. La cosa funzionò e mi incastrò nei suoi meccanismi, così smisi di cercare le supplenze scolastiche che sembravano essere l’unico sbocco per un laureato in Lettere e Filosofia dopo che le possibilità di fare carriera universitaria si erano spente. Così ci racconta a posteriori un giornalista enogastronomico, probabilmente quello che meglio conosce la situazione fiorentina, che abitava nello stesso quartiere:

“Pane e vino, in via Poggio Bracciolini. Fossimo stati a Parigi, ci sarebbe stato scritto un libro: in una Firenze che viveva una stagione d’oro, ecco il locale nel quale si trovavano gli altri ristoratori una volta chiuso il loro locale, a bere per la prima volta vini “strani”, provenienti da altre regioni, accompagnati da specialità letteralmente inventate di sana pianta da Barbara Zattoni, ai fornelli, lei che era una modella a Milano. I fratelli Gilberto ed Ubaldo Pierazzuoli hanno formato centinaia id persone al bere attraverso lo stimolo della curiosità” (link alla fonte, NdR).

E così è salutata la chiusura dell’esperienza:

“In alto i calici, si è chiusa una storia, bella, entusiasmante, a volte sofferta, ma sempre viva: Pane e Vino ha chiuso i battenti, […] quello che ha rappresentato nella Firenze gastronomica è un momento unico ed inimitabile. […] Erano gli anni Ottanta quando, tornando a casa la sera, [capita di fermarsi] a mezzanotte nell’enoteca aperta dagli amici, incontrando persone di varia estrazione, con le quali ti fermi a dialogare e fare notte fonda, con le sigarette che ti cominciano a raschiare la gola, ma essendo già il momento dei distillati, era un percorso sopportabile e doveroso. Ricordo l’emozione nell’assaggiare il rosolio e il cordiale di Gualtiero Marchesi, una vera novità per l’epoca, ma soprattutto le grappe di Romano Levi, le originali. Ricordo di aver incontrato Mario Pojerallora all’inizio della sua carriera di produttore, e aver dialogato con lui su questi vini a me sconosciuti. Ricordo quando Fabio Picchi entra a cena con tutto il suo clan per festeggiare un compleanno. Insomma, sì, mi ricordo, […] che all’epoca si sedevano a tavola artisti del calibro di Vittorio Gassman, che faceva spettacolo anche a mezzanotte, ed insieme a  lui tutti gli abitanti che avevano voglia di vivere una Firenze notturna non becera, ma culturalmente interessante e potente, dove arrivare alle tre discutendo di filosofia, arte e storia non era una chimera […]. Il primo trasferimento sarà nel 1990, in via San Niccolò, quello definitivo nel 2004 in piazza del Cestello. La novità di Pane e Vino […consisteva nell’essere] il primo vero wine bar fiorentino, dove si aveva il coraggio di far conoscere vini che non fossero i soliti toscani, con la “nouvelle vague” dei produttori contenti di venire a farsi conoscere in zona. E poi, la cultura come elemento determinante dell’offerta, il conoscere e far conoscere senza saccenza, il luogo del confronto e del dialogo stimolante e divertente” (link alla fonte, NdR).

Con la fine del ciclo di lotte degli anni ’70 anche a Firenze erano i tempi dei locali, noi non lo sapevamo, ma rimanemmo coinvolti. Ma, anche questa volta la partenza avvenne in periferia, una periferia con qualche traccia del tessuto sociale che, a tutt’oggi, univa chi ci abitava. Ma la storia della nostra esperienza professionale è divisa in tre spezzoni: ognuno relativo alle sedi attraverso le quali si è dipanata la storia del locale. Per un contenzioso con il patrimonio non abitativo del Comune di Firenze, proprietario del fondo dove si trovava la prima sede, fummo infatti costretti a spostarci. La nuova sede e la successiva saranno locate, sempre sulla riva sinistra dell’Arno, ma in centro. Il primo spostamento ci portò in San Niccolò, sempre per il regolamento comunale che ci permise di spostarci, ma rimanendo sulla riva sinistra. I lavori per la ristrutturazione della nuova sede sforarono macroscopicamente le previsioni di spesa, avviandoci così in una spirale di debiti visto che il costo del denaro arrivò a toccare il 19%. Il locale diventa un ristorante, in seguito all’estensione dei permessi di servizio di somministrazione di cibi e bevande a ogni tipologia del comparto, con restrizioni derivanti soltanto dai caratteri infrastrutturali dei locali (cucina di tot metri quadri, bagni, canne fumarie ecc.). Ne uscimmo perché alla clientela locale si era affiancata anche quella turistica che compensava il calo estivo della domanda da parte dei fiorentini che, appena usciva un po’ di sole, preferivano le mete fuori porta.

IA: Il centro storico stava cambiando…

GB: Sì, Firenze stava arrendendosi al turismo. Proprio di resa si trattava. Stava diventando vincente il “posto” non troppo dispendioso di cucina tipica. Ciò significava un abbassamento dell’offerta, che puntava, non a quelle eccezioni che tipicizzano la personalità locale delle proposte gastronomiche, ma a quelle poche ricorrenze che risuonano nell’immaginario collettivo, quelle per le quali il piatto italiano più conosciuto al mondo sono gli spaghetti alla bolognese che non vengono cucinati in nessuna parte di Italia. Questo spostamento e la deregolamentazione del comparto hanno riempito il centro della città di sfamifici con poca professionalità, riducendo la varietà dell’offerta, acutizzata poi dall’arrivo delle piattaforme di valutazione e prenotazione on line, che hanno portato a un ebete moltiplicazione delle file nei riguardi del luoghi di ristorazione con il punteggio più alto che, a ben vedere, corrisponde a un’offerta che si concentra sul rapporto qualità prezzo con la variabile prezzo che la fa da padrone. In testa alle classifiche non i buoni ristoranti, ma gli spacciatori di schiacciate farcite. Ma la concorrenza è concorrenza.

IA: Riesci ad immaginare vie d’uscita dalla “fabbrica del turismo” e dal mangificio? Credi, ad esempio, che una proposta possa essere formulata nell’ambito dell’alimentazione consapevole, responsabile ecc.?

GB: La bistecca alla fiorentina è uno dei “marker” più conosciuti dell’offerta gastronomica fiorentina. È il David del comparto. Ma la riproducibilità tecnica di questo marker, porta alla diffusione delle bisteccherie per le quali la ricerca etimologica è un esercizio ermeneutico spassoso. La tipicità non è più collegata a pratiche del passato né a una sua capacità di affrontare il futuro. La tipicità è una forma fenomenicamente statica di eterno presente. Per merito dichiarato di Trip Advisor ha chiuso per esempio “Caffelatte” poco competitivo con le sue torte fatte in casa nei confronti dei cornetti di cartone della gran parte dell’offerta del resto della città. D’altronde perché sforzarsi di fare un’offerta qualitativamente migliore se il cliente che hai di fronte non tornerà più? Ma proprio per questo gli si lascia la parola, mi direte? Ma dove se le è fatta una competenza in materia? Semplicemente nel suo essere un turista del XXI secolo, abituato agli standard dell’offerta, a quei cornetti di cui si parlava sopra. Il difetto di queste piattaforme è anche un altro, spesso le recensioni sono false, sono a pagamento; in rete ci sono infatti siti che offrono questo servizio.

IA: Nel contesto “tecnologico” contemporaneo – dalla sharing economy alla logistica, dalla smart city all’overtourism – la messa in comune delle piattaforme potrebbe essere una soluzione?

GB: Sì, eccoci alle piattaforme. Airbnb e Booking per gli affitti e le prenotazioni alberghiere, l’accoppiata Trip Advisor e The Fork per quelle dei ristoranti. Sono operazioni che invece di far semplicemente incontrare la domanda e l’offerta, si insinuano tra le due, lucrandoci e non poco. Potrebbe essere invece un’offerta di un servizio che offre la città tramite una delle sue appendici burocratiche, per esempio la camera del commercio: nessuno ci lucra e ci guadagnano gestori e clienti. Per Uber la stessa cosa, qualcosa che apra alla condivisione delle spese senza intermediazione La sharing economia non dovrebbe essere un’economia di un attore esterno, dovrebbe avere come attori la gente comune, i consumatori. L’autista di Uber non fa il taxista – quelli ci sono già – è il tuo vicino di casa o un altro che fa in tutto e in parte il tuo percorso e che condivide i posti auto. Così come la vocazione di Airbnb si dovrebbe concentrare su affitti temporanei di chi mette a disposizione una stanza e, occasionalmente, il suo appartamento, senza nessun ricavo per l’intermediazione. Ma l’effetto negativo di Airbnb non è soltanto il fatto di lucrare su questa, è anche il fatto di essere uno strumento della speculazione abitativa. La possibilità per dei grandi gruppi di avere buoni profitti acquistando appartamenti da mettere in affitto sulla piattaforma, facendo concorrenza sleale all’industria alberghiera con le conseguenze di aver creato penuria di un bene fondamentale per la vita come quello del diritto ad abitare. Di aver contribuito poi alla gentrificazione dei centri cittadini spingendo gli abitanti in periferie sempre più lontane, moltiplicando il numero dei pendolari e, con loro, dell’inquinamento.

IA: Spesso abbiamo parlato tra noi di mancata pianificazione della città storica e del commercio…

GB: La deregolamentazione del commercio [a partire dall’abrogazione del Piano del commercio, D. Lgs 114/1998, detto “decreto Bersani”, NdR] unita all’appetibilità dei fondi commerciali per lo sfamificio, hanno definitivamente affossato l’artigianato che invece poteva avere anche un appeal turistico. La sua “difesa” poteva essere messa in atto negando il cambio di destinazione d’uso. Nella stessa direzione ha agito l’affossamento del piano del commercio, uno strumento che poteva permettere una pianificazione per area, destinando una certa porzione a esercizi di vicinato, a fondi artigianali, alla somministrazione di alimenti e bevande. La parte difficile sarebbe stata quella di riuscire a intercettare la domanda, cosa della quale peraltro non viene tenuto conto nemmeno all’interno della dinamica della domanda/offerta, deformata com’è dalla massimizzazione del profitto e non attenta ai bisogni reali della popolazione. Cosa che invece sarebbe oggi possibile con gli strumenti della modellazione digitale per giungere a una formulazione abbastanza rispondente a questi bisogni.

IA: Sulla nostra testata, “La Città invisibile”, nel 2019 hai pubblicato un articolo che si intitolava La città pornografica. L’articolo è un ritratto della perversione che sta alla base del modo con cui il turismo consuma le opere d’arte: da voyeur. Esercitando un’astrazione dell’opera dal contesto, l’industria del turismo la spoglia, la denuda, la frammenta e riduce a merce. Ciò accade anche ai centri storici: città vendute a pezzo a pezzo, svuotate di funzioni civiche, e quindi della possibilità e del senso dell’abitare.

GB: Si parla sempre più spesso di patrimonio artistico e della sua valorizzazione. Basterebbe porre l’accento sul patrimonio e sulla valorizzazione in senso culturale (e non economico, anche perché l’economico potrebbe poi arrivare di rimbalzo). Il valore culturale di certe opere è legato alla loro aura, al loro essere nate in un contesto e essere egualmente contestualmente usufruite. In una città parco-giochi mancante dei suoi abitanti, l’opera d’arte vive il suo decadimento e sente la concorrenza offerta dalla riproducibilità tecnica. Lo sanno gli architetti di Las Vegas dove prolifica il fittizio che avrà sempre più valore nella misura per la quale si svaluta l’originale. La cosa non ha per adesso frenato la corsa turistica perché il comparto ha ancora bisogno di mete da consumare, e la fama antica di certe città d’arte era così consolidata che la sua decadenza ha tempi lunghi, ma non infiniti se pensiamo anche a come certe nuove mete si presentino all’offerta, non ultima quella del turismo spaziale.
Vorrei aggiungere che, l’estetica della valutazione, foraggiata dalla datificazione dell’economia digitale, crea i cosiddetti marker: i dieci imperdibili, la top ten di ogni categoria. Anche questo meccanismo rompe i legami affabulativi tra gli oggetti artistici e si concentra sull’opera avulsa da ogni altro riferimento. La “realtà aumentata” (AR) offertaci dalla tecnologia attuale che potrebbe allargare l’alone semantico delle opere, si scontra con l’altra tendenza, quella della loro “dividuazione”, cioè riduzione a marker, originata dal medesimo contesto tecnico (meccanismo già in uso nella visione marker centrica del patrimonio culturale […]). Per assurdo è così possibile immaginarci un mondo pieno di opere d’arte popolato però da abitanti ormai incapaci di riconoscerle. Si inventeranno allora miti che restituiscano loro un nuova aura atta a giustificare la loro esistenza. Il David sarà allora il modello algoritmico degli animali umani creato da delle macchine antiche da usare come prototipo, e come base di paragone, per le merci e i servizi da imporre loro. In fondo si tratta soltanto di uno spostamento dagli umani alle macchine della progenitura delle opere: cambia soltanto il soggetto delle mitopoiesi che diventeranno così “automatiche”.

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

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