Shine o Shining

Come dice Nicholas Carr, le piattaforme sono nel business della distrazione. Che è il volto, poco umano, di quella che chiamiamo pubblicità. Ma non è che la pubblicità ci distragga – una componente in questo senso comunque esiste – è che il modello economico gira intorno ai click che un banner o una finestra pop up ricevono. Il cliente paga per esempio a Google in base ai click che l’inserzione riceve. L’utente allora non si deve troppo concentrare sul contenuto delle pagina o cercare di approfondirlo, deve rimanere in superfice, esposto al bombardamento pubblicitario che gli algoritmi hanno reso meno fastidioso attraverso una profilazione dell’utente, tale che le proposte coincidano con cose che fanno realmente parte dei suoi interessi. La rete permette infatti di fare una pubblicità probabilmente più mirata di quella possibile su altri media. Comunque quello che la piattaforma auspica e cerca di realizzare è che l’utente abbandoni la sua attività in rete per clickare sulle inserzioni. Più click ci sono, più soldi vanno al gestore della piattaforma.

Ma la cosa si fa più sottile se andiamo a vedere cosa succede sulle piattaforme più diffuse. Parliamo per esempio dei social network e di quei contenitori multimediali come You Tube, Istagram, e Tik Tok, ma anche di Facebook e Twitter. Il caso più esemplare è Tik Tok. Una piattaforma di condivisione di brevi video, spesso di contenuto musicale, amata dagli adolescenti di tutto il mondo. Le sue origini partono come un sito per la sincronizzazione labiale di brani musicali, per trasformarsi in uno strumento di elaborazione creativa di piccolissime clip che per gli utenti normali sono soltanto di 15 secondi. Il successo e un target definito (gli adolescenti) senza nessuna forzatura, la fanno essere una piattaforma molto desiderata dai giganti del web. Il fatto che questa app cinese, con la scusa che potrebbe essere un cavallo di Troia per spiare il mondo occidentale, ha spinto l’amministrazione Trump a cercare di ostacolarne la diffusione negli Usa sino a favorire l’ipotesi di acquisto da parte di Microsoft. Operazione non andata a buon fine, sulla quale si è poi inserito Oracle offrendo più che un’acquisizione, una forma di partenariato consistente in quel know how sul cloud e sui relativi server dei quali la piattaforma è oggi famelica (si parla infatti di 350 milioni di interazioni al giorno).

Tik Tok è la piattaforma di riferimento della generazione z. La generazione della distrazione, votata a una tipologia di edonismo spicciolo, basato su forme di competizione che riguardano il prestigio derivato dal numero di follower che gli utenti hanno. Se il bullismo come gogna mediatica presuppone uno spazio pubblico, lo spazio virtuale dei social, ne abusa. Mette a disposizione un pubblico enorme, come enormi sono le conseguenze alle quali vanno incontro le vittime. Tik Tok è una piattaforma non soltanto narcisistica ma anche esibizionistica.

Proviamo un po’ a vedere che tipo di informazione viene veicolata al suo interno. La brevità fa sì che il messaggio debba essere succinto e fare riferimento a un background culturale sul quale le mini clip si appoggiano. Non hanno infatti, per la loro brevità, la capacità di possederne uno proprio. Questo avvicina Tik Tok ai fotoromanzi – un media questo da boomer. Per chi non li conoscesse erano come dei fumetti nei quali i disegni erano sostituiti da fotografie. La differenza non era soltanto formale, ma incideva anche sui contenuti da poter veicolare. Il fumetto permette infatti delle libertà che la fotografia non aveva. Permette impaginazioni creative con frame di dimensioni diverse. Insomma il fotoromanzo pativa di una staticità che andava oltre il carattere istantaneo dell’immagine. L’istantanea può infatti cogliere un momento topico, avere cioè un importante alone di senso, ma l’immagine nei fotoromanzi invece, doveva soltanto illustrare la successione diacronica della storia. Per questo aveva bisogno di un canovaccio di riferimento. Lo trovava in una parte della cultura popolare fatta più di pettegolezzi che di nuovi eventi. Il fotoromanzo non poteva cioè veicolare messaggi nuovi, sarebbe stato incomprensibile. Il fotoromanzo aveva bisogno di un target con una cultura specifica: la casalinga del boom economico degli anni sessanta, così come Tik Tok ha bisogno di una cultura di riferimento che è quella degli adolescenti di cui abbiamo parlato sopra.

Certo che Tik Tok è pensato come strumento creativo, ha una serie di strumenti e filtri per la modificazione delle immagini; un tool per cambiare la velocità dei video; permette maschere e altri trucchi tutti gestibili con il telefono. È una app fondamentalmente comica ed in questo consiste anche il suo appeal per gli adolescenti. Ma il comico di Tik Tok non è la messa in berlina del potere, è invece quella forma di comicità descritta da Pirandello.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. (“L’Umorismo” (1908) di L. Pirandello).

Ma la velocità della rete non permette di soffermarsi a riflettere. Su Tik Tok men che mai. Si rimane alla risata irriverente. Il riso è soltanto il prodotto di una sbavatura del trucco, di una colata di kajal sulle gote.

Ma torniamo ai caratteri precipui della piattaforma. Per capire il ragionamento potrebbe a questo punto essere di aiuto una produzione di Mattin, un’artista basco che lavora sulla produzione sonora contemporanea, in particolare del suo lavoro: “My first 30 min. on Tik Tok”. Si tratta della base sonora di mezz’ora registrata dall’artista su Tik Tok. Soltanto il sonoro senza la parte video, qualcosa che assomiglia più al rumore che alla musica. I brani scollegati da ogni contesto sono comunque appartenenti ad un ambito in qualche modo riconoscibile ma non consumabile. L’operazione è ancora più spiazzante se pensiamo che vengono proposti da Mattin in cassetta magnetica, un media analogico che mantiene cioè la sua dipendenza con la materia sonora. Puro suono, puro rumore. Mostra che le unità significanti di base hanno perso il collegamento con la struttura segnica. In Tik Tok ci sono esternazioni che non si organizzano in una grammatica. Proviamo adesso a tenere presente la proposta linguistica di Saussure dove la langue rappresenta l’aspetto sociale del linguaggio, il sistema che è comune a tutti. Un insieme di significati e significanti condivisi che permettono gli atti di parole (e che si sono formati grazie alla continua esposizione agli atti di parole). Mentre la parole rappresenta l’aspetto individuale del linguaggio, ciò che fa riferimento alla singola esecuzione. In Tik Tok si assiste allora a una forma di significazione dove c’è pura parole, senza langue. Pura superfice, pura Shine, lo sbrilluccichio di Jeff Koons senza forme, senza materia, da cui poter estrarre al limite soltanto una traccia sonora.

Ma la langue in realtà lavora all’insaputa di tutti. Fa quella ricucitura tra i frame che permettono un minimo di significanza, pur non essendo una grammatica e una sintassi formalmente astratte, puro codice. È soltanto quella subcultura figlia della società dello spettacolo, che cuce clip con clip in uno svolgimento che è il fotoromanzo rimasticato della modernità algoritmica. Certo perché con l’algoritmo bisogna averci a che fare. È quello che gioca con la possibile viralità dei contenuti, un amplificatore esponenziale della comunicazione (o della sua assenza). La piattaforma, come Instagram e Twitter, si basa sui follower, più ne hai, più persone avranno accesso ai tuoi contenuti. Permette così agli iscritti di costruirsi un seguito, di avere persone con cui interagire ed essere apprezzati. In realtà si può però anche essere totalmente passivi, perché l’algoritmo agisce per noi; ha un’agency che proviene dal tuo comportamento anche passivo. Anche quando non fai niente in realtà istruisci l’algoritmo che memorizza quanto ti soffermi su una clip particolare e quanto scorri veloce la tua feed quando te ne mostra altri tipi. Dopo un po’ di tempo vedrai allora soltanto una certa tipologia di clip. L’interazione poi, non si limita ai like, si possono fare dei video di risposta rivelando così una contaminazione, la trasmissione dell’infezione. Si può anche proseguire il video di un altro utente, improvvisare un duetto e così via. L’#hashtag può portare a un challenge che produce video così popolari da riuscire anche a “popolare” le altre piattaforme. La stessa creazione di meme ha spesso ultimamente origine dalle interazioni di Tik Tok. Qui ben si capisce che al di là del numero di followers, l’applicazione è un moltiplicatore dell’ossessiva immersione audiovisiva negli schermi dei nostri device. L’effetto bolla degli altri social, qui è ancora più sconvolgente. È ipnotico; è la ripetizione compulsiva della stessa tipologia di clip, ma non si viene racchiusi in tante piccole bolle dove trovare conferma ad ogni opinione. Dove poi l’opinione si edifica in un complotto. In Tik Tok in realtà c’è una bolla delle bolle ed è Tik Tok stesso, un mondo parallelo e non comunicante con questo mondo, quello analogico e triste delle nostre vite espropriate da tecnologie tossiche asservite agli interessi dei padroni della rete. Il discorso è sempre lo stesso: per monetizzare l’uso della piattaforma occorre raccogliere pubblicità. Il media digitale permette una profilazione dell’utente tale da permettere una pubblicità mirata. L’effetto è che la pagina di ogni utente riporterà clip selezionati sul suo gusto, mentre l’esigenza di avere più “ascolto” porterà a inserimenti di clip sempre più vicine a una forma di gusto determinata statisticamente; alla formazione di un gusto comune, espressione del senso comune; apparentemente due tendenze opposte che portano soltanto a una infinita serie di sfumature dell’eguale. 

Mattin: My first 30 min. on Tik Tok


________________________________________________________________

 Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano 2011

(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale”, libro di prossima stampa uscito a puntate proprio su questo spazio. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link. 

Qui la prima parte 

Qui la seconda

Primo intermezzo

Secondo intermezzo

Qui la terza

Qui la quarta

Gilberto Pierazzuoli