C’è un mezzo che ingombra le nostre strade di cui non si parla mai, la ruspa.
Chiamo ruspa ogni cingolato atto a demolire, scavare, rivoltare, poco m’importa come lo chiamano dal cartolaio quando te lo vendono miniaturizzato in metallo pressofuso. Solitamente è gialla, tracotante, autoreferenziale.
Si devia il traffico per far lavorare la ruspa, ma il ruspista non degna mai di uno sguardo i pedoni e gli autisti che ha assoggettato.
Il marciapiede su cui raccoglievamo tra noi si scherzava a raccogliere ortiche non c’è più, c’è passata la ruspa. La piazza che abbassava il cielo fino agli uffici e ai negozi, perché anche chi vive sotto il neon possa ricordare un po’ di azzurro, è stata mangiata dalle ruspe.
Ogni ruspa ha cingoli, braccia meccaniche e denti. Alcune, le più combattive, hanno anche un paradenti di acciaio temperatissimo che le aiuta a disfare più in fretta i nostri ricordi.
Un tempo esistevano anche ruspe pacifiche: quelle abbandonate dai lavoratori in un viale poco frequentato tra i cassonetti e i pruni e quelle minuscole, che risparmiavano agli sterratori seri problemi alla schiena.
Ora anche quelle ruspe sono passate al nemico: quelle in quiete sono vigilate da mezzi blindati e scherani in mimetica e quelle piccole manovrano alacremente in fondo a paurose voragini e ridisegnano la città del futuro a più livelli, un incubo alla Nathan Never che sotto le stazioni è già realtà.
Accuso la ruspa di essere l’artefice della città postmoderna, cioè del disorientamento.
Il disorientamento non è solo la ricaduta indesiderata dei lavori in corso e della speculazione sulle grando opere, esso è anche una precisa strategia di dominio: con i loro bracci meccanici e i loro denti metallici le ruspe si mangiano la nostra capacità di relazionarci, padroneggiare la realtà, reagire ai soprusi.
Una città in cui non ci muoviamo e in cui non ci riconosciamo non è più nostra.
Ecco perché, non potendola sbullonare da cima a fondo, vorrei staccare alla ruspa almeno una vocale e d’ora in avanti la chiamerò “la rospa”.
Si può amare una rospa?
Mi è capitato di affezionarmici, quando da ragazzo ci salivo sopra con i miei amici per le lunghe chiacchierate notturne che facevano bene alla crescita. Ora ci sparerebbero.
La rospa e i suoi simili, la gru, la talpa, assoggettano la città ai propri voleri, spezzano il legame fisico e affettivo tra i luoghi e le persone.
Intorno a loro, perché possano muoversi in tranquillità, si stendono reti e si alzano muraglie che vietano allo sguardo di fare luce sulle manovre del grande capitale.
Perché è chiaro a tutti che questi mezzi non vanno a petrolio, vanno a euro: si spediscono si circondano e si pattugliano queste macchine perché mentre devastano la città fanno girare l’economia, consumano soldi adesso e promettono cose nuove che attirano investimenti.
Il fango che le rospa spreme con i suoi cingoli facendone sprizzare bollicine maleodoranti di grasso e fogna, è oro, l’oro grigio delle nostre strade.
La rospa ha dalla sua la politica, la finanza e le imprese, ecco perché incurante dei dei notav, dei notram e di ogni altro no va dritta per la sua strada, che un tempo era la nostra.
La rospa pensa di avere dalla sua anche la storia ma su questo dobbiamo intenderci: la storia umana, che ha concretamente edificato questa città e le altre, è scava di continuo cunicoli che il capitale ignora e in cui la rospa potrebbe perdersi o impantanarsi, prima o poi.
*Massimo De Micco
Massimo De Micco
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