Dal treno appare la città invisibile, quella dietro i cancelli, dietro le facciate e dietro i ristoranti. La città dei retrobottega. La città dei retrobottega si mostra al meglio quando il convoglio rallenta prima di entrare in stazione. Allora le immagini scorrono lentamente, come quando si sogna di volare o quando ci si alza in seggiovia.
Se non si ha fretta di intasare l’uscita del treno con i nostri trolley e con la nostra ansia, restando seduti si godono gli ultimi scampoli di paesaggio ferroviario.
Appare allora quello che c’è sempre stato e non si poteva mostrare: cortiletti giallo limone separati da muri di carta e rigati di ruggine e sapone, glicini rinsecchiti che formavano pergolati all’ingresso dei circoli ricreativi e ora pendono come monconi da sezioni di partito frequentate da arrivisti solitari, retro di locali stipati di bottiglie e bidoni di birra.
Su questa immagine merita soffermarsi di più.
Le bottiglie aspettano solo che un nuovo carico di vuoti le riduca in cocci, mentre i bidoni sono lì a prendere il sole, lo restituiranno con calma nelle serate fresche di questa fine stagione. Ogni tanto sulla porta si affaccia il personale di cucina, divisa nera da cambusiere dei mari del sud con colletto alla Nehru e il tipico copricapo del maestro di sushi. Ne possiamo dedurre come è fatto ciò che sta davanti a questo retrobottega: un locale originale e intimo, come tutti, praticamente una vecchia macelleria con il soffitto a voltine e i ganci ancora infissi, catene rugginose che hanno soppiantato per ragioni igieniche quelle lucide e untuose che stiravano i quarti di bue, porte scorrevoli in pendant, cioè cosparse di ruggine, bancone di marmo bianco, pestelli e mortai dello stesso materiale e foto del nonno in divisa da Ardito del Piave, il tutto in perfetto stile Saponificatrice.
Sulla facciata che non possiamo vedere non sfigurerebbe una targa erosa dal tempo: “Ditta Cianciulli budella e vesciche”, ironicamente recuperata nel nuovo nome dell’esercizio scritto in corsivo illeggibile con tubi al neon.
Che nome avrà partorito per quel locale la fantasia del cambusiere? Tiriamo ad indovinare: Budel bar, Leonarda, Sushidio…
Cosa ci si mangia si sa già: involtini crudi di pesce o un grumo di biopasta affogata nell’olio e cosparsa di noci, pinoli o ghiande, secondo la stagione, servita in marmitte d’alluminio roventi con i manici di ottone. Quanto costa si può facilmente ricostruire dalle etichette dei vuoti: birre e vini non banali.
Ma, dirà qualcuno, come si fa ad avvalorare tutte queste illazioni da una semplice occhiata al retrobottega?
Perché esiste un format per i locali esattamente come per La ruota della fortuna o Uomini e donne, non a caso spopolano trasmissioni culinarie che si incaricano di ribadire le regole della ristorazione all’epoca del sushicapitalismo.
E affinché niente resti come era, neppure il retrobottega, la lingua viene rinnovata in funzione di questo modello di accoglienza: non si dirà più “servire”, “cuoco” o “proprietario”, ma “impiattare” “chef” e “titolare”.
Viene abolita la dialettica servo-padrone che incideva troppo sui conti del ristorante e si opta per il soft power dei lounge bar, ma sia chiaro, il capo rimane sempre il capo.
Sì, il cambusiere dei mari del sud era uno chef, eventualmente anche il titolare, che aveva appena finito di sgusciare i paguri e ora veniva a fumarsi una nazionale di nascosto ai clienti, che esigono che dove mangiano tutto sia salutare e internazionale, salvo poi bere come spugne e finire la serata in strada a cantare Yo contigo tu con migo come un esercito di minions fuori controllo.
*Massimo De Micco
Massimo De Micco
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