Fra i tanti miti coltivati in seno alla categoria dei giornalisti ce ne sono un paio che ricorrono immancabilmente, ogni volta che si parli della libertà d’informazione e del valore sociale della professione. Il primo è l’indipendenza, intesa come imparzialità, obiettività, ed è considerata la premessa necessaria perché si possa parlare di giornalismo credibile e professionale. Il secondo mito può essere espresso attraverso una frase che quasi ogni direttore o giornalista famoso ha pronunciato in pubblico almeno una volta nella vita: “consumare le suole delle scarpe”, per dire che le notizie si cercano per strada, nella vita vera, percorrendo le vie e le piazze dove s’incontra la gente comune.
Sono miti, per l’appunto, ma ci dicono qualcosa sulla professione e sulle sue molte ipocrisie. La supposta indipendenza è di solito brandita come una spada per tagliare fuori dal mondo prestigioso dei “veri professionisti” chiunque prenda parte, sostenga un punto di vista o si occupi di uno spicchio di realtà con rigore professionale e – insieme – spirito militante. Il giornalista indipendente – nel senso detto sopra – non ha tessere, non ha appartenenze, non si sente parte di alcuna visione del mondo, ripudia l’idea che esista un giornalismo militante: e tanto basta. Ma che dire di un’indipendenza che viene esercitata all’ombra di testate che sono proprietà di grandi imprese o grandi banche e che devono fette consistenti dei propri bilanci agli inserzionisti pubblicitari? Si è indipendenti lo stesso? In simili condizioni, con ipoteche così forti sul capo, il campo di intervento giornalistico è davvero libero, sgombro da condizionamenti? L’omogeneità di indirizzi – sulle grandi questioni, s’intende: i princìpi cardinali dell’economia, l’idea di sviluppo, il moderatismo politico – che si nota comparando le varie testate è dunque una coincidenza?
Quanto alle suole delle scarpe: dietro lo slogan, che cosa c’è davvero? Che strade percorrono i cronisti delle maggiori testate? Forse raccontano – mettiamo – l’economia nazionale dal punto di vista dei braccianti schiavizzati dai caporali o le migrazioni nell’ottica della libertà di spostamento e della dottrina dei diritti umani? O la finanza e le scelte – poniamo – della Banca centrale europea assumendo il punto di vista di un dipendente pubblico o di un commerciante greco? No, non è così. Il punto di vista generale è ben altro, le suole delle scarpe sono consumate – se mai lo sono – sopra superfici ben levigate.
Miti, appunto. Quel che il giornalismo ufficiale non vuole sentirsi dire è che la libertà d’informazione, e soprattutto la funzione critica tipica del giornalismo, sono state esercitate in questi anni anche, se non soprattutto, in ambiti laterali e considerati marginali, se non estranei al “vero” giornalismo. Nell’ambito cioè di esperienze militanti dove il giornalismo – cioè la documentazione di fatti, situazioni, vicende in divenire – nasce da un’intenzione di intervento sociale, un’intenzione non neutra e dichiarata come tale. Del giornalismo classico, in simili esperienze, si conservano la tensione etica e il rigore informativo – i dati e le notizie non sono manipolate né asservite a una tesi precostituita – ma è la militanza, quindi la visione del mondo, la finalità sociale, a generare nuovi ambiti informativi. Questo attivismo giornalistico, per vocazione, scoperchia contenitori pieni di piccoli e grandi segreti, indaga zone della società messe ai margini dell’informazione corrente, offre letture dell’attualità e delle scelte compiute dai poteri stabiliti alla luce di “cornici di senso” diverse da quelle prevalenti. Crea nuovi linguaggi, tende a sfuggire al lessico canonizzato dai maggiori media.
E’ così che una “riforma urbanistica” proposta come una “valorizzazione” del territorio può essere interpretata come l’ennesima concessione alla speculazione edilizia o che le “politiche per la sicurezza” e le conseguenti scelte per la vita cittadina – di solito divieti e allontanamenti preventivi degli indesiderati – possono diventare provvedimenti autoritari e classisti parte di più generali e pericolose “politiche della paura”. E così via.
Nella crisi profonda del giornalismo tradizionale, l’attivismo che si fa anche giornalismo è una breccia nel muro del conformismo e della rassegnazione politica e sociale. Tutto questo per dire che possiamo tranquillamente riflettere sul senso e sui risultati di La Città invisibile attraverso una semplice domanda: che cosa sapremmo di questa città (e non solo di questa città, a guardar bene) se La Città invisibile non ci fosse stata? Anzi, facciamoci un’altra domanda: che informazione avremmo, nel prossimo futuro, in tempi quindi difficili e cruciali per molteplici motivi, se La Città invisibile per qualche sciagurata ragione dovesse sparire? Avremmo forse un’informazione più completa, più accurata, più aperta, più pluralista? Un’informazione soddisfacente e adeguata ai tempi che viviamo?
No, non l’avremmo. Quindi lunga vita al giornalismo che non coltiva miti fasulli e anzi aggiunge qualcosa di autentico e sostanzioso a un menu informativo tanto abbandonante quanto insapore.
Lorenzo Guadagnucci
Lorenzo Guadagnucci
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Lorenzo Guadagnucci è un giornalista che seguo volentieri per la sua onestà intellettuale e ho apprezzato moltissimo questo suo intervento per la capacità di spiegare in maniera chiara e sobria la differenza tra il “giornalismo indipendente” sulle testate padronali e quello militante. Grazie a Lorenzo e ovviamente anche a La città invisibile per quanto ha fatto sino ad oggi e per quanto farà in futuro.