Rotta balcanica e guerre: una testimonianza da Trieste

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Il flusso migratorio che attraversa i Balcani subisce direttamente le dinamiche geopolitiche che cadono su di un territorio storicamente fragile e tormentato.

Attualmente il flusso – ma spiace usare questa metafora idraulica: diciamo il passaggio – si è molto ridotto. Ne abbiamo parlato nel nostro ultimo viaggio in Bosnia, nella prima decade di marzo, con un’esperta come Silvia Maraone responsabile dell’IPSIA per i Balcani, che vive a Bihac. Ci diceva allora che in tutta la Bosnia Erzegovina c’erano ben meno di tremila migranti, secondo i dati ufficiali, mentre due anni fa, erano intorno ai seimila solo nel cantone terminale di Una Sana.

Di questo viaggio, infatti, ho ancora in me il sentimento di desolazione che mi davano, ad esempio, i prati fangosi intorno a Velika Kladuša, ora deserti, cosparsi soltanto dei poveri residui – scarpe, stracci -, di una vita che comunque lì abitava, piena di dolore ma anche di un desiderio di vivere che non troviamo da noi …, questa, almeno, è sempre stata la mia forte impressione nel rapporto con i migranti…

Dall’altro lato del confine, qui a Trieste, in quella piazza Libertà, che è il nostro quotidiano spazio d’intervento, abbiamo infatti constatato una fortissima riduzione del passaggio che, in inverno, si è quasi arrestato. Ora, dalla metà di marzo, circa, si è ripreso in termini modesti e irregolari, con punte intorno alla trentina di arrivi giornalieri e più – perché i passaggi mattutini in gran parte ci sfuggono, data la nostra limitata possibilità di agire in piazza anche al mattino – ma anche con pause e piccoli arrivi.

Pare che una delle ragioni di questa dinamica incerta sia, appunto, legata a scelte del potere turco di sbarrare i confini, già ben chiusi e duramente da parte del governo ellenico, con la conseguente riapertura o intensificazione di un itinerario marittimo fra la Turchia e l’Italia meridionale.

I migranti subiscono, ovviamente, ma non si fermeranno. I compagni sulla frontiera della Val di Susa ci confermano che il passaggio è rimasto intenso, in quello che è il principale valico verso la Francia e l’Europa del Centro Nord o verso al Gran Bretagna, pagandone anche un prezzo di morte.

Continuano anche a morire, infatti, nel game: quelli che arrivano ci raccontano di compagni di viaggio morti, spesso annegati, di cui si rischia di perdere ogni traccia, in quei fiumi balcanici ricchi d’acqua, così belli da vedere, come l’Una che attraversa, con le sue pittoresche cascate, Bihac e tutto il Cantone cui, insieme al Sana, dà il nome. Ma i migranti non si rappresentano un paesaggio da contemplare: sono immersi nel game, in cui è in gioco la vita.
È difficile da tradurre in parole, il sentimento mosso dalla visione, sul cellulare di un migrante, di una foto del suo gruppo in cammino, fra cui il volto di un ragazzo che non c’è più: scomparso nel fiume sette giorni fa – così ci dicevano la settimana scorsa…

Un duro pregio del nostro impegno con i migranti sta nel fatto che mette in contatto con la verità storica della vita, in un mondo che si agita nel contesto falsificante dell’immagine elettronica.

La guerra in Ucraina – non molto lontana dall’area balcanica, peraltro – ce lo mostra con particolare violenza.
Visto che ho accennato, quasi senza volerlo, alla ricaduta tragica di questo scontro geopolitico, voglio notare la differenza – per ora! – e soprattutto il suo uso politico, nell’accoglienza dei profughi ucraini rispetto a quelli mediorientali, che abbiamo voluto toccare con mano andando al confine di Pesek: mancava solo la banda! mentre il nostro sguardo andava alle vicine boscaglie dove i turisti si disgustano quando incontrano i resti del passaggio silenzioso…

La guerra in Ucraina presenta qualche analogia, probabilmente non casuale, con la guerra o la serie di guerre in Afghanistan: anche lì tutto comincia fra USA e l’allora Unione Sovietica nel lontano 1979, mentre il prezzo sanguinoso della contesa vien fatto pagare alla popolazione locale in maniera atroce, con un’indifferenza totale della cosiddetta opinione pubblica, soprattutto euratlantica, ora così commossa.

Mia moglie ed io nell’ottobre scorso eravamo a Velika Kladuša, con alcuni compagni di altre parti d’Italia, in quegli stessi prati della cui desolazione parlavo prima, allora gremiti di migranti fra cui oltre un centinaio di famiglie afghane, sotto teli di plastica nel fango, con molti bambini, anche piccolissimi. Da poco si era spenta la vana chiacchera sul disastroso abbandono eurostatunitense dell’Afghanistan, con l’accoglienza di poche migliaia di ‘collaboratori’ delle forze occidentali, e queste persone giacevano in gravi difficoltà, a ridosso dei fili spinati della fortezza Europa difesa dalle forze poliziesche della Croazia. Fino a quando non verranno rimosse e disperse o portate al desolato campo di Lipa, fra solitarie colline.

Anche oggi, gli afghani sono il principale gruppo etnico fra i migranti che noi accogliamo.

Per concludere, ritengo necessario un accenno alla proposta della Giunta della nostra Regione per una legge sulle migrazioni, da produrre in autunno, improntata al “contrasto dell’immigrazione clandestina” – quella di cui noi di Linea d’Ombra ci occupiamo, che tratterà anche di “riammissioni in Slovenia e in Austria”, cercando di riprendere in qualche modo l’illegale politica di respingimenti, attiva nel 2020, dichiarata illegale dalla magistratura e quindi bloccata (almeno formalmente). Si tratta evidentemente un tentativo della Giunta regionale di influire sul Governo centrale per un indurimento di una politica verso le immigrazioni già responsabile di decine di migliaia di morti – pensiamo al Mediterraneo!

Un ulteriore segno dei tempi pessimi che stiamo vivendo: in tutti i sensi tempi di guerra.

20 aprile, Gian Andrea Franchi, Linea d’Ombra

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Gian Andrea Franchi

Gian Andrea Franchi, filosofo, ha fondato con la moglie Lorena Fornasir l'associazione Linea d'Ombra per accogliere e curare a Trieste i migranti della Rotta balcanica

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