“Atrofia dell’esperienza”, piccolo manifesto dalla Piazza del Mondo di Trieste, di Gian Andrea Franchi

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Il Novecento è il secolo in cui diventa impossibile fare esperienza perché sono accaduti eventi che superano la capacità di elaborare emotivamente, immaginativamente e concettualmente quello che (ci) accade. L’aveva già notato Walter Benjamin a proposito della Prima guerra mondiale, in cui grandi masse d’uomini erano state d’improvviso gettate in un massacro reciproco nel cuore d’Europa. Un evento per certi aspetti analogo si era riprodotto con l’avvento del nazismo, culminato nei genocidi di ebrei, zingari ed altri gruppi umani classificati come ‘inferiori’. Le popolazioni tedesche e dell’Europa orientale si erano abituate a convivere con stragi di massa e con i lager. Ricordo, ad esempio, lo studio di Christopher Browning Uomini comuni (Einaudi 1995) sul battaglione 101 della Riserva di polizia tedesca: uomini ‘normali’, di mezza età, né nazisti né coinvolti in organizzazioni antisemite. Sterminarono in breve tempo molte migliaia di persone. Browning termina il suo studio con queste parole: 

In ogni società moderna la complessità della vita, con la burocratizzazione e la specializzazione che ne conseguono, attenua il senso di responsabilità personale di coloro che realizzano le direttive ufficiali. All’interno di ogni collettività sociale, il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali”.

Gian Andrea Franchi, filosofo, attivista, con la moglie Lorena Fornasir e i volontari e le volontarie di Linea d’Ombra accoglie i migranti in Piazza Libertà a Trieste, conosciuta ai più Piazza del Mondo.

Richiamo l’ancora più terribile esperienza narrata da Primo Levi ne I sommersi e i salvati, sulla ’zona grigia’ fra persecutori e perseguitati nei lager, in cui i ruoli potevano rapidamente cambiare e il perseguitato, nel disperato tentativo di sopravvivere, poteva diventare il persecutore dei suoi stessi compagni. Anche questo esempio, in condizioni ancora più drammatiche, indica la difficoltà di fare esperienza. Espressione paradigmatica dell’incapacità di fare esperienza in epoca nazista fu la difesa di Adolf Eichmann durante il processo in Israele nel 1961: ‘eseguivo degli ordini’, che si può estendere a decine e decine di migliaia di grigi esecutori e anche alla passività complice di vasti strati di popolazione. Su questo comportamento Hannah Arendt coniò la definizione di ‘banalità del male’. Il banale è appunto l’inesperibile: ciò che accade nell’indifferenza. 

Un altro esempio, che segna una sorta di significativo passaggio storico di testimone1, è la dichiarazione del tenente colonnello Paul Tibbets, comandante dell’aereo che sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima il 6 Agosto del 1945, alle 8:15 del mattino:

“Non mi posi un problema morale: feci quello che mi avevano ordinato di fare. Nelle stesse condizioni lo rifarei.”

Un passaggio di consegna fra il nazismo e l’imperialismo USA.

Ma c’è un contro-esempio estremamente significativo: un terzo militare anche lui statunitense, al comando dell’aereo meteorologico che dette il via libera allo sganciamento della bomba – il maggiore Claude Eatherley.

Eatherley, invece, fece esperienza.

Cadde ben presto in una gravissima crisi, tentò il suicidio, assunse comportamenti provocatori, commettendo piccoli furti e fu ricoverato per molti anni in ospedale psichiatrico militare.

Günther Anders, filosofo ebreo di lingua tedesca, primo marito di Arendt e cugino di Benjamin – tutti e tre esuli dalla Germania nazista: Benjamin si sarebbe poi suicidato sul confine chiuso tra Francia e Spagna – volle entrare in relazione con lui, pubblicando in seguito il loro scambio epistolare. Nell’ultima vittima di Hiroshima scrive:

“No, Eatherley non è il gemello di Eichmann – come è invece Tibbets, aggiungo -, ma la sua grande e per noi consolante antitesi. Non è l’uomo che fa del meccanismo un pretesto e una giustificazione della mancanza di coscienza, ma l’uomo che scruta il meccanismo come paurosa minaccia alla coscienza”.

I medici, invece, negarono a Eatherley “il possesso della sua esperienza”, cercando “di produrre in lui una condizione mentale affatto priva di memoria e di esperienza2.

Eatherley, in un’epoca che Anders chiama “l’epoca dell’incapacità di provare angoscia”, è stato invece capace di provare angoscia. Anders recupera l’antica parola ‘Apocalisse’ per indicare la peculiarità del nostro tempo caratterizzato dall’effettiva capacità umana di distruggere la vita, mediante l’arma atomica. Apocalisse vuol dire ‘disvelamento’: disvelamento quindi dell’umana possibilità della distruzione, mentre, come Anders non si stanca di ribadire, tutto sembra andare in direzione del contrario, dell’occultamento, dell’impossibilità di fare esperienza. Oggi l’occultamento compare quotidianamente nel sistema dell’informazione, nelle dissennate parole e nei comportamenti di molti capi di Stato sulla guerra in Ucraina, mentre si rispolverano le armi atomiche.

Infine, è riapparso quel tipo di violenza che mira a sopprimere o a rendere irrilevante un intero popolo, mai scomparsa in realtà nel mondo, ma resa ancora più atroce dal fatto, colmo di tragica risonanza storica, che il suo attore è lo Stato d’Israele, sostenuto dal sistema di potere economico-politico occidentale. Il tentativo di genocidio del popolo di Gaza sembra navigare in un oceano d’indifferenza in Occidente, agitato qua e là da un ciclo di proteste, soprattutto nelle università, duramente represso, spesso in maniera sproporzionata. Il tragico retaggio della violenza razziale appare sempre di più come la cifra dell’Occidente. Uno storico di lingua francese, ebreo di origine algerina Georges Bensoussan -, intitola un suo libro importante: Genocidio. Una passione europea (2006).

Oggi, però, oltre al rischio atomico, aleggia sulla terra anche un’altra possibilità di distruzione: la distruzione dell’equilibrio ambientale, la distruzione della vita stessa. Ancora più grave perché ancor più intrinsecamente connessa con il modello di vita della Cultura dominante. La frase di Anders ‘noi non sappiamo quel che facciamo’ acquista oggi una risonanza più intensa, perché riguarda non solo una tecnologia bellica ma capillarmente il nostro modo di vita quotidiano, esportato nei ceti agiati di tutto il mondo, ma concentrato nell’Occidente.

Noi siamo avvolti in una Cultura che produce quotidianamente morte. Allora, la parola Apocalisse può riacquistare pienamente il suo senso: disvelamento, togliere il velo di nebbia della quotidianità. Dobbiamo trovare la capacità di fare esperienza. È questo il tentativo del piccolo gruppo che tutte le sere nella piazza davanti alla stazione di Trieste incontra chi arriva dalla Rotta balcanica. Facciamo esperienza nell’incontro con corpi violentati dai confini, cioè dagli Stati, che incontrano nel lungo cammino dai luoghi d’origine. Questi luoghi sono in un immenso territorio che va dall’Africa – riferendoci anche al viaggio per mare verso l’Italia – al Bangladesh, al Nepal: territorio e popolazioni per due tre secoli devastati dal colonialismo occidentale. Questi corpi vengono dal passato. Ma vengono anche dal futuro.

Questi territori, infatti, sono quelli che soffrono di più la crisi ambientale indotta dalla sfrenata occupazione capitalistica della terra e della vita, per cui alcuni studiosi e attivisti possono parlare di ‘capitalocene’. In tal senso, se vogliamo ancora rifarci alla densità dell’antica terminologia apocalittica, possiamo definire questi migranti angeli, angheloi, che vuol dire ‘annunciatori’ dell’apocalisse, cioè disvelatori di ciò che accadrà, che è già in corso: la catastrofe ambientale. Non è facile infatti definire questo tipo di migranti, diversi da quelli conosciuti da tempo, in ultimo negli anni Ottanta Novanta del secolo scorso, ormai ambientati in Italia, per quanto in maniera molto parziale. Il termine ‘migrante’ è generico, copre un arco che parte dalla seconda metà dell’Ottocento, come noi italiani ben sappiamo.

Chiamerei piuttosto questi ultimi migranti ‘profughi’ o forse meglio ancora ‘esuli’. Si: esuli, esuli dalla terra, che ci mostrano, al di là della loro consapevolezza, anche la nostra condizione di esuli, di stranieri nei nostri paesi ridotti a un immenso supermercato. Fare esperienza vuol dire trovarsi dentro una situazione che non si può né si vuole controllare, ma che si accoglie e in cui si consiste: una situazione che è una rivelazione della condizione non solo umana, ma della vita intera.

Questo è, appunto, la piazza del Mondo, nella sua modestia, quasi insignificante, di fronte alla gravità della situazione. Ma, come diceva Deleuze, “Avere fiducia nel mondo è ciò che più ci manca: abbiamo completamente smarrito il mondo, ne siamo stati spossessati. Avere fiducia nel mondo vuol anche dire suscitare eventi, per piccoli che siano, che sfuggano al controllo, oppure dare vita a nuovi spazi-tempi, anche di superficie e volumi ridotti”.

Gian Andrea Franchi, maggio 2024


1 Peraltro, un diverso e più significativo passaggio di testimone fa la Germania nazista e gli USA è quella del maggiore delle SS Wernher von Braun, capo del progetto missilistico tedesco delle V2 e, in seguito, capo del programma aerospaziale statunitense.

2 1961, ediz. Italiana: Mimesis Milano-Udine 2016 pp. 185 e 195.

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Gian Andrea Franchi

Gian Andrea Franchi, filosofo, ha fondato con la moglie Lorena Fornasir l'associazione Linea d'Ombra per accogliere e curare a Trieste i migranti della Rotta balcanica

1 commento su ““Atrofia dell’esperienza”, piccolo manifesto dalla Piazza del Mondo di Trieste, di Gian Andrea Franchi”

  1. Articolo davvero molto importante, così denso e pieno di spunti di riflessione.
    Grazie, Andrea, per questa capacità di vedere oltre. Grazie per questa capacità di esserci

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