Abusi in città, da Cioni a Minniti: ne parla Lorenzo Guadagnucci

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Vorrei ricordare che tutto, o quasi tutto, cominciò nell’estate del 2007 qui a Firenze, quando un’ordinanza dell’assessore Graziano Cioni – sindaco del momento era Leonardo Domenici – vietò “fino al 30 ottobre 2007 l’esercizio del mestiere girovago di lavavetri sia sulla carreggiata sia fuori di essa. L’inosservanza è punita ai sensi dell’articolo 650 del codice penale e con il sequestro dell’attrezzatura”. L’ordinanza fu introdotta durante le ferie, quasi con nonchalance, ma fece scalpore e diventò un caso nazionale, sorprendendo lo stesso sindaco in ferie in Grecia. Fece scalpore perché per la prima volta nella rossa toscana, la rossa giunta di Firenze – rossa, s’intende, secondo la retorica mediatica – l’amministrazione comunale prendeva un provvedimento assai simile ad alcune ordinanze tipiche delle amministrazioni leghiste, con immigrati, mendicanti, rom e altre categorie considerate marginali colpite da misure di divieto d’accesso a certi luoghi o impedite di tenere determinate condotte. Il dirigente leghista Roberto Calderoli, nel pieno della polemica, arrivò beffardamente ad annunciare la consegna a Cioni e Domenici della tessera onoraria della Lega Nord.

L’ordinanza contro i lavavetri fu un caso anche in città. Sul piano giuridico, con lo stesso procuratore capo Nannucci che obiettò non solo sulla possibilità di prevedere una sanzione penale in un ordinamento che da tempo aveva depenalizzato la mendicità – l’escamotage giuridico era la punizione dell’inosservanza dell’ordinanza stessa, non del divieto di lavare vetri ai semafori – ma anche sulla necessità di tenere conto – scrisse in un intervento pubblico – di “aspetti umani che la magistratura non può ignorare”, aggiungendo nella stessa lettera che “il magistrato deve applicare le norme secondo coscienza, senza avere riguardo se l’80% dei cittadini lo acclama o il 90% lo vitupera”. Per la giunta comunale uno smacco: il procuratore, con eleganza, faceva notare la grossolanità tecnica, politica e umana dell’ordinanza.

E’ bene ricordare qual era il contesto. Sul piano locale, l’assessore Cioni si stava già distinguendo per un avvicinamento concreto a un modo di governare la città che metteva al centro i temi del decoro e della sicurezza, così come venivano declinati già da tempo dalla destra politica e sociale, soprattutto leghista. Già Alessandro Dal Lago, in un noto libro del ’99, “Non persone”, aveva rimarcato il progressivo scivolamento della amministrazioni di centrosinistra verso il securitarismo, con la creazione di un allarme sicurezza che mirava a sfruttare politicamente lo “choc culturale”, così lo definiva Dal Lago, dovuto all’arrivo nelle città di persone straniere in misura maggiore rispetto al passato. Cioni, all’epoca dell’ordinanza sui lavavetri, si era già fatto notare per il suo attivismo nel controllo serrato degli ambulanti, nella repressione di comportamenti urbani considerati da alcuni cittadini fastidiosi – schiamazzi, assembramenti rumorosi, richieste di elemosina e così via – fino a creare un ufficio delle piccole cose, pensato per assecondare queste manifestazioni di insofferenza spicciola, e soprattutto le prime squadre di vigili urbani “anti degrado”.

L’ordinanza coronava dunque una linea ideologica e di condotta ormai matura; fu un atto che aprì la strada a molte altre ordinanze simili da parte di altre amministrazioni di centrosinistra, fin lì rimaste titubanti e poco propense a imitare i sindaci leghisti. Il fatto che una città come Firenze avesse legittimato e rivendicato una scelta del genere diede il via a una stagione nuova. Le ordinanze cominciarono a fioccare e colpivano ora gli ambulanti, ora i rom, ora gli immigrati riuniti attorno alle panchine di piazze e parchi e così via. Il sindaco Domenici, nella fase iniziale della polemica, intervenne con una rivendicazione politica dell’ordinanza, affermando la necessità di difendere il principio di legalità e sostenendo che non era di sinistra lasciare persone ai margini della società a mendicare. L’ordinanza contro i lavavetri si sarebbe poi tradotta l’anno dopo in un più organico regolamento comunale, di più esteso e più dettagliato impianto securitario, premessa giuridica e ideologica a tutti i provvedimenti che sarebbero venuti, anche con i sindaci seguenti, e che hanno portato alla situazione attuale, una città che ha fatto propria l’idea che il fastidio del cittadino perbene per tutto ciò che non corrisponde all’idea di decoro messa a punto col tempo – tutto ciò, in buona sostanza, che non corrisponde all’idealtipo del cittadino benestante e del turista consumatore – sia da tenere sotto controllo e mettere fuori legge, o almeno tenere lontano dallo sguardo e dai “salotti buoni” del centro storico e dei quartieri cittadini. Non c’è bisogno di fare l’elenco dei divieti, delle zone rosse, delle messe all’indice delle tante categorie di disturbatori individuate nel tempo: è la cronaca degli anni trascorsi e del nostro presente.

Qui importa rimarcare che nel 2007 fu impressa una svolta definitiva non solo alle prassi amministrative, ma anche all’approccio ideologico, alla scelta di campo, compiuta dalle forze di centrosinistra. Fu in quella fase storica che si accettò il terreno d’elezione tipico delle destre – la logica detta “legge e ordine”- abbandonando la visione storica delle sinistre, di tutte le sinistre, cioè la prioritaria attenzione alle persone, ai loro bisogni e diritti, comprese e anzi principalmente le persone considerate marginali per ragioni sociali, politiche, culturali, quindi i poveri, gli stranieri reietti, le minoranze stigmatizzate. Proprio Domenici col suo intervento appena evocato dettò la nuova linea: “Non è una cosa di sinistra”, spiegò, “decidere di lasciar vivere gli ultimi negli spazi interstiziali della società, negli angoli, negli incroci. Bisogna che ci siano pari condizioni di dignità e identiche regole per tutti. Lasciarli a lavare vetri perché sono poveretti non è una politica lungimirante né umanitaria”. La presa di posizione del sindaco, naturalmente, non era accompagnata da alcun provvedimento in favore dei “poveretti”, che semplicemente sparirono dalla vista e presero a cercare fonti di sostentamento in altro modo. Nessuno si prese cura di loro.

Va ricordato che all’epoca, sull’onda dell’opposizione all’ordinanza lavavetri, nacque un’iniziativa informale – si chiamò Assemblea autoconvocata – che si riuniva all’incirca una volta alla settimana e che avviò un lavoro di ricerca e di iniziativa di notevole spessore per serietà e continuità, scoprendo per esempio che i famosi lavavetri erano per lo più rom venuti dalla Romania e relegati a vivere in condizioni spaventose in accampamenti informali nell’area dell’Osmannoro, nell’indifferenza generale, salvo essere additati come prova del degrado provocato dalle immigrazioni.

E’ importante ricordare tutto questo, perché meno di vent’anni prima, nel 1990, le stesse persone, Cioni e Domenici, uno già assessore l’altro segretario della federazione del Pci, avevano preso una posizione opposta sul caso degli ambulanti senegalesi presi di mira come fonte di degrado e di pericolo: il Pci, appunto, sull’onda di una serie di aggressioni e discriminazioni avvenute in città, organizzò una manifestazione a loro difesa, alla quale intervenne anche il cardinale Silvano Piovanelli. Era un’altra stagione politica. E infatti la stagione delle ordinanze – 2007-2008 – fu un momento di svolta anche a livello nazionale, sia sul piano ideologico sia su quello delle decisioni politiche, con la definitiva accettazione della fasulla emergenza sicurezza e tutti gli effetti collaterali legati alla retorica del degrado, fino all’approvazione dei primi decreti sicurezza, che aprirono la strada a tutto quanto è venuto dopo, comprese le scelte – anch’esse di matrice securitaria e illiberale – nelle politiche dell’immigrazione e bel Mediterraneo. Da Cioni a Minniti, insomma.

Insisto su questo punto, perché restano attuali le posizioni espresse all’epoca dall’Assemblea autoconvocata e dal movimento che si oppose all’ordinanza. La costruzione mediatica dell’emergenza sicurezza ha prodotto mostri nel senso comune, oltre che nelle ordinanze e nelle leggi, ed è quindi ancora più necessario e più urgente contestare e decostruire la visione che ha reso possibili tali provvedimenti. Sono atti, rimarchiamolo, che hanno eroso lo stato di diritto, fatto evaporare il principio di uguaglianza e quindi favorito l’impoverimento della nostra democrazia, ormai più simile – come in buona parte d’Europa, complici le politiche vessatorie sulle migrazioni e il ritorno dei nazionalismi – a una “democratura” che al profilo disegnato nella nostra Costituzione.

Le amministrazioni comunali, a Firenze e altrove, hanno fatto proprie il linguaggio, la visione, le idee dei primi imprenditori politici del razzismo e via via affinato ed esarcerbato i loro strumenti. I divieti sono cresciuti, gli strumenti di repressione aumentati e l’unico metro di misura considerato pare essere lo stesso di allora, cioè non la giustizia, l’equità, la solidarietà, ma il presunto o atteso consenso dei cittadini: fu questo il principale argomento opposto da Cioni e Domenici ai contestatori del 2007 (“ce lo chiedono i cittadini”); è questo che muove gli attuali amministratori, che di fatto hanno abbandonato la politica intesa come azione volta al cambiamento. Non fanno più politica, cioè non agiscono in base a valori culturali, a progetti politici di giustizia sociale e di inveramento del principio di uguaglianza o almeno di equità – parlo degli amministratori che vengono ancora considerati di sinistra o almeno centrosinistra – ma si limitano a gestire il consenso in vista delle successive elezioni e accettano di farlo in una cornice ideologica – escludente e securitaria – considerata immutabile. E’ questo il moloch che tuttora abbiamo di fronte, poiché le fosche profezie fatte all’epoca si sono drammaticamente avverate. Non possiamo sottovalutare la portata e gli effetti di lungo periodo di questa deriva. Le sinistre storiche, dopo l’89, hanno avuto uno sbandamento, ma l’involuzione è stata tale da produrre l’eclisse, su questo fronte, di un punto di distinzione fondamentale sul tema delle diseguaglianze e della stessa concezione del principio di legalità. Per tutte le sinistre – anarchica, socialista, comunista in tutte le varianti e per la dottrina sociale cattolica – vengono prima le persone, i loro diritti, la loro dignità, e il fastidio, il bon ton, il decoro, se mai hanno diritto di cittadinanza, restano in secondo piano; e la legalità non può essere mai disgiunta dall’equità, un’equità sostanziale, che affermi e garantisca i diritti sociali, che si proietti nell’ottica dell’uguaglianza, altrimenti la legalità può essere uno strumento di discriminazione. Siamo in questa fase: la tradizione delle sinistre e del migliore cattolicesimo sono subordinate a un legalismo perbenista che fa da specchio a una visione economicista e in fondo classista della società. Insomma, quando parliamo di ordinanze, Daspo, divieti, interventi di polizia, dobbiamo sempre rammentare che sullo sfondo c’è una questione ideologica da affrontare, relativa ai valori e alle visioni del mondo, e non solo un insieme di aspetti legali, di basi giuridiche e costituzionali dei singoli provvedimenti. E’ il lavoro di lunga lena nel quale dobbiamo sentirci impegnati, il tasto sul quale non dobbiamo stancarci di premere.

C’è poi un’altra questione relativa alla forze di sicurezza, urbana e non solo. Nell’ultimo ventennio gli strumenti di controllo e repressione si sono affinati non solo sul piano giuridico ma anche su quello materiale. I vigili urbani, in tutt’Italia, somigliano sempre più a ordinarie forze di polizia, e queste a loro volta somigliano sempre più alle forze militari, in termini di equipaggiamento, di preparazione, di formazione. Non è un caso se negli ultimi anni, ormai quasi venti, l’accesso in polizia è stato riservato in via quasi esclusiva – per precisa disposizione nei termini di concorso – a personale uscito dal servizio militare volontario. Nei corpi di polizia municipale si è incrementata la dotazione di armi, si sono introdotti in alcuni casi i taser, che hanno una facilità d’uso – anche emotiva – ben superiore a una pistola e sono quindi destinati a essere utilizzati facendo correre rischi inutili: è un modo anche questo per marcare le distanze, per alzare i livelli di tensione, per allontanare vigili e forze dell’ordine dal ruolo sociale – di dialogo con la cittadinanza – che potrebbero e dovrebbero avere in una democrazia avanzata. E’ un processo che corre di pari passo con la progressiva militarizzazione della società, favorita prima dalla pandemia, che ha spinto a prendere provvedimenti sempre più autoritari in nome dell’emergenza, forse legittimi, ma con scarsa attenzione agli aspetti problematici sotto il profilo dei diritti personali e collettivi, e poi dalla guerra, cominciata nei mesi scorsi e subito sfruttata per incrementare la spesa militare e accrescere la pervasività dell’opzione militarista.

Infine un’ultima considerazione sul rapporto più generale fra forze di polizia, principi costituzionali e democratici e cittadinanza. E’ almeno dal 2001, al tempo del G8 di Genova, che viviamo una grave frattura: nel luglio 2001 le violenza di polizia furono plateali, reiterate per più giorni: furono negati i diritti più elementari, furono violati numerosi articoli della costituzione, fu praticata su larga scala la tortura. La credibilità democratica delle nostre forze di polizia in quei giorni toccò il minimo storico. L’espressione “polizia di Genova” è ormai una locuzione che in Italia e in Europa indica l’uso sconsiderato e illegale della forza praticato alla luce del sole: si creò nel luglio 2001 un solco fra forze di polizia e cittadinanza che in questi anni non è stato affatto colmato. Anzi. Non starò a ripercorrere né gli esiti giudiziari né gli sviluppi politici dei fatti di Genova: mi limito a far notare che le forze dell’ordine italiane, pur pesantemente colpite nei tribunali nazionali e europei, non sembrano aver tratto alcuna lezione dai fatti di Genova, tanto che scene simili a quelle di 21 anni fa si sono ripetute più volte: potrei citare, per stare ai tempi recenti, il caso del giornalista Origone pestato nel 2019 proprio a Genova senza motivo durante una manifestazione antifascista o i noti fatti del carcere di Santa Maria Capua a Vetere, con le torture praticate nel 2020 su decine di detenuti, o ancora le cariche a dir poco eccessive durante varie manifestazioni studentesche nello scorso inverno. Né le nostre forze dell’ordine hanno mai ripudiato i fatti del 2001 o chiesto scusa alla cittadinanza, e soprattutto non hanno avviato quell’operazione di verità al proprio interno e di riforma dei propri comportamenti e criteri di formazione che sarebbe stata necessaria.

Le forze dell’ordine, i loro vertici, dopo Genova hanno innalzato un muro, hanno agito come sono state abituate a fare nel corso della loro storia – dal tempo della polizia del re fino a quella della repubblica, passando per il ventennio fascista – quasi senza soluzioni di continuità, cioè rifiutando di rendere conto del proprio operato e in particolare dei propri errori e orrori. Un’autoreferenzialità che però cozza contro i princìpi e l’etica di forze di polizia di uno stato democratico. Nel processo per le torture e i falsi alla scuola Diaz (21 luglio 2001) il pm parlò apertamente di omertà e la Corte europea dei diritti umani, esaminando il caso, ha scritto nero su bianco che i vertici di polizia hanno ostacolato l’azione della magistratura e lo hanno fatto impunemente. Perciò i processi post G8 sono stati difficili, contrastati, e possiamo compiacerci che almeno in un paio di casi – Diaz e Bolzaneto – siano arrivati a conclusione con una serie di condanne in via definitiva, sia pure in larga parte coperte da prescrizione e indulto. Sono condanne, peraltro, così incomplete e così lievi per l’entità delle pene rispetto alla gravità dei fatti, che non hanno risparmiato all’Italia condanne davanti alla Corte di Strasburgo. E’ in questo contesto di opacità degli apparati che si collocano le vicende di cui parleranno gli altri oratori.

Chiudo rilevando l’importanza di un incontro come questo, che riflette sull’eclisse dei diritti sociali e della dignità della persona in una “democrazia della sicurezza” e che ragiona sulla deriva in corso nelle forze dell’ordine, un tema tabù per i mezzi d’informazione e per l’opinione pubblica italiana. Ma sono temi cruciali, perché attorno a queste vicende si trasforma – in peggio – la vita civile del nostro paese.

*Riproduciamo il testo dell’intervento introduttivo all’incontro Abusi in città, tra Daspo, regolamenti e ordinanze, organizzato il 9 giugno 2022 al circolo Boncinelli dal laboratorio perUnaltracittà e Fuori Binario, ospiti di Forimercato.

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Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci è stato fra i fondatori del Comitato verità e giustizia per Genova e del gruppo Giornalisti contro il razzismo. Nel 2008 pubblicò "Lavavetri" (Terre di mezzo). I suoi ultimi libri: "L'eclisse della democrazia" (con Vittorio Agnoletto, Feltrinelli 2021), "Camminare l'antifascismo" (Gruppo Abele Edizioni 2022)

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