Come imporre un limite assoluto al Capitalismo? – La conclusione dell’autore

In questo numero della città invisibile pubblichiamo – con il gentile permesso dell’editore – un estratto del libro di Jun Fujita Hirose “Come imporre un limite assoluto al Capitalismo? Filosofia politica di Deleuze e Guattari” uscito da poco per i tipi di Ombre corte l’editore veneto dal cui catalogo abbiamo attinto molte volte. Riservandomi di farne una recensione più estesa, accenno qui soltanto che il libro, partendo dall’attuale condizione dove una pandemia continua ad imperversare intorno al globo, la interpreta in termini di “distruzione creativa” che rimanda a quelle crisi che segnano e caratterizzano un processo di mutazione industriale come quello attuale legato al passaggio a una forma di economia a forte contenuto tecnologico, dove anche la componente finanziaria ha sempre più valenza. Un nuovo processo di accumulazione sotto l’egemonia cinese, il cui hashtag potrebbe essere connesso alle cosiddette terre rare. Ma non è un lavoro di semplice analisi, a Hirose interessa come fare presa, come trovare quegli strumenti per cercare di scalzare l’egemonia capitalista. E lo fa cercandoli all’interno del lavoro di Deleuze e Guattari che a quello scopo hanno dedicato la gran parte della loro produzione congiunta.

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Jun Fujita Hirose, filosofo e critico cinematografico, è professore di ruolo all’Università Ryukoku (Kyoto). Le sue ricerche vertono principalmente sul cinema, sul pensiero politico, sullo sviluppo della società capitalistica e sui movimenti sociali contemporanei. Il cine-capitale. Il “Cinema” di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini (uscito per i nostri tipi nel 2020) è stato il suo primo libro pubblicato in italiano.

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CONCLUSIONE
Dove, quando e come oggi?

 

Storia

La cosiddetta crisi del Covid-19 è un vero momento di distruzione creativa. Una distruzione creativa consiste in una doppia transizione simultanea di potere egemonico e di materia paradigmatica. Nella storia moderna, l’egemonia è passata dal Portogallo alla Spagna, dalla Spagna all’Olanda, dall’Olanda all’Inghilterra e dall’Inghilterra agli Stati Uniti, nello stesso momento in cui la materia centrale e strategica dell’organizzazione economica è passata dall’oro all’argento, dall’argento al vento, dal vento al carbone, dal carbone al petrolio. Il capitalismo, come appropriazione diretta della produzione da parte del capitale, è apparso nella seconda metà del xviii secolo, con il passaggio dall’Olanda all’Inghilterra e dal vento al carbone, e apportò di per sé un nuovo cambiamento alla fine del xix secolo, quando l’accumulazione del capitale raggiunse il suo limite sotto l’egemonia inglese, con il carbone come materiale principale. In seguito, il capitalismo è rimasto nelle mani del regime americano e del petrolio per più di cento anni.

In realtà, già dalla seconda metà degli anni Sessanta, il regime statunitense e petrolifero era in crisi strutturale, ma il capitale è riuscito ad accumulare ancora e a valorizzarsi aprendo dei varchi, prima con la finanziarizzazione dell’economia dalla fine degli anni Settanta, e poi con l’integrazione della forza lavoro cinese e di quella dei paesi ex socialisti nel mercato mondiale a partire dai primi anni Novanta. Solo che queste protesi non sono state esenti da una importante perdita di efficacia: da un lato, i mercati finanziari si sono saturati nella seconda metà del primo decennio del 2000, dopo aver moltiplicato al massimo i loro prodotti derivati, per i quali il capitale ha richiesto che le banche centrali adottassero delle misure di espansione quantitativa (quantitavive easing), incrementando la base monetaria dell’insieme dei paesi dell’Ocse da 3 bilioni di dollari a 14 bilioni tra il 2007 e il 2019; dall’altro lato, le nuove forze di lavoro, integrate nell’economia globale, hanno raggiunto il loro massimo sviluppo possibile nella seconda metà degli anni dieci del nuovo millennio, nello stesso momento in cui i mercati globali dei beni hanno raggiunto la saturazione. A causa dell’esaurimento della capacità di innovazione, le principali tecniche di organizzazione dei mercati dei beni si sono trasformate in quelle dell’obsolescenza programmata, anche nel mercato degli smartphone, un mercato creato nel 2007. Da qui la situazione degli ultimi anni, in cui praticamente solo le politiche monetarie di quantitative easing permetterebbero al capitale di continuare a valorizzarsi.

La crisi del Covid-19 è lo scoppio definitivo di un regime di accumulazione che era in crisi permanente da cinquant’anni. Il capitale ha approfittato di una pandemia per distruggere un regime obsolescente e crearne uno nuovo per rivitalizzare il suo processo di accumulazione. La distruzione creativa a cui stiamo assistendo è la seconda dalla nascita del capitalismo, e consiste nel passaggio dagli Stati Uniti alla Repubblica Popolare Cinese a livello egemonico, e dal petrolio ai metalli rari (litio, niobio, coltano ecc.) a livello materiale. Con la crisi del Covid-19, si stabilisce un nuovo regime di accumulazione del capitale, sotto l’egemonia cinese e con i metalli rari come materiale paradigmatico.

Logica

Nel novembre 2020, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha annunciato in merito al programma Next Generation EU – un piano di recupero UE da 750 miliardi di euro –: “Il nostro piano di recupero ci aiuterà a trasformare la sfida della pandemia in un’opportunità per una ripresa guidata dalla transizione verde e digitale”. Le classi dirigenti del mondo sono unanimente d’accordo sulla necessità di avviare la “transizione verde e digitale” dell’economia globale. Non solo i piani di recupero o di stimolo annunciati e/o già attuati da vari governi nell’ambito della crisi Covid-19 mirano a promuovere un nuovo sviluppo economico basato sulla decarbonizzazione e la digitalizzazione – al di là di un semplice salvataggio dei settori danneggiati dalle misure sanitarie adottate (confinamento, distanza sociale ecc.) –, ma queste stesse misure stanno già promuovendo in modo drammatico e irreversibile la transizione digitale a tutti i livelli della vita economica, in tutte le regioni del pianeta. Le multinazionali digitali registrano profitti record nel 2020, in contrasto con un’enorme perdita di profitti nei settori tradizionali come l’industria automobilistica, il trasporto aereo, il turismo, il commercio tradizionale (cioè non elettronico) ecc. Qual è il punto in comune che unisce la transizione digitale a quella verde? Entrambe richiedono una massiccia produzione di elettricità e un’estrazione intensiva di metalli rari, in particolare di terre rare. Se i paesi del Sud stanno già realizzando megaprogetti estrattivi dalla prima metà degli anni 2000, la transizione verde e digitale intensificherà necessariamente questo processo neo-estrattivista e ratificherà definitivamente il “commodities consensus” (Maristella Svampa), che ha già sostituito il “Washington consensus”, il consenso neoliberale che ha dominato gli anni Novanta con l’imposizione dei suoi programmi di aggiustamento strutturale ai paesi del Sud. La transizione verde e digitale è una svalutazione dei vecchi capitali legati al regime del petrolio e la creazione di nuovi potenti capitali allo stesso tempo.

La crisi del Covid-19 non sta in alcun modo frenando l’espansione dei mercati finanziari attraverso il quantitative easing, anzi: la sta accelerando esponenzialmente. I piani di risanamento sono finanziati principalmente dall’emissione di titoli di Stato, e gran parte di questi sono monetizzati, cioè acquistati dalle banche centrali, tanto che la base monetaria totale dei paesi dell’Ocse è già aumentata da 14 trilioni di dollari a 24 trilioni di dollari solo nel 2020. E le masse di denaro create in questo modo si stanno riversando in gran parte sui mercati degli asset, e stanno già generando bolle finanziarie e immobiliari di dimensioni senza precedenti. La crisi del Covid-19 non solo deprezza il vecchio capitale, ma lo “zombifica” attraverso piani di salvataggio e politiche di tassi di interesse bassi o nulli, come se la macchina capitalista globale cercasse un atterraggio morbido sul nuovo regime cinese e dei metalli rari. Le “aziende zombie” sonno già proliferate nel contesto della crisi finanziaria iniziata nel 2008 (il caso più noto e rappresentativo è quello della General Motors, nazionalizzata di fatto con il salvataggio del 2009). La zombificazione delle imprese non redditizie in termini di produzione avviene in risposta alle richieste delle classi rentier, che ricevono i dividendi e altri benefici finanziari; e la conseguente conservazione dei posti di lavoro sotto forma di bullshit jobs che ne derivano è valida solo come criterio di speculazione. Infatti, molte aziende salvate dagli stati con l’iniezione di sussidi Covid-19 remunerano gli azionisti attraverso dividendi e/o riacquisti delle proprie azioni, mentre annunciano massicci tagli di posti di lavoro, come abbiamo visto con le aziende americane Halliburton, McDonald’s, General Motors, la francese Danone ecc.

Perché la Cina? Non c’è dubbio che oggi i cinesi sono gli unici capaci di abbracciare l’economia globale da un punto di vista veramente a lungo termine. La Cina non è né il Nord né il Sud, ma l’unico paese cerniera tra i due, il che la rende una potenza unica nel contesto geopolitico attuale. Infatti, quale governo se non quello cinese ha la capacità di concepire, proporre e attuare una riconfigurazione cartografica globale così radicale e prospettica come la “Nuova via della seta”? Il partito comunista cinese è il partito del capitale. La Cina di Xi Jinping ha messo in moto la transizione verde e digitale dell’economia mondiale dopo aver stabilito concretamente il suo controllo sul mercato dei metalli rari. I populisti anticinesi hanno ragione a chiamare il nuovo coronavirus “virus di Wuhan” o “virus cinese”, poiché è il virus della distruzione creativa che opera la transizione egemonica dagli Stati Uniti alla Cina. Non è sorprendente, quindi, che il governo degli Stati Uniti e i suoi governi alleati abbiano inizialmente rifiutato di prendere misure sanitarie contro il Covid-19. Che questi governi resistenti abbiano alla fine riconosciuto la pandemia significa che tutti i governi del mondo, del Nord e del Sud, di destra e di sinistra, erano determinati a impegnarsi nel processo di transizione o riconversione sotto la guida dell’avanguardia cinese. Il “consenso Covid-19” si è formato così, ecumenicamente e all’unanimità, perché era richiesto non solo dall’economia cinese, ma dall’intera economia capitalista mondiale.

Programma

La distruzione creativa si muove a una doppia velocità: il capitale si muove più velocemente del lavoro. La creazione di nuovi capitali non assorbe immediatamente la forza-lavoro che è stata liberata dai vecchi capitali che vengono distrutti. Qui si trova un primo enorme potenziale rivoluzionario. Come i movimenti piqueteros argentini hanno mostrato negli anni 2000, la disoccupazione può assumere un’esteriorità dinamica e irriducibile rispetto al piano del capitale e diventare una macchina da guerra. Se gli stati capitalisti, dall’inizio della crisi del Covid-19, cercano di assiomatizzare i flussi del lavoro disoccupato attraverso i sussidi sociali, questi flussi possono essere contro-utilizzati investendoli nei processi di fortificazione dell’esteriorità (rifiuto del lavoro salariato) e della loro autonomia (autovalorizzazione). Gli Stati moltiplicano le sovvenzioni alle famiglie e alle imprese, non solo per disarmare in anticipo la nascente macchina da guerra, ma anche per sostenere il potere d’acquisto in modo da attenuare il più possibile la recessione di breve e medio termine dovuta alla distruzione dei vecchi capitali. Il contro-utilizzo dei sussidi sarebbe, in questo senso, una conversione rivoluzionaria dei flussi di potere d’acquisto in flussi di potere creativo. È inoltre necessario tenere conto del carattere discriminatorio delle sovvenzioni nel loro attuale modo di distribuzione. Lo stato giapponese, per esempio, non riconosce il diritto agli assegni familiari Covid-19 ai migranti senza documenti, e li versa solo ai capifamiglia, ovvero ai maschi nel caso di famiglie eterosessuali. I flussi di lavoro disoccupato possono entrare in un divenire-senza-documenti e in un divenire-donna attraverso le lotte per una distribuzione universale ed egualitaria degli assegni familiari e altri progetti sociali.

La macchina da guerra metropolitana costituisce una vera minaccia per il capitalismo quando funziona in connessione con le lotte dei popoli minoritari per difendere i loro territori contro i progetti neoestrattivisti, essenziali per l’attuale transizione del regime di accumulazione del capitale. L’estrazione di metalli rari e altre risorse naturali, così come la costruzione di mega centrali idroelettriche, rispondono perfettamente all’interesse di classe dei lavoratori metropolitani disoccupati o precarizzati, poiché è proprio da questi che dipenderà il loro reinserimento nel mercato del lavoro. Tuttavia, la macchina da guerra, o la disoccupazione o la precarietà come esteriorità dinamica autonoma, può invertire la subordinazione del desiderio all’interesse di classe e permettere ai disoccupati e ai precari metropolitani di allearsi con le lotte antiestrattiviste che si stanno espandendo in tutto il Sud dalla fine degli anni 2000. Qui sta la possibilità di un nuovo internazionalismo rivoluzionario.

Le donne indigene e afrodiscendenti latinoamericane, nelle loro lotte contro il colonialismo interno neoestrattivista, dicono: “Non si può decolonizzare senza depatriarcalizzare”. Questo slogan fa rima con la convinzione espressa dal Fronte di liberazione omosessuale argentino nel suo manifesto intitolato “Sesso e rivoluzione” pubblicato nel 1973: “Nessuna rivoluzione è completa, e quindi riuscita, se non sovverte la struttura ideologica intimamente interiorizzata dai membri della società dominante”. La decolonizzazione avviene nell’economia politica, mentre la depatriarcalizzazione avviene nell’economia libidinale. E se la prima non può essere realizzata senza la seconda, è perché tutta l’economia politica colonialista è organizzata sulla base dell’economia libidinale patriarcale, che stabilisce e mantiene ovunque e a tutti i livelli distribuzioni binarie gerarchiche tra flussi, a partire da quello della mascolinità-femminilità e usandolo come modello: uomo-animale (civiltà-natura), maggioranza-minoranza (centro-periferia), capitale-salario (borghesia-proletariato) ecc. L’economia politica colonialista si intreccia con l’economia libidinale patriarcale in modo così inestricabile e profondo che si parla di “colonizzazione dell’utero” (Silvia Federici) o di “femminilizzazione della Terra” (le ecofemministe). Per “depatriarcalizzazione”, le donne indigene e afrodiscendenti non intendono “equità di genere” o “uguaglianza di genere”, a differenza del femminismo liberale propugnato e promosso dalla tecnocrazia di genere, ma il divenire-donna come un processo in cui la stessa logica di genere viene smantellata. Come le combattenti queer di Buenos Aires degli anni Settanta, sanno che “tutti i divenire cominciano e passano per il divenire-donna” (MP, 389): a partire da e attraverso la depatriarchizzazione tutti i flussi molecolari, umani e non umani, viventi e non viventi, si liberano dalle binarizzazioni molari per affermarsi nelle loro immediate molteplicità singolari. La depatriarchizzazione impone il limite assoluto all’economia politica colonialista, cioè il capitalismo, mentre le lotte decoloniali senza depatriarcalizzazione, anche se vittoriose, lasciano sempre emergere da qualche parte nuove binarietà asimmetriche, con le quali il capitale riesce ancora ad accumulare. Come abbiamo visto nell’appendice del capitolo primo, l’accumulazione di capitale ha luogo ovunque si generino differenze di potere tra i flussi.

Nell’attuale momento di distruzione creativa del capitale, si stanno formando parallelamente due grandi macchine da guerra: quella dei lavoratori metropolitani abbandonati dai vecchi capitali in distruzione o svalutazione, e quella dei popoli minoritari che combattono nei punti stessi di crescita dei nuovi capitali. Come si collegano tra loro? Questa è la domanda più urgente che tutti dobbiamo porci. Quello che è certo è che non dobbiamo lasciare che il capitale dirotti la macchina da guerra metropolitana per massacrare i popoli minoritari in difesa dei loro territori e delle loro comunità; né dobbiamo lasciare che il capitale, bloccato nel suo sviluppo industriale dal confronto con la macchina da guerra minoritaria, porti a una continuazione estesa della finanziarizzazione dell’economia attraverso un’espansione quantitativa illimitata, che non solo moltiplicherebbe le aziende zombie, i bullshit jobs e i prodotti di obsolescenza programmata, ma renderebbe anche la vita delle masse impoverite del mondo ancora più precaria, trasformando tutte le cose – anche quelle di prima necessità – in oggetti di speculazione. Se il capitalismo perisce, lo fa annegando. Affoga solo quando le due macchine da guerra si articolano in un’alleanza trasversale e ostacolano in anticipo tutte le vie d’uscita possibili per il capitale. Se la crisi del Covid-19 è un grande taglio relativo che la macchina capitalista mondiale sta operando su sé stessa, l’internazionalismo delle macchine da guerra opererebbe un taglio assoluto su questo taglio riflessivo capitalista.