La smaterializzazione della realtà – V parte

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*Per un’ecologia anticapitalista del digitale – parte #13.5

Gli umani tendono a fare un uso strumentale delle cose. “Ma lo strumento non ha ancora l’attività in lui stesso; è una cosa inerte […]”, dice Hegel (p. 90). Le cose però cambiano con le macchine automatiche, ma in maniera ancor più sottile nel momento in cui si implementa in esse una qualche forma di intelligenza. Quando i feedback della macchina interagiscono linguisticamente con gli umani. Questo non significa che le cose in senso stretto parlino – i sintetizzatori vocali in realtà già lo fanno – significa che le cose sono ormai immerse in un ambiente attraversato e alimentato da flussi di informazione. Con l’Internet delle cose (IoT, Internet og Things), le cose stesse captano ed emettono informazioni. L’inerzia delle cose viene così smentita.

Secondo von Uexküll (ne abbiamo già parlato) ogni cosa vive in un ambiente precipuo che si costituisce in relazione ai percettori ed effettori che essa ha in dotazione, per questo Heidegger poteva dire che la cosa non aveva mondo, che gli animali invece avevano un mondo limitato e proporzionato a questi strumenti, erano quindi poveri di mondo, mentre gli umani potevano esperire un mondo non soltanto più vasto, ma ne potevano essere essi stessi i facitori. Le “cose” si sono fatte più complicate, in tutti i sensi. L’espansione dell’ambiente umano, permessa dallo sviluppo tecnologico, ha in realtà allargato il mondo anche alle cose, forse lo ha dato loro. L’operazione ha anche trasformato le cose in qualcosa di diverso: in informazione. Han (p.14) parla di “infomi”. Le relazioni degli umani con le cose nella loro materialità, passa in secondo piano. Le cose stesse, nella loro materialità, si perdono sullo sfondo della rappresentazione, la percezione sfuma. La materialità perde di senso, sostituita dall’informazione. Ma c’erano anche prima degli aspetti che “informavano” il nostro rapporto con le cose. Potevano essere anche rapporti di dominio, così come essere rapporti strumentali; si potevano, e si possono, e ancor più oggi, pensare allora rapporti di tipo collaborativo; la possibilità cioè che la nostra apertura al mondo sia di tipo simbiotico e non di semplice uso.

Il fatto è che l’uso strumentale che il capitale fa delle cose si è esteso anche all’informazione e quindi alle relazioni. La ragione-prima del profitto è interessata all’incontro e al rapporto che potremmo instaurare con le cose, con l’ambiente e chi lo popola, ma lo è in forme particolari, più parassitarie che simbiotiche. Dove la relazione si “dà”, il capitale la estrae in forma di dato, un dato che poi viene rimesso in circolo, un dato che si ri-immerge nell’ambiente e informa la relazione addestrando l’algoritmo che ormai la domina e la conforma. Attenzione, ho usato qui il termine ‘cose’ sia per le cose di origine non biologica, sia come sinonimo di ente, sottintendendo così la volontà di maneggiarle a partire da una visione ontologica non gerarchica. Una ontologia piatta come piace ai pensatori della OOO (object-oriented ontology).

L’infoma, “la cosa digitale”, emancipa l’umanità dal dover “manipolare” le cose. La macchina intelligente potrebbe realmente permettere questa emancipazione, nello spazio dove questa manipolazione ci esonera dal dover lavorare ma il capitale usa invece questa possibilità per alimentare l’esercito di manodopera di riserva, per introdurre differenziali che creano profitto (Pascucci). Il risultato si riduce al fatto che oggi non manipoliamo più le cose, lo fanno le macchine e questo ha delle conseguenze. La realtà si fa virtuale ma non nel senso di potenziale, si smaterializza, divenendo evanescente, divenendo gadget, merce, simulacro di valore. Il nostro mondo si contrae racchiudendoci in un videoclip ingannevole ambientato nel paese di Cuccagna. Questo avviene proprio nel momento in cui, invece, un paese dei Balocchi avrebbe delle basi sostanziali per la sua realizzazione. Cosicché, in quel videoclip, non ci resta altro da fare che consumare cose, mondo, anche se stessi.

Per Hannah Arendt la condizione umana è vita activa. Rimanda direttamente a tre attività che segnano la condizione degli umani in quanto terrestri, non celesti e nemmeno universali. Queste tre attività sono il lavoro, l’operare e l’agire. Il lavoro è la condizione della riproducibilità della specie, la sua alimentazione. Questo è un elemento che ha caratterizzato i modi della convivenza intraspecifica legandosi in maniera differenziata al concetto di libertà. Nell’antichità la liberta si riferiva alla condizione di non essere schiavi. L’uomo libero greco lasciava il lavoro agli schiavi. Oggi la libertà coincide con l’autonomia del soggetto, una libertà di comportamento che dovrebbe trascendere la semplice scelta ma anche il consumo. La seconda attività umana per Arendt è “l’operare”, un’attività che non fa parte del ciclo naturale dell’esistenza umana: “Il frutto dell’operare è un mondo ‘artificiale’ di cose” (p. 7). L’operare è la capacità di superare i limiti posti dall’ambiente naturale, andare oltre la nuda vita. “La condizione umana dell’operare è l’essere nel mondo” (Ibidem). Infine la terza attività che caratterizza la condizione umana è l’azione. È quella attività che mette gli umani in rapporto diretto senza la mediazione di cose materiali. È il presupposto politico dell’esistenza umana, quello che rende conto delle pluralità degli individui; quello che fonda e conserva gli organismi politici.

Se la mano manipola, il dito indica, se le mani agiscono, le dita scelgono (Han, p. 16). L’umanità che “sceglie” smette di svolgere le prime due funzioni, smette di manipolare le cose. Anche qui ci troviamo di fronte al medesimo paradosso, a un chiasmo. La possibilità di emanciparsi dal lavoro (prima istanza) ci priva nello stesso tempo della possibilità di operare (seconda) sulle cose in termini creativi, “artificiali”, anche ludici. Ci resta soltanto la possibilità di relazionarci con l’informazione, una forma di dialogo che sembrerebbe includere le cose tutte e che potrebbe anche farlo se non fosse per l’implementazione capitalista degli algoritmi che obbliga ad avere con le cose stesse, soltanto un rapporto strumentale. Quella manipolazione mancante, quel rapporto di prossimità legato agli spazi, non soltanto smaterializza le cose ma le disindividua. La presenza delle cose diventa così soltanto un’occorrenza statistica.

Nel romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” di Phil Dick del 1965 un imprenditore vende ai coloni terrestri su Marte dei plastici di case terrestri con riproduzioni in miniatura di mobili ed elettrodomestici nei quali posizionare la bambola Perky Pat. Così facendo, e grazie all’uso di una droga illegale ma tollerata dalle autorità, il Can-D (sempre smerciata dallo stesso uomo d’affari), i coloni terrestri possono immaginare di essere di nuovo sulla Terra a vivere una vita spensierata (le donne incarnate nella bella e giovane Perky Pat, gli uomini incarnati nel suo aitante e ricco amico Walt), e così rimuovere la deprimente e desolata vita sul pianeta rosso (da Wikipedia). Una distopia che anticipava la situazione che viviamo oggi nel tardo capitalismo cibernetico. Le cose non sono realmente presenti, sono soltanto evocate tramite dei modelli, delle rappresentazioni, dei simulacri. I modellini in scala nel primo caso, la loro rappresentazione digitale (video anche 3D) nel secondo. La loro accettazione avviene nel primo caso per condizionamento psicotropo, nel secondo per condizionamento mediatico. È questa l’alleanza fruttuosa tra i media elettrici e quelli elettronici. Oltre i plastici delle case terrestri in uso sul pianeta rosso si estende a perdita d’occhio il deserto marziano; dietro gli schermi dei nostri device il vuoto caotico e cosmico, dell’impossibilità delle cose di poter essere “alla mano”.

Ritornando al concetto moderno di libertà, essa si concentra nella bulimia delle esperienze che accelera i ritmi, evita i legami e si concentra sui flussi informatici che attraversano le cose ridotte a merci e/o cancellate della loro presenza. L’esperienza stessa che si può fare con le merci non ha più a che fare con il loro valore d’uso, con il loro uso tout court. Vale più l’immagine del brand, non conta l’esperienza d’uso, vale soltanto l’esperienza dell’acquisto e la dichiarazione del possesso, la sua ostentazione che è di nuovo un flusso informatico. La stessa esperienza alimentare non la si gode più con il gusto ma attraverso la condivisione sui social. I ristoranti stellati offrono ormai la materia prima per le immagini da postare su Instagram. “Il contenuto estetico è il vero prodotto” dice ancora Han (p. 21). Le cose non abitano più i luoghi, fluttuano nel cloud e come ectoplasmi si mostrano sugli schermi dei nostri device. Alla consistenza delle cose, animali umani e non umani compresi, si sostituisce la loro immagine digitale. La stessa nostra identità non si manifesta nelle relazioni con il mondo, nella nostra immersione in esso, è soltanto il risultato dell’atto performativo del mostrarsi. È questo il senso e la diffusione dei selfie. Il turismo dei selfie equipara anche i luoghi della cultura a merce, a marchio redditizio in maniera così tanto profonda che la valorizzazione delle opere d’arte consiste ormai proprio in questa riduzione.

Insieme alle cose scompaiono gli “altri”. Non è soltanto la tendenza a non considerare i dati che si discostano dai modelli algoritmici, ma il fatto che l’altro lo percepiamo sempre più spesso tramite lo schermo di un device. E, su quello schermo, il potere lo detiene il touch che lo evoca, lo swipe che lo scarta, il pinch che lo ridimensiona e il suo contrario che lo ingrandisce. Le interrelazioni sono sempre più legate alle chat che non alla conversazione. L’altro in diretta crea ormai una forma di disagio; ridimensiona il dominio che l’uso delle dita ti ha illusoriamente concesso. La mancanza di un faccia a faccia ci priva dell’altro.

L’Altro uomo non mi è indifferente, l’Altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola “riguardare”. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” significa anche “guardare in faccia” qualcosa, per prenderla in considerazione”. […] Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia. […] La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia. (Levinas, p.43, traduzione mia).

La mancanza del volto dell’altro è un’assenza della relazione. L’altro ormai potrebbe essere qualsiasi cosa, anche un robot, una chat bot alimentata da una AI. Come fai a odiare una chat bot? Come fai ad amarla? Come fai a fidarti? Non c’è empatia. L’universo digitale riduce il mondo a immagine. Il mondo scorre sui nostri schermi. Ma questi non sono una finestra sul mondo. Il mondo che vi appare è edulcorato, privato non soltanto della presenza dell’altro, del viso dell’altro, ma anche di tutto quanto ci può essere estraneo. Ma la potenza delle immagini, la facilità di consumo e produzione di immagini, ne produce e riproduce una infinità. Si potrebbe pensare di aver digitalizzato, conservato e memorizzato ogni sguardo possibile sul mondo. Possibile non è qui quello che è in potenza, quello che guarda anche ai risvolti delle cose; quello che guarda anche l’altra faccia del mondo. Gli algoritmi, le macchine probabilistiche non lo permettono. L’altra faccia, lo abbiamo già detto, è assente. Miliardi di videocamere inquadrano in ogni momento pezzi di mondo; miliardi di immagini percorrono le dorsali informatiche della rete, con il solo risultato di averci occultato il mondo. Non sono rappresentazioni della realtà: sono prelievi, estrazioni a non rendere.

La parola oggetto viene dal verbo latino “obicere” che rimanda a obiettare, opporre, contrapporre. Gli oggetti fanno resistenza, nell’essere alla mano, pesano. Interloquiscono anche attraverso questa resistenza. Occorre calibrare la presa e, in questa calibrazione, si costituiscono, prendono forma. La riduzione a immagine li fa essere senza resistenza, meno significanti, più ottusi anche se più evanescenti. “Lo smartphone è smart poiché sottrae ogni carattere riottoso alla realtà” (Han, p.31). Nemmeno lo smartphone è una cosa. È soltanto un punto di emersione dei flussi. Una finestra rettangolare liscia e senza spigoli che si lascia attraversare dalle informazioni digitali. Una cosa senza ornamenti, apparentemente espressione di pura efficienza. Nessuna concessione allo spreco, al lusso. Rimanda a un mondo spoglio, netto. Il decoro perseguito dalla smart city in realtà è il trionfo della sua assenza. Il decoro è infatti declinato al negativo. Il decoro vieta, si oppone ad ogni grinza, a ogni piega, ogni striatura che disturbi il liscio. Il decoro che nega, nasconde la povertà che esso provoca. Ma i poveri non possono recriminare, si devono sentire in colpa. Un decoro che colpevolizza le differenze. Questo decoro non pone ma oppone. È esteticamente sterile. Sfugge ogni concrezione del reale, ogni morfogenesi. Così facendo nega il formarsi di ogni tipo di strutturazione del senso che non sia quel senso comune che ormai avviene, scorre in una accelerazione continua senza arresti. È esteticamente sterile ma lo è anche eticamente. Per questo le figure politiche attuali, quelle che raccolgono consenso, non hanno statura. Anche quando gridano, gridano lo stesso, il medesimo.

Parlare male degli smartphone è ormai anche questo un luogo comune che lascia il tempo che trova. Dire anche che sei schiavo del telefono fa lo stesso effetto perché in realtà le vittime non si sentono tali. Non sono disturbate dalla sua evidente invadenza. È questa invece la cartina di tornasole dell’asservimento. Il servo è tale perché pensa di fare le cose a lui imposte nella massima libertà. Il potere si esplica quasi sempre mascherando la coercizione. “Lo smartphone non emancipa. La costante raggiungibilità non si differenzia sostanzialmente dalla servitù. […] Devoto significa sottomesso. Lo smartphone s’impone come un devozionale del regime neoliberista” (Han, pp. 33-34).

G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Roma-Bari 2008

Hannah Arendt, Vita activa. La condizione Umana, Bompiani, Milano 2014

Emmanuel Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Le Livre de Poche, Paris 1971

Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999

Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022

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Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sestaQui la 7.1Qui la 7.2Qui la 8.1 Qui la 8.2, Qui la 9Qui la 10.1Qui la 10.2Qui la 10.3, Qui la 11 Qui la 12Qui la 13.1Qui la 13.2, Qui la 13.3, Qui la 13.4

(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale” uscito a puntate proprio su questo spazio e poi raccolto nel libro “Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale” per “ombre corte”. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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