Antonia Anna Ferrante, Cosa può un compost

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Con il gentile permesso della casa editrice e della autrice pubblichiamo un estratto da questo bel libro di Nina Ferrante: Antonia Anna Ferrante, Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer, Luca Sossella Editore, Roma 2022, 126, € 10.00

Il compost è un modello radicalmente alternativo di convivenza. Rifiuta la gerarchia e il dominio, ma anche la razionalità e l’armonia. È una forma di ecologia, ma incompatibile con quelle pensate fino a oggi dalla cultura occidentale. È un’ecologia queer, ed è venuto il momento di adottarla per rifare il mondo, anzi: i mondi. Si entra nel compost senza malinconia della propria identità, accettando di divenire altro, trasformando la propria individualità e trasformando l’insieme. Si diventa un assemblaggio in cui corpi uni e pluricellulari cooperano, negoziano, si invadono e parassitano, cambiando in continuazione la loro composizione e ciò che li circonda, al punto da rendere impossibile la differenziazione degli elementi.

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Non sono post-umanista, sono compostista

Donna Haraway

Lo scarto entra in compostiera senza alcuna malinconia della propria identità, accettando di divenire altro, trasformandosi individualmente e trasformando l’intero composto; eterogeneo assemblaggio multilivello tra molecole, corpi uni e pluricellulari che cooperano, negoziano, si invadono e parassitano, cambiando in continuazione la loro composizione e ciò che li circonda, al punto da rendere impossibile la differenziazione degli elementi.

Come tecnica il compost è un processo di degradazione aerobica, che trasforma scarti maleodoranti in prezioso humus; questo processo avviene naturalmente nel letto dei boschi e dallo sterco.[1] Cosa significa naturalmente? Senza una direzione umana? Autonomamente? Cosa significa autonomamente? Senza un’organizzazione umana? Ebbene, il compost è il prodotto del lavoro di funghi, batteri, vermi in “intra-azione”, cioè in un campo di forze in cui l’agency, la capacità di agire, non è mai riconducibile a un solo individuo o soggetto, ma alle relazioni intime e co-dipendenti tra diversi agenti inseparabili;[2] mentre il lavoro di chi lo accudisce e lo osserva, alimentando, rivangando, funge solo da catalizzatore, come un semplice “attante” tra gli altri, cioè in una fitta trama di relazioni in cui non c’è un unico attore dotato di capacità di agire.[3] Come modello di pensiero critico, il compost si presenta come un terreno ricco per comprendere l’organizzazione/stratificazione dei corpi intesi come materia, relazioni, cultura ed economia.

Da napoletana non posso nascondere una certa inclinazione per la “munnezza”, ma preferisco situarmi in questa riflessione come studiosa femminista e terrona. Ancor prima di essere una studiosa, infatti, sono una donna cresciuta nell’attivismo per la difesa della terra e dei beni comuni. All’ombra del Vesuvio questo tipo di attivismo non è una scelta, ma il destino segnato dalla puzza di copertoni bruciati; una forma di responsabilizzazione partecipata, di resistenza ai roghi e ai lutti di una biografia che non è solo mia.[4] Ho imparato nei comitati – una forma di auto-organizzazione della partecipazione, orizzontale e dal basso, molto legata ai territori – cosa fosse la violenza ambientale, quindi non solo il saccheggio e la devastazione, ma la rimozione per un’intera popolazione della possibilità di scegliere il proprio destino,[5] comunità sapienti esautorate, segnalate come clan di camorristi affetti dalla sindrome NIMBY.[6] In quegli spazi ho visto donne come me prendere consapevolezza del valore collettivo della responsabilità e ho visto la lotta cambiare le nostre vite: non più solo madri, ma anche sorelle. Ho imparato in quegli spazi cosa significhi autodeterminazione, intesa come forma di saperi incarnati, possibilità di scelta, affermazione. Ho imparato tutto ciò prima che arrivasse il femminismo nella mia vita a dare parole e senso a pratiche che erano già lì.

Questo posizionamento riconosce prima di tutto che i miei saperi sono stati prodotti in un’ecologia di relazioni e pratiche, e che sono situati in comunità che hanno esplicitato con estrema chiarezza il rapporto che c’è tra partecipazione, comune,[7] giustizia ambientale, femminismo, colonialità.[8] È solo di recente, tuttavia, che ho imparato l’orgoglio di dirmi “terrona”: la riappropriazione di un insulto, la rivendicazione di un abietto legato alla terra, una forma di resistenza all’esotizzazione del termine indigeno e alla neutralizzazione del termine autoctono.[9] Nominarsi terrona è un modo per proiettare uno sguardo meridiano sulle relazioni di potere tra nord e sud e non è da intendersi come un ulteriore posizionamento identitario. Il sussulto che accompagna l’uso di questa parola è una pratica di spiazzamento, e nella frattura che si apre tra chi si nomina terrona e chi ascolta si crea lo spazio in cui poter elaborare il posizionamento. Prima di tutto permette di nominare il rischio che il queer diventi un’ulteriore forma di imperialismo culturale, in cui si produce un modo giusto e desiderabile di essere fuori dal sistema dei generi – come quello delle femminelle – omogenizzando tutte le esperienze di resistenza e dissidenza che hanno disobbedito alle aspettative sociali del genere, sminuendo l’esperienza nello spettro del “non ancora”, “non abbastanza”, collocandole indietro rispetto a quella che è la linearità progressista liberale. Allo stesso tempo l’imbarazzo del “terrona” segnala la necessità di radicare le ecologie politiche, e cioè, a partire dalle esperienze dei conflitti territoriali, leggere criticare e resistere alla convergenza di sistemi culturali, politici ed economici volti a definire e governare la “natura”.[10] Questi stessi saperi sono in continua elaborazione grazie a recenti letture, traduzioni, ma anche alla ri-negoziazione dentro spazi politici collettivi come Non una di meno Napoli e Ecologie Politiche del Presente.

Questa riflessione ha le sue radici nella “straordinaria” acqua alta di Venezia dell’autunno del 2019 e si sviluppa in una ricerca lunga una pandemia globale, quindi tutt’ora in corso.[11] Sebbene la speranza sia attraversare questa fase nel più breve tempo possibile, perché i costi in termini di vite – ancor prima che sociali ed economici – sono già insostenibili, lo sforzo più grande è quello di non pensare questa catastrofe in modo puntuale, ma congiunturale; attraversarla come l’annuncio di uno spazio/tempo in cui la straordinarietà degli eventi sarà sempre più la quotidianità del vivere sulla “Terra condannata”.[12] Vivere la con-danna come una dannazione condivisa non solo tra gli oppressi e tener conto nella relazione la Terra stessa implica ripensare l’umanesimo proprio a partire dall’invito di Frantz Fanon, quindi interpellare il dominio e lo sfruttamento che l’occidente ha imposto con il colonialismo; allo stesso tempo significa anche provare a pensare su una scala ecologica la violenza dell’esproprio ben oltre i limiti dell’umanesimo. Non intendo fare del colonialismo una metafora, ma indicare il rapporto che c’è tra ingiustizia sociale e ingiustizia ambientale, il regime di sfruttamento di corpi e territori del sistema sociale ed economico in cui viviamo e le fondamenta del nostro sistema epistemolgico, cioè il modo in cui abbiamo costruito un sistema scientifico e filosofico fondato sulla violenza.

La terra è dannata.[13] Non è una metafora, ma un appello a tutt* i/le dannat* della terra a sollevarsi contro il regime di estrazione e sfruttamento neo-coloniale; una chiamata a creare, se non un nuovo mondo, nuovi modi di fare mondi, lontano dall’ipocrisia e la violenza dell’umanesimo europeo.

A questo punto, dunque, si impone con il carattere dell’urgenza la necessità di comprendere come stare in questa “condanna”, staying with the trouble,[14] e per rispondere a questa necessità Donna Haraway propone una strategia “simpoietica”, letteralmente del fare insieme o, come lei stessa la definisce, “l’arte di vivere col danno”. Nel riposizionarsi col compost e nell’utilizzarlo come strumento critico Haraway ribadisce:

Siamo compost, non postumani; abitiamo l’humusità, non l’umanità. Filosoficamente e materialmente, io sono una compostista, non una postumanista. Le creature, che siano umane o meno, con-divengono insieme, si compongono e decompongono a vicenda, in ogni scala e registro di tempo o di sostanze, in nodi simpoietici, nel mondeggiare e demondeggiare ecologico ed evolutivo dello sviluppo terrestre.[15]

È davvero utile soffermarsi sulle strutture legali, storiche ed epistemologiche che legano le pratiche di coltivazione della terra alla cultura coloniale stessa, ricostruendo una genealogia che affonda le proprie radici nell’impero romano e ancora oggi si manifesta parlando attraverso etimologie comuni e assonanze. Progetti per bonificare e coltivare corpi e menti attraverso l’imposizione della cultura superiore, razionale e illuminata, opposta a una “natura”, selvaggia, imperscrutabile, inquietante da ordinare, sfruttare, inquinare. L’orizzonte della tossicità marca una linea tra vite che devono essere protette e corpi, intere popolazioni, sacrificabili.[16] Dannat* sono proprio coloro che cadono ferit* sotto i confini stessi dell’umano, sotto il non-essere, sotto la terra stessa: napoletana come un verme. Eppure capace di scavare le vie di fuga, produrre humus che non sia troppo umano, ma preparare un terreno di conflitto contro lo sfruttamento.

Questa riflessione rimesta contributi femministi, queer, postcoloniali tramando genealogie non lineari, sperimentando contro la violenza dell’epistemologia occidentale che produce e ordina la natura, muovendosi in un compostaggio che guarda all’interdipendenza e al contatto, dai margini di un mondo che produce se stesso.[17] È proprio la materia compost a farsi indispensabile per considerare oggi la trasformazione, accogliendo la simbiosi come stimolo a pensare e agire a partire dalla vulnerabilità di questo momento, e da qui provare a esplorare nuove forme del desiderio e nuove frontiere tra la vita e la morte, anche per ripensare il nostro ruolo negli ecosistemi fuori dalle gerarchie dell’umano.

Da terrona dunque abbasso lo sguardo verso le terre, non la Terra come essenza dell’universale, ma la molteplicità dei progetti coloniali di terre di conquista, di guerra, di estrazione e sfruttamento. Il compost è un modo di guardare, osservare, accumulare e raccontare la terra che può riparare e che, attraverso le pratiche di alleanze trasversali, ci mostra cosa può accadere quando si investe sulla possibilità delle affinità, sull’interdipendenza, sulla simpoiesi – il fare comune – mentre si disgregano le identità.

Note

  1. Cosa intendo per compost? Intendo esattamente la materia e il processo attraverso cui il rifiuto umido diventa concime nell’agro-ecologia. In realtà qualunque scarto organico – la buccia di una banana, le foglie che cadono dagli alberi, un piccolo non-più-vivente – lasciato in un suolo “vivo” in un certo tempo si degrada diventando parte del terreno, partecipando a quello che viene definito ciclo dell’organico, cioè l’alternarsi di proliferazione e decomposizione che caratterizza il ciclo del vivente. La degradazione biologica di quello che viene considerato scarto, perché non più utile o vivo (o consumato) contribuisce alla biodiversità, dunque alla vitalità e alla ricchezza del suolo, apportando minerali (fosforo e azoto) e sostanze organiche (microflora), contribuendo alla struttura di un suolo nutriente e accogliente per la proliferazione di nuova vita. Nelle compostiere gli scarti biodegradabili vengono messi in appositi spazi o contenitori in cui si prova a tenere sotto controllo la composizione chimica, per renderla favorevole alla trasformazione – avendo cura dell’umidità, della temperatura, della presenza di ossigeno e dell’acidità dell’ambiente – e anche ricca di micro e macrorganismi catalizzatori, cioè che accelerano questo processo, come batteri, funghi e vermi, tipo l’eisenia fetida anche detta verme rosso della California.
  2. Sulla tecnica del compost è possibile leggere Pilar Román, Maria M. Martínez e Alberto Pantoja, Farmer’s Compost Handbook Experience in Latin America, Food and Agriculture Organizations of the United Nations (FAO), Santiago 2015; Jacques G. Fuchs, Willemijn J.M. Cuijpers, Compost types, feedstocks and composting methods, in Handbook for Composting and Compost Use in Organic Horticulture, a cura di André W.G Van der Wurff, Jacques G. Fuchs, Michael Raviv, Aad Termorshuizen, BioGreenhouse COST Action FA 1105, www.biogreenhouse.org, 2016, pp. 29-43. Per approfondire le implicazioni della tecnica del compost nel quadro dell’agricoltura organica e le pratiche rigenerative a partire dalla terra: Masanobu Fukuoka, La rivoluzione del filo di paglia: un’introduzione all’agricoltura naturale, Libreria editrice fiorentina, Firenze 2011; Matteo Mancini, Agricoltura organica e rigenerativa. Gli strumenti, le risorse e le esperienze già attive in Italia, Terra Nuova Edizioni, Firenze 2019.
  3. La rete di relazioni orizzontali che definisce l’ecosistema è rappresentata da Bruno Latour, La Sfida Di Gaia. Il Nuovo Regime Climatico, Meltemi, Milano 2020.
  4. Per una mappa delle aggressioni all’ambiente e dei punti di resistenza in Europa si può vedere il lavoro di Marco Armiero e Ilenia Iengo, Toxic Bios: A Guerrilla Narrative Project Mapping Contamination, Illness and Resistance, in “Undisciplined Environments”, 3 novembre 2017, e consultabile qui: http://www.toxicbios.eu/#/stories]
  5. Sui significati sociali dell’aggressione ambientale si può leggere Stefania Barca, L’Antropocene. Una narrazione politica, “Iaph Italia”, 10 ottobre 2018, consultabile su iaphitalia.org.
  6. Not in my back yard, “non nel mio giardino”, è un’espressione che si è diffusa nei primi anni 2000 per sminuire e stigmatizzare le comunità locali che protestavano per la difesa del proprio territorio contro opere che venivano presentate dalle amministrazioni e dai privati all’opinione pubblica come interventi “assolutamente indispensabili” al “progresso”.
  7. Per comune intendo il verbo, la dinamica processuale e perfomativa delle soggettività che svolgono l’azione del fare beni comuni. Questa differenza tra commoning (come pratica del fare) e i commons (l’oggetto bene comune) è stata elaborata all’interno di spazi politici e culturali che hanno ragionato sul riconoscimento non solo dei beni in sé, ma delle pratiche istituenti delle soggettività e delle comunità che abitano questi spazi. Successivamente al movimento in difesa di beni comuni come acqua e territori (da discariche, inceneritori e grandi opere) abbiamo assistito all’occupazione di spazi come i teatri Valle, Rossi, Garibaldi, Macao, e a Napoli l’Asilo, che hanno di fatto ristrutturato l’infrastruttura teorica e di pratiche per ripensare al commoning come fare. Come riferimento al quadro politico performativo, filosofico ed ecologico dei beni comuni consiglio la lettura dell’intervento di Ilenia Caleo pubblicato in AA.VV. (2016) Commons/Comune: geografie, luoghi, spazi, città, So- cietà di studi geografici, Memorie geografiche, nuova serie, vol. 14. Federica Giardini, Beni comuni, una materia viva, in LABORATORIO VERLAN (a cura di), Dire, fare, pensare il pre- sente, Quodlibet, Macerata 2011, e Politica dei beni comuni. Un aggiornamento, “DWF”, 2, 2012; Nicola Capone Una lunga lotta per l’ambiente. Le assise della città di Napoli (La scuola di Pitagora, Napoli 2020); Lo spazio e la norma. Per un’ecologia politica del diritto (Ombre Corte, Verona 2020).
  8. Il femminismo ha contribuito a creare la consapevolezza che ogni conoscenza è determinata dalla situazione sociale, territoriale, biologica e di genere di chi la detiene: Donna Jeanne Haraway, Saperi situati. La questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale, in Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di Liana Borghi Feltrinelli, Milano 1995, pp. 103-1034; Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio: pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano 2020.
  9. Alcune tracce per un emergente pensiero da terrone: Alessia Acquistapace, Tempo di essere incivili. Una riflessione terrona sull’omonazionalismo in Italia al tempo dell’austerity, in Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di Federico Zappino, Ombre corte, Verona 2016, pp. 59-72; Antonia Anna Ferrante, Pelle Queer Maschere Straight. Il regime di visibilità omonormativo oltre la televisione, Mimesis, Milano 2019.
  10. Un riferimento per le riflessioni sulle ecologie politiche radicali da sud: Trame. Pratiche e saperi per un’ecologia politica situata, a cura del collettivo di Ecologie Politiche del Presente, Tamu, Napoli 2021, e il sito di questa esperienza che ha cuore a Napoli e tentacoli in tutto il meridione: ecologiepolitiche.com.
  11. Nel settembre 2019 ho ricevuto un assegno di ricerca per sviluppare il progetto Chthulucene. L’arte di abitare sulla terra dannata. Finalizzato a introdurre una prospettiva transfemminista e queer nelle Environmental Humanities, era organizzato in diverse fasi di ricerca-azione-perfomance (apprendimento nella ricerca), che ambivano a lavorare in un terreno in cui anche oggetti ritenuti insignificanti, gli “scarti delle discipline”, potevano diventare materia di cura in fermentazione. La metodologia del progetto era definita “scavenger”, metodologia della monnezzara. Mentre la parte speculativa procedeva – e qui si rende conto di una parte di essa – un’ altra parte significativa di questo lavoro si sarebbe dovuta produrre materialmente con la partecipazione di studenti provenienti da ambiti e percorsi disciplinari molto diversi, identificati come “genitori affidatari” della compost box, con cui ci saremmo interrogati, a partire da metodologie differenti, su come costruire un progetto comune, come realizzarlo, ma soprattutto come osservare, narrare, speculare con la materia, dentro di essa: da qui altre domande su cura/curatela. Il progetto nasce con i piedi nella terra e le mani di diverse persone a impastare, ma il lockdown iniziato nel marzo 2020 – tra le altre cose – mi costringe a scrivere della materia stando lontana da essa, e forse la densità di questa scrittura restituisce la difficoltà, la frustrazione, il sudore e l’apnea di quei mesi. Allo stesso tempo mi ha offerto la possibilità di impegnarmi a valutare approcci e strumenti creativi e sviluppare tecnologie che mi permettessero di trovare nuove direzioni per la ricerca, ma soprattutto altre strade di condivisione e contatto a distanza, dando sempre maggiore centralità alla piattaforma di compostaggio virtuale su cui stavo lavorando come parte del progetto. Una nuova fase del progetto si è aperta grazie alla preziosa collaborazione con Ilenia Caleo e gli studenti, le studentesse e le ospiti di Bioficiton. Laboratori per sirene streghe e uova, tenuti online da marzo 2021 e in presenza al Festival di Santarcangelo di Romagna, successivamente pubblicato su “Liberazioni”, 12, 46, settembre 2001. In questa fase sono gemmati nuovi compostaggi virtuali in relazione tentacolare alla prima matrice di piattaforma, ancora visitabile: mastodon.social/@chthulucene]
  12. Tentativi di pensare la Terra come un organismo che si ribella alla propria condanna: Donna Jeanne Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, in “Environmental Humanities”, 6, 2015, pp. 159-165; Donna Jeanne Haraway, Chthulucene. Sopravvivere Su Un Pianeta Infetto, Nero, Roma 2019.
  13. Alcune proposte di ricerca teorica e pratica sulla terra condannata: Ros Gray e Shela Sheikh, The Wretched Earth, in “Third Text”, 32, 233, 2018, pp. 163-175.
  14. La traduzione di trouble sta creando molti problemi alle persone che studiano, traducono, praticano l’attivismo su questi temi. A parte l’inevitabile tradimento in un terreno semantico così dissestato, forse ereditiamo la difficoltà già dal titolo del libro Gender Trouble di Judith Butler, del 1990, tradotto in italiano con Questione di Genere (2013), perdendo forse la possibilità destabilizzante che il termine porta con sé. Per quanto riguarda il più recente trouble harawayiano i tentativi sono molti: ovviamente bisogna segnalare il tentativo di Clara Ciccioni e Claudia Durastanti che firmando la traduzione di Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2019) hanno scelto di dare enfasi ad altri nodi nel titolo. Recentemente ho trovato molto convincente la traduzione di Federica Timeto che ha argomentato a favore di una turbolenza (2021). Specifico queste possibilità per sottolineare che il tema della condanna non è una scelta alternativa di traduzione del trouble, ma una possibilità di ragionarci accanto tra le molte opzioni da esplorare.
  15. È utile annotare che nella traduzione italiana del passo di Haraway, tratto da Chthulucene. Sopravvivere Su Un Pianeta Infetto, era difficile rendere la polisemia del termine humanities: il termine “umanità” non riesce a raggiungere anche i limiti degli studi umanistici a cui l’autrice sta certamente puntando.
  16. L’espressione “orizzonte di tossicità” si muove accanto alla riflessione di Michelle Murphy, studiosa femminista e discendente métis, popolazione nativa delle terre tra Canada e nord Stati Uniti. I suoi studi si concentrano proprio sul rapporto tra colonialità, lavoro riproduttivo e inquinamento come ulteriore forma di violenza coloniale. In particolare Murphy descrive le infrastrutture chimiche come il cammino che la tossicità riesce a fare, attraverso l’aria, l’acqua, la terra, fin dentro i corpi umani e non umani. L’inquinamento dunque ha un carattere dolorosamente distribuito e anche translocale, cioè capace di spingersi costantemente oltre i propri limiti. Allo stesso tempo Murphy è una delle studiose che ha contribuito al dibattitto sulla giustizia riproduttiva, raccontando come il colonialismo e l’inquinamento determinino l’esclusione di alcuni corpi dalla possibilità di riprodursi o di mettere al mondo persone sane. Questo significa che le infrastrutture chimiche non solo non hanno limiti rispetto allo spazio, ma che a causa della “latenza”, cioè il tempo tra l’esposizione e l’apparizione dell’alterazione, che può essere anche molto lungo, attraversano perfino le generazioni. È in questo senso che provo a immagine questo orizzonte, inteso come spazio/tempo a venire, ma già alterato. Sul tema, tra i vari scritti consiglio, di Murphy, Contro la popolazione, verso l’altervita in Making Kin. Fare parentele, non popolazioni a cura di Adele Clarke e Donna Haraway, tradotto in Italiano da Balzano, Ferrante e Timeto, di prossima pubblicazione per Deriveapprodi. Sul rapporto tra tossicità, salute dei corpi e autodeterminazione in Campania si guardi al lavoro di Ilenia Iengo Endometriosis and Environmental Violence: An Embo- died, Situated Ecopolitics from the Land of Fires in Campania, Italy, in “Environmental Humanities”, 14, 2, 2022.
  17. Can the Subaltern Speak?, ci ha chiesto Gayatri Chakravorty Spivak, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di Cary Nelson e Lawrence Grossberg, University of Illinois Press, Champaign-Urbana 1998, pp. 271-313. Chi sta ai margini può parlare? Può diventare soggetto del sapere e della conoscenza? Qual è il ruolo dell’agency nei processi di resistenza all’imperialismo epistemologico?
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