L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto

La persistenza delle ombre. Prima parte

Nell’ambito dello “orrore”, il testo e il racconto cinematografico funzionano in maniera leggermente diversa. In quest’ultimo caso si può giocare molto sulle immagini e sui tempi (la musica nel frattempo lavora alle nostre spalle). L’apparizione è un evento che deve fare sussultare lo spettatore. Bisogna perciò prepararlo, farlo intuire e poi posticiparlo per tenerci dentro la paura che la percezione di una sua imminente epifania provoca. La paura non è perciò legata all’evento in sé, ma al suo differimento. Nella lettura difficilmente una qualsiasi epifania provoca il sussulto orrifico. In ambito testuale bisogna che la scrittura ti coinvolga empaticamente in modo tale da partecipare alle sensazioni che la storia, gli eventi, producono nei personaggi. Questo funziona anche nel medium visuale, ma nel racconto scritto questo aspetto è fondamentale. Un lettore disattento, non coinvolto, non riesce a cogliere il portato orrifico della storia.

L’angoscia, il perturbamento sono la misura e il portato dei racconti dell’orrore. Il perturbamento avviene quando l’empatia non ha strumenti per trasformarsi in simpatia o in antipatia. L’angoscia è una forma di indeterminatezza. Per questo l’ombra, l’indefinito, creano il perturbamento.

Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Il termine tedesco unheimlich dal punto di vista semantico è il contrario di heimlich (da heim, casa) che significa tranquillo, confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa. Un-heimlich significa quindi inconsueto, estraneo, non familiare. Solitamente suscita terrore e spavento ciò che non è familiare o conosciuto, però non tutto ciò che è insolito o nuovo provoca spavento e terrore e men che meno perturbamento. Secondo Freud per risultare propriamente perturbante, l’oggetto deve dunque avere qualche altra caratteristica e dev’essere una caratteristica poco frequente perché la maggior parte delle cose spaventose o terrifiche non sono anche perturbanti. Freud rileva che un significato traslato di heimlich presente nel dizionario della lingua tedesca di Daniel Sanders è anche “tenuto in casa, nascosto”, significati non esattamente antitetici rispetto a confortevole e familiare ma appartenenti a due ambiti sicuramente in contrasto tra di loro. Heimlich presenta dunque una curiosa ambivalenza di significato il secondo dei quali, quello meno usato (cioè misterioso, nascosto) quasi coincide col suo contrario unheimlich. Un-heimlich perturbante significherebbe anche non celato, venuto alla luce, affiorato. Il perturbamento nasce quando in un oggetto o in una situazione si uniscono caratteristiche di estraneità e familiarità in una sorta di “dualismo affettivo”.

Di perturbamento ci ha parlato Masahiro Mori descrivendo il fenomeno della “uncanny valley” (zona perturbante o valle perturbante) in una ricerca che egli pubblicò nella rivista Energy[1]. La ricerca analizza sperimentalmente come la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone, da robot e automi antropomorfi, aumenti al crescere della loro somiglianza con la figura umana, fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce un’inversione delle reazioni emotive positive, destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine, paragonabili appunto allo unheimliche (spaesamento, perturbamento). Come si può vedere dalla figura, il massimo dell’effetto è quello provocato dallo zombie, il morto non morto, l’umano che a differenza degli dei è mortale e che, pur avendo le stesse fattezze e sfattezze degli umani è un non morto. «Prendiamo un esempio: la naturale cessazione delle funzioni corporee. Un evento all’apparenza inevitabile. A volte, tuttavia, può capitare che i morti non ne vogliano sapere di stare nelle loro tombe, o che la morte sopraggiunga solo per il corpo e non per lo spirito» dice un personaggio dell’ultimo racconto. La morte che sopravvive a sé stessa scompaginando tutte le coordinate di senso con le quali esperire il mondo. [2]

Ma l’aspetto perturbante dello zombie è un effetto visivo che si posa su una materia visivamente percepibile. La semplice citazione di uno zombie in un testo non ha di per sé alcun effetto orrifico. In un testo il massimo del perturbante è invece l’ombra.

Nella scrittura è la dissimulazione empatica a fare presa. Il mostrare e il nascondere che ti risucchiano nella storia. Subito dopo, agiscono i significanti, il fatto che l’indistinto e l’ombra ci sono nostro malgrado. Ci si può allora iniziare a chiedere come e perché, per riuscire a capire che la luce non riesce a sconfiggere tutte le tenebre e che senza tenebre il nostro vissuto sarebbe totalmente senza senso. Un limbo lattiginoso dove non può succedere niente, meglio ancora: non può succedere niente di nuovo. Scavare nell’ombra è allora un esercizio che corrisponde al terrore astratto. È nella piega, in un occultamento, oscuramento, il luogo dove possono proliferare le storie non già raccontate. Nel luogo dove il senso può eccedere ogni causazione. È quando il concetto stesso di morte fa vacillare l’ordine delle “cose”: «Può capitare che essa [la morte] non si dia affatto, nel senso di un suo perpetuo protrarsi all’interno di entità non esistenti» dice infatti un personaggio dell’ultimo racconto del libro di Claudio Kulesko. Il morto è infatti l’ente che in quanto morto ha cessato di esistere. È questa la paura della morte. Il massimo del terrore immaginabile dagli umani potrebbe perciò essere forse quello connesso alla Sindrome di Cotard, la convinzione illusoria di essere morti, di avere perso tutti gli organi vitali e tutto il proprio sangue; la sensazione di non vivere, ma di permanere indefinitamente nella propria morte.

Sindrome di Cotard

È la trama indiretta che attraversa la sospensione del senso del racconto intitolato “L’ascensione” dove si esperisce la non realtà vissuta dai già morti e dove si aprono e si chiudono le scatole cinesi dell’esistenza che eccede la non esistenza in vita. Come anche la scatola dove il gatto di Schrödinger (anch’esso citato) permane nella sua condizione di sovrapposizioni di stati per i quali è vivo e morto nello stesso tempo. Una presa d’atto per la quale anche il non essere è qualcosa dal momento che lo nomino. Una Ontologia Orientata agli Oggetti (OOO) portata alle sue estreme conseguenze, qui al servizio di una funzionalità estetica e narrativa che è appunto un modo per strappare le cose dall’indistinto caosmico[3] dal quale esse si generano.

Il terrore come dimensione esistenziale non è legato allo svolgimento dei fatti ma a quelle situazioni nelle quali i fatti condensano in un divenire delle forme che si rifiutano di mostrarsi all’interno di contorni definiti e/o definibili. Il terrore non è infatti cronaca. Non è un contenuto, una storia vera, il terrore ha qualcosa di formale. Soltanto in ultimo la cronaca può emergere e fare manifesta la carica significante che quel semema contiene. Ma anche questo non basta. In realtà basterebbe, ma Kulesko va anche oltre.

Gli umani pensano la loro esistenza a partire da un’eccedenza, quella che chiamano autocoscienza. I processi di individuazione che attraversano la storia dell’Occidente hanno generato l’antropos dell’antropocene. Attraverso l’autocoscienza umana, la circoscrizione del sé provoca un taglio ai flussi desideranti che attraversano la relazione tra le cose. Per questo il protagonista del primo racconto cita Zapfe per il quale l’autocoscienza umana «non sarebbe altro che un organo ipertrofico e dannoso, tanto per noi stessi quanto per le altre specie animali e vegetali. Qualcosa di abissale e allucinatorio che ci costringe a realizzare la sofferenza insita nell’universo e al tempo stesso a negarla, in nome dell’inarrestabile marcia della vita organica e dell’istinto riproduttivo che ne costituisce la chiave di volta. Per queste ragioni, la nostra specie dovrebbe autoeliminarsi […] lasciando che la natura proceda libera e indisturbata il proprio corso». Qui l’orrore dell’esistenza trova il suo sviluppo “naturalmente” perturbante e un esito facilmente intuibile.

Le cose sono soltanto lo scontornamento di grumi sensibili dal continuum della nostra percezione. Un rallentamento dall’infinitezza caotica (caosmica) delle origini. Guattari cita Pascal: «Sì, ora voglio mostrarvi una cosa infinita e indivisibile. È un punto che si muove in ogni direzione a velocità infinita; perciò è ovunque e nello stesso tempo è interamente in ogni singolo luogo».[4] È questo il caosmo, quel continuum originario dove soltanto un rallentamento può dare forma e consistenza alle cose. «La caosmosi non oscilla quindi meccanicamente fra lo zero e l’infinito, fra l’essere e il nulla, fra l’ordine e il disordine: essa rimbalza e germoglia sugli stati di cose, i corpi e i fuochi autopoietici che utilizza come supporto di deterritorializzazione, è caotizzazione relativa attraverso il confronto fra gli strati eterogenei della complessità». Dice Guattari, per poi proseguire: «La potenzialità di evento-avvento di velocità limitate nel cuore delle velocità infinite, costituisce queste ultime come intensità creatrici. Le velocità infinite sono gravide di velocità finite, di conversioni del virtuale in possibile, del reversibile nell’irreversibile, della diversità nella differenza» (p. 112). Si tratta di un’estetica generativa che fonda l’ordine delle cose e dove l’ombra funziona come l’eterno ritorno. Un ritorno a quella mancanza di fondamento che caratterizza la velocità infinita del caosmo. L’ombra è allora pura potenza; potenza senza atto o atto continuamente abortito. Il non essere è annunciato dall’ombra. È il non essere che ci fa vacillare. Ma si tratta del medesimo paradosso che fa sì che il non essere sia. Lo schizo, il gesto creativo, il comunismo, la rivoluzione, il piacere, il desiderio, l’orrore sono tutte cose appartenenti cosmologicamente all’origine. Alla possibilità di vivere l’autopoiesi che nasce nel rallentamento casuale e non causale della velocità infinita di Pascal. L’oggetto degli umani è allora una soggettività plurale che si dispiega a partire dall’intersecarsi delle traiettorie esistenziali delle cose. È in questa evenienza che le ombre hanno allora una loro agency. Ombre che operano non velando ma permettendo una messa in senso che va al di là del senso stesso: quella presunzione «che più avvenimenti debbano necessariamente essere collegati tra loro, e che tale collegamento debba possedere una notazione di senso. […] Il Logos è una menzogna fabbricata per smerciare più vocabolari, e la ratio più regoli […] Quel che accadrà, invece, sarà che tra dieci, cento o persino mille anni, il Senza Fondo si ripresenterà a noi, indossando nuovi travestimenti: Nuove configurazioni, nuove forme di vita, nuovi modi di pensare: Creature al di là di ogni comprensione: cadaveri tenuti assieme da onde elettromagnetiche, macchine intelligenti, prodigi della tecnica. Miracoli elargiti da un Dio cieco e idiota» (pp. 128-129). Sentenzia allora il relatore straordinario del seminario che tratta “Dell’origine e destinazione del nulla di questo mondo”.

La scrittura non è soltanto una tecnica. Tra la cosa in sé e la sua rappresentazione visuale o testuale non c’è coincidenza; la cosa in sé rimane ineffabile. Se ne può descrivere soltanto la traiettoria. Dal punto di vista narrativo è allora un gioco di indizi che, come in un racconto di Conan Doyle, svelano il carattere di interrelazione che determina l’epifania delle cose stesse.

Ombra di Mizuno Ochi a Hiroshima citata in uno dei racconti

Il tutto si subordina poi a quella significanza che si è voluta escludere per esaltare il gesto estetico che sottrae la scrittura dall’ambito della comunicazione. Le ombre non significano niente, ci sono e basta: illuminano il nostro cammino, niente di più. Ma la caduta, l’incubo infinito senza risveglio è quando quell’ombra non si riveli alla fine essere altro che la nostra ombra.

I racconti di Kulesko sembrano scritti per realizzare un disegno unico seppur variegato. Una volontà di decentrare l’umano e di evidenziare quel Noi (titolo di un racconto) patogeno, parassitario e non simbiotico che ispirava il ragionamento di Zapfe. Dall’altra parte, il lato oscuro delle cose, si dimostra essere una cartina di tornasole che rivela l’insensatezza del comando umano asservito al progetto occidentale di dominio. Del suo sforzo ordinatorio e tassonomico che “dividua” (Deleuze) i soggetti lungo la china di una competizione che alla fine non premia nessuno. Il pessimismo con il quale gioca l’autore, che è alla base dei suoi interessi speculativi, non rimanda però a una posizione soltanto passiva. D’altra parte, in tempi di catastrofe, la diserzione è forse la forma più alta di opposizione attiva da poter e dovere esercitare. Senza l’ombra, “la piega”, “la parte maledetta” come luoghi di grasping, di appiglio mitopoietici ci sarebbe infatti soltanto il rumore/silenzio insopportabile di un mondo sottoposto a una partizione discreta sempre più sofisticata, per di più accentuata dal dominio digitale, che soffoca ogni possibile emersione desiderante.

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Claudio Kulesko è un filosofo, traduttore e ricercatore indipendente. Si occupa principalmente di pessimismo, ecologia e teoria speculativa. Per Nero ha tradotto Tra le ceneri di questo pianeta (2019) e Rassegnazione infinita (2022), di Eugene Thacker, e La tragedia della lavoratrice (2022), di Salvage Collective. Assieme a Gruppo di Nun è autore di Demonologia Rivoluzionaria (Nero 2020). Con Andrea Cassini ha scritto Blackened: Frontiere del pessimismo nel XXI secolo (Aguaplano 2021). Suoi saggi e racconti sono apparsi su diverse antologie e riviste online e cartacee.

Claudio Kulesko, L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto, Nero, Roma 2022, pp. 135, € 18.00

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  1. Masahiro Mori (1970), Bukimi no tani – The uncanny valley (K. F. MacDorman & T. Minato, Trans.). Energy, 7(4), 33–35
  2. Gilberto Pierazzuoli, Gioco, giocattoli, robot e macchine umane, Robinson, Torino 2016
  3. Felix Guattari, Caosmosi, Mimesis, Milano 2020
  4. Pascal, B. (1670), Pensées, Guillame Desprez, Saint Prosper; tr. it. di P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 65.