C’è sicuramente un’occorrenza: demistificare il racconto che lega l’antropocene con l’ “antropo”, con la specie umana, con quel quid specifico da individuarsi nella cultura connessa agli umani stessi e quindi contrapponibile con la natura. L’antropo di Antropocene non è però generico e universalizzabile ma è un soggetto con dei caratteri specifici. Ma per fare questa decostruzione non basta scovare dei sinonimi come capitalocene (Moore), piantagiocene (Tsing) chthulucene (Haraway) sino all’agri-logistica invocata da Timoty Mortom, bisogna anche riuscire a imbastire un discorso che provi a rendere conto della singolarità umana e quindi dei caratteri che questa può assumere, tanto da poter diventare quel soggetto che è responsabile di cambiamenti cosi profondi della geosfera da essere, appunto, geologicamente rilevanti. Il decentramento dell’umano, la messa in discussione dei suoi caratteri che lo fanno percepire anche come ontologicamente superiore, non ci possono esimere dal dover prendere in considerazione l’eccezionalità umana pur ridimensionandone il valore che essa può assumere nei confronti con le altre specie e con il mondo tutto. La mia ipotesi è che tra tutte le strade possibili si sia preso quella che ha infine portato alla modernità capitalista e che questa strada sia quella che caratterizza il carattere della cultura occidentale è che sia quindi responsabile dell’attuale disastro.
Già Chakrabarty metteva in discussione l’uso di termini alternativi e più specifici al posto di antropocene in quanto relativi a fenomeni storici che si dipanano su una scala diversa dal punto di vista sia cronologico sia della velocità. Questo per riuscire a dare il peso specifico giusto a eventi che si muovono appunto su scale diverse. Ma quella era un’operazione di tipo epistemologico che aveva però delle contraddizioni pesanti mettendo, in alcuni casi, sulla stessa barca ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Questo non significa che non occorra fare il punto sulla singolarità umana anzi, ne rende invece ancora più urgente una sua presa in carico. È soltanto a partire da questa che si possono individuare a posteriori quei meccanismi e quei dispositivi che caratterizzano l’evoluzione sia biologica sia sociale delle specie. Faccio allora un primo esempio: sicuramente l’impronta umana determinata dal passaggio dal sistema economico di caccia e raccolta a quello agricolo è stata ben diversa ed esplicitata poi dal fatto che quest’ultimo permetteva la creazione di stock e quindi di un surplus produttivo usabile per scopi di potere sia suntuari che economici, ma anche perché apriva a una forma più spinta di divisione del lavoro. Ma il fatto che questo sia stato un passaggio obbligato non è affatto scontato. Il bel libro di Graeber e Wengrow del 2021 e immediatamente tradotto in italiano, dimostra infatti l’esistenza di popolazioni nomadi che coltivavamo ma che non si erano stanzializzate e non producevano surplus, tanto che l’esistenza di infinite biforcazioni sociali che ci hanno portato all’attuale dominio egemonico dell’Occidente e del capitalismo come sua attuale espressione, non nega il fatto che le strade scelte potevano essere diverse e che la storia umana potesse avere allora essa stessa esiti diversi.
Una di queste scelte dirimenti è allora quella di aver privilegiato il lato prometeico dello “sviluppo” occidentale a scapito di quello epimeteico. Qualcosa di simile e di contemporaneo al trionfo dell’apollineo sul dionisiaco che accompagna la storia occidentale, dove il conflitto perdura con un continuativo sforzo di occultamento e di stornamento di quest’ultimo che si lega con femmineo, dimostrando così, l’alleanza tra il patriarcato e le strutture politiche e sociali che si vanno determinando lungo l’asse di questo particolare sviluppo storico. che significano la repressione o la deviazione del desiderio che si accompagna con la compressione della festa e del piacere confinati in recinti sociali determinati sia dal punto di vista spaziale che temporale.
Ivan Illich nel capitolo VII di “Descolarizzare la società” parla di “Rinascita dell’uomo epimeteico”. L’uso dell’aggettivo epimeteico è molto raro, in alcuni dizionari è addirittura assente al contrario del lemma complementare: “prometeico”. Questo perché l’occidente è fortemente segnato da questa secondo aspetto. Quello che invece fa essere per me interessante la figura del fratello che “pensa dopo” (è questo il significato del termine Epimeteo) – termine spesso usato in Grecia come sinonimo di “sciocco”, “ottuso” – è la possibilità di equipararlo in qualche modo al demiurgo pazzo sotteso al personaggio del trickster, al buffone divino, caratteristico di molte culture amerindie. Un demiurgo imperfetto che spiega perciò l’imperfezione del mondo. Ma ci ritorno più avanti. Il mito esiodeo che ci racconta la storia dei due fratelli titani contiene un terzo personaggio: Pandora, “colei che tutto dona”. Prometeo si era raccomandato con il fratello di evitare Pandora, una raccomandazione da questi disattesa che infatti la sposa. Pandora piomba sulla terra ricca di attributi contradditori tra i quali il fascino che fa perdere la testa agli uomini e un vaso (pythos) – con la raccomandazione di non aprirlo mai – che contiene tutti i mali e soltanto una virtù: la speranza. Ovviamente il vaso verrà aperto facendo sì che tutti mali che caratterizzano la condizione umana possano infine manifestarsi (è qui la somiglianza con il trickster), con l’unico contrasto della speranza che infatti Pandora conserva nel fondo del vaso prontamente richiuso. La storia è risaputa ma quello che spesso non si prende in considerazione è la sua connessione con un momento di passaggio, con uno di quei nodi/incroci che caratterizzano le svolte particolarmente significanti nella storia dell’Occidente. Pandora la dea originaria era una dea della terra nella Grecia matriarcale della preistoria, ma al tempo di Esiodo che rinarrò questa storia nella sua forma classica, i greci erano divenuti dei patriarchi moralisti e misogini, terrorizzati al solo pensiero della prima donna. Secondo Illich essi costruirono una società razionale e autoritaria. Escogitarono istituzioni con le quali contavano di tener testa ai mali scatenati. Scoprirono il potere di plasmare il mondo e di fargli produrre servizi che impararono anche ad aspettarsi. La speranza sopravvissuta al cosiddetto comportamento maldestro di Pandora, caratterizzava invece il mondo dove viveva l’uomo primitivo. Egli confidava, per sopravvivere, nella munificenza della natura, nelle elargizioni degli dèi e negli istinti della sua tribù. Il suo rapporto con la natura non era dunque, in origine, un rapporto di dominio o semplicemente quella tra soggetto e oggetto. In quella situazione il monopolio della agenzialità non era umano ma ripartito tra tutti gli enti che entravano in relazione. La “natura”, non a caso donativa, non era infatti un ente inerte ma un agente. Il mito prometeico va invece in un’altra direzione. “La storia dell’uomo moderno comincia con la degradazione del mito di Pandora. […] È la storia dello sforzo prometeico per creare istituzioni che blocchino l’azione dei mali scatenati. È la storia dell’affievolirsi della speranza e del sorgere delle aspettative” (Illich, cap. VII). È qui che Illich introduce la distinzione tra speranza e attesa. “La speranza concentra il desiderio su una persona dalla quale attendiamo un dono. L’aspettativa attende soddisfazione da un processo prevedibile, il quale produrrà ciò che è nostro diritto pretendere” (ibidem). Una previsione che è dunque un’iperstizione, termine oggi di moda proprio perché informa di sé il processo previsionale degli algoritmi al centro del modello di sviluppo capitalistico globale. I greci dell’età classica costruirono una democrazia non certo inclusiva visto che escludeva le donne, gli stranieri e i giovani e si basava ampiamente sul lavoro schiavistico.
“L’evoluzione del mito rispecchia il passaggio da un mondo in cui si interpretavano i sogni a un mondo in cui si facevano oracoli [iperstizioni]”. Propiziazione, interpretazione e divinazione sono corollari di una partita a dadi che gli dèi giocano. Il presagio (l’attenzione e la sua interpretazione) non è allora figlio di una superstizione, semmai di un’ansia di sopravvivenza che, guarda caso, è proprio sinonimo di superstizione). L’accavallamento semantico sta proprio qui. “Il termine ‘superstite’ ci mostra la parentela. Il movimento che va da sopravvivenza a superstizione è lo stesso spostamento semantico che il termine superstizione ha subito e che ha creato non poca confusione in ambito linguistico: Il fatto che una forma che dovrebbe funzionare con il senso diAnteprima modifiche (si apre in una nuova scheda) uno ‘stare sopra’ significhi, invece, un timore infondato del divino, uno smarrimento dell’anima di fronte all’invisibile e al futuro…” (Walter Berardi), costituisce proprio l’indice di questo cambiamento.
“Da tempo immemorabile la dea Terra veniva adorata sulle pendici del monte Parnaso, che era il centro e l’ombelico del mondo. Là, a Delfi (da delphys, utero), Gaia, sorella di Caos e di Eros, dormiva in una grotta. Suo figlio, il drago Pitone, ne sorvegliava i sogni bagnati dalla rugiada e dal chiaro di luna, finché non arrivò dall’oriente Apollo, il dio del Sole e l’architetto di Troia, che trucidò il drago e s’impadronì della grotta. I suoi sacerdoti si presero il tempio. Assunta una vergine del luogo, la mettevano a sedere su un tripode sopra il fumante ombelico della Terra e la intontivano con i fumi, quindi trascrivevano le sue frasi estatiche negli esametri di profezie formulate in modo da avverarsi in qualunque caso”. È su questo versante che si costruisce la cultura occidentale a partire da un primo disincanto. In questa direzione agiscono più dispositivi. La riforma di Clistene che porta a conclusione l’esautorazione della cultura popolare legata ai rapporti clanici e alla religione degli antichi dèi. I due dispositivi di cui parla Margherita Pascucci: il monoteismo e il conio nati entrambi in Grecia intorno al VII secolo a.C. con i quali si crea la possibilità di un pensiero astratto e si costruiscono quelle equivalenze per le quali il denaro è la misura di tutte le cose, che possono così essere confrontate. Aggiungiamo la scrittura alfabetica che trasforma il logos in ratio. La trasformazione delle consuetudini in legge, testimoniata dallo slittamento di senso al quale è sottoposto il termine nomos. La costruzione di sistemi di veridizione che hanno un valore che è dato una volta per tutte, un’aletheia che si svincola dal dialogo attraverso il quale si costruiva in precedenza. E poi su, su sino alla stampa attraverso la quale la scrittura prende definitivamente il dominio sulla voce, passando attraverso l’approdo alla lettura silenziosa che aveva sbalordito Agostino d’Ippona: leggere la parola scritta non è più una operazione di esegetica di ricostruzione vocale del senso, attraverso la sistematizzazione della punteggiatura e delle pause, il testo diventava autosufficiente facendo diventare la scrittura stessa uno strumento ipomnestico: “Se il carattere proprio della realtà fisica consiste nella localizzazione spaziotemporale, la registrazione consente una possibilità di iterazione indefinita che è il carattere proprio della idealità”, dice Maurizio Ferraris, facendoci suonare nell’orecchio un campanello di allarme rispetto alle potenzialità di ipomnesi che i media digitali mettono a disposizione sottraendoci fette sempre più importanti di realtà per metterci sempre più in contatto con una sua rappresentazione. Il ruolo della memoria nella percezione e nel ragionamento è fondamentale: senza ritenzione, non si avrebbe il fissarsi della percezione, e di lì le funzioni successive della immaginazione e del pensiero. Ma i primitivi non erano privi di memoria e di immaginazione, senza memoria, senza ritenzione, la realtà stessa perde i propri connotati. Ma la memoria primitiva era orale e dialogica, la si ricostitutiva attraverso la recitazione, il canto. Attenzione, l’atto recitativo, nelle società magiche, in senso de martiniano, non era unidirezionale, non passava da un detentore a uno spettatore. Lo spettatore partecipava intensamente al rito e ne determinava non soltanto la forma ma anche i contenuti. Non c’era una comunicazione di uno a molti, ma una da uno a uno e viceversa. Un’immaginazione che è anche esplorazione e genesi di possibili. L’utopia contrariamente a quello che si potrebbe pensare, pensa i possibili e non è una forma di pensiero astratta dal reale. È il dispositivo ipomnestico che può astrarsi dal reale.
Ma ecco ancora altri dispositivi: la piantagione che rimanda al piantagionocene ipotizzato da Anna Tsing, le enclosures e la rivoluzione industriale e così via. I media elettrici prima e quelli elettronici dopo, che contribuiscono al secondo disincanto, quello appunto raccontatoci da Ernesto de Martino che parla di “fine del mondo”, di una sensazione pervasiva che toglie il mondo da sotto i piedi a larghi strati della popolazione contadina del sud Italia e in tutti i sud dell’Occidente. Quella fine del mondo che è possibile pensare a partire dallo smembramento delle coordinate di riferimento per tutti questi soggetti. Una perdita che è al centro anche dell’attenzione di Pasolini. La fine del mondo magico che è cifra distintiva dell’Occidente, dell’Occidente prometeico, che sta mostrando i suoi effetti nefasti nell’accondiscendere il capitale offrendogli, allo stesso tempo, ogni tipo di facilitazione per perseguire i suoi fini. Se ipotizzassimo una traiettoria dello sviluppo occidentale essa sarebbe dunque quella che ci conduce, che ci ha condotto, al capitalismo e il cui esito finale non potrà essere altro che un’apocalisse, sia essa di tipo climatico, demografico o atomico. La possibilità di deviare da questo percorso non potrà perciò non tenere conto di questi aspetti. Questo non significa fare a meno di un’infinità di strumenti tecnici, ma dovrà principalmente basarsi sul recupero del rapporto con l’altro. Su forme collaborative generate dal dialogo perenne con l’altro. Recuperare il desiderio, la pulsione verso l’altro, il desiderio di essere desiderati dall’altro.
Dal punto di vista dei ragionamenti possibili sia per leggere la storia anche in base a queste considerazioni ma anche per trovare appunto delle vie di fuga allo stato presente delle cose, individuo qui alcuni filoni speculativi o campi di indagine. Indagare il fondo epimeteico del mondo, un demiurgo fallace che apre il fare della specie alle condensazioni (agencement) etiche ed estetiche dello sfondo caosmico del mondo (l’ultimo Guattari). Alla potenza, cioè, dei flussi desideranti e della mitopoiesi umana. A quell’eccesso, a quello ex-cedere, a quel difetto che caratterizza la specie umana per colpa/merito della creazione epimeteica stessa. Una descrizione del postumano che emerge dal conflitto tra i due titani. Un’analisi che faccia anche i conti con i cambi di paradigma e la conseguente rivoluzione antropologica che l’universo digitale – etero diretto dall’algoritmo di scopo (il profitto) – cerca di imporre.
Ho parlato di Occidente anche perché non ho gli strumenti culturali per estendere il mio discorso al resto del mondo, se non il riferimento agli imperi dispotici orientali raccontatici da Nietzsche e Marx. Bisogna così fare riferimento per esempio al tentativo di recuperare gli strumenti concettuali legati al mondo magico in un’operazione simile a quella che fa Federico Campagna con il suo “Magia e Tecnica”; per poi continuare con le indagini che Yuk Hui fa sulla tecnica Cina con il suo “Cosmotecnica”; sino al rimettere al centro dell’attenzione non soltanto il dovuto ridimensionamento della centralità umana nei processi di interazione con le altre specie e con l’ambiente tutto, ma anche alla costruzione di forme di ontologia non gerarchiche dove le mitologie amerindie ci possono essere di aiuto. Su questo versante, riprendendo le osservazioni dalle quali sono partito, è fondamentale fare il punto sulla indiscutibile eccezionalità umana che non deve permettere e non giustifica nessuna appropriazione e nessun dominio sulle altre specie, viventi e non, ma che rimanda a un soggetto eccentrico o a quelle “eterotopie dell’umano” di cui parla Ubaldo Fadini.
È qui che si apre il discorso sulle agency e quindi sia sul soggetto e sull’oggetto e sul loro rapporto, riprendendo tutti i ragionamenti sulla soggettivazione di Deleuze nel suo corso su Foucault, quelli di Menong sugli oggetti e gli “Iposoggetti” di Morton, per approdare a quelli che Agamben fa su “essenza ed esistenza” quando dice: «Senza la partizione della realtà in essenza ed esistenza e in possibilità (dinamys) e attualità (energeia), né la conoscenza scientifica né la capacità di controllare e dirigere durevolmente le azioni umane che caratterizzano la potenza storica dell’Occidente sarebbero stati possibili» (Agamben, L’irrealizzabile), prendendo atto infine che forse la salute del mondo ne avrebbe probabilmente giovato.
Lo scontro stesso destra e sinistra rispecchia in parte la partizione ipotizzata qui sopra. Uno dei temi dell’Alt-right è infatti il tramonto dell’Occidente. È questo il terreno che foraggia le destre populiste e fasciste dell’Occidente che tentano di egemonizzarlo. Un discorso legato alla perdita di certi privilegi che le classi medie – ma anche molte delle classi subalterne – percepiscono nettamente. La cartografia dei meta-equilibri geopolitici mostra anch’essa una perdita del potere dell’Occidente atlantico di fronte all’avanzata delle spinte autonome espresse da diversi paesi asiatici e alla maggioranza di quelli dell’America del sud, con l’Africa ormai acquistata dalla Cina che mette in atto così un nuovo modo di fare colonialismo. La ricaduta che questa situazione sulle lotte ambientaliste è così pesantissima alimentando la spinta verso il negazionismo da parte di molti abitanti dell’Occidente che sono disponibili a mettere in campo situazioni mitigatrici che non mettano però in discussione il loro stile di vita, quei pur minimi privilegi di cui parlavo proprio qui sopra.
Tutte le immagini sono state create da una AI su input dell’autore
Gilberto Pierazzuoli
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