Rapporto Oxfam sulle disuguaglianze: cosa ce ne facciamo dei suoi dati?

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Ieri, come ogni anno, Oxfam ha pubblicato il suo rapporto sulle disuguaglianze nel mondo. Spoiler: anche quest’anno sono aumentate. In questi giorni, come ogni anno, migliaia di persone nel mondo, mentre scrollano le home dei propri social, si soffermano mezzo secondo su questa “notizia”, per passare immediatamente oltre. Spoiler: fanno bene.

Da quando Truman nel 1949 tenne il famoso discorso sugli aiuti ai Paesi “sottosviluppati”, la Ragione Umanitaria che l’Occidente ha posto a corollario delle proprie politiche post-coloniali si è più volte sgretolata sotto i colpi del conflitto sociale. Le lotte di liberazione, armi in pugno, portate avanti negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale nei paesi dell’allora cosiddetto Terzo Mondo, ne furono la punta di diamante; ma anche in Occidente, e in Italia lo sappiamo bene, la spinta esercitata dalla classe operaia e dalle componenti giovanili degli anni ’60 e ’70 misero presto in discussione la “promessa” keynesiana di un mondo giusto da raggiungere attraverso riforme in Parlamento e uno sviluppo globale lineare.

Nel corso degli anni ’70, il fallimento della politica “moderna” di fronte alle nuove soggettività emergenti ha consentito ai nostri nemici di classe affondi fino a poco tempo prima inimmaginabili, in termini di ristrutturazione sistemica e di repressione politica su larga scala. I nuovi soggetti, non più “lavoratori”, ma abitanti delle periferie metropolitane, hanno scelto come tempo di vita il presente, riscoprendo la sicurezza immediata dell’individualismo e la comodità di una rassegnata disillusione.

Su questi sentimenti del disincanto sembra fondarsi oggi la ribellione alle regole della società e del mercato, e la soddisfazione negata al vecchio mito della “vita-progetto” viene riscoperta nella ricerca del rispetto sul territorio e dell’atto illegale fine a se stesso, propedeutico al divertimento della sfida, della provocazione, della produzione di adrenalina.

Una vita schiacciata sul presente, perché il futuro è una menzogna: chi prova a crederci finisce subissato dalle proprie ansie depressive, per paura di non arrivare mai a destinazione, di non essere mai abbastanza. Fortuna che il mondo sembra ancora provarci, nonostante tutto, e allora se la politica ha fallito non ci rimane che il sociale: la prossima manifestazione non convincerà nessun imprenditore e nessun politicante a riconoscere le nostre rivendicazioni. Eppure ci andremo, ma per sfogarci, per incontrare e conoscere persone un po’ simili a noi, con cui ritrovare un po’ di fiducia, al limite per provare a scopare.

Tra questi desideri, quello della libertà da schemi prestabiliti, che vengono abbandonati non appena iniziano a strutturarsi, e quello di trovare un senso di vita, qualunque esso sia, per quanto effimero, con i propri amici e compagni di vita. La politica fa ancora parte degli strumenti a nostra disposizione: ce lo dicono le rivolte urbane globali e quelle forme sociali, oggi marginali, che eppure canalizzano questa ricerca di senso entro forme antagoniste.

Oggi non è il tempo dei dati, dei tecnicismi, dello studio fine a se stesso. È il tempo dell’odio contro il nostro senso di impotenza, contro il mondo che ci costringe entro schemi di un’impossibile normalità. È il tempo dell’amore nei confronti della follia a tutti i costi, purché ci consenta di camminare sulla testa dei re. Il vero problema non è il problema: è la risposta che diamo al problema.

Frustrazione, opportunismo, isolamento, depressismo, paura: sono spesso l’inizio e la fine di una vita di merda. Siano la miccia per riaccendere il fuoco della vita insieme.

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Laureato in Antropologia culturale ed etnologia all’Università di Bologna, attualmente dottorando in Ingegneria dell'Architettura e dell'Urbanistica alla Sapienza Università di Roma.

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